Archivio storico italiano, serie 3, volume 13 (1871)/Rassegna bibliografica/Niccolò Machiavelli nel suo Principe

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Bartolomeo Aquarone

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Niccolò Machiavelli nel suo Principe, ossia il Machiavellismo e i Politici nel nostro secolo, per l’avvocato Andrea Angelini. - In 8vo, di pag. 128. Milano, tip. degli Autori-editori.


Questo è il titolo d’un volumetto, pubblicato parecchi mesi or sono in Milano dall’avv. Andrea Angelini. L’argomento è grave, come il titolo suona; e l’A. dividendo in tre parti il [p. 319 modifica]suo lavoro, nella prima intende a fare l’esposizione delle Condizioni d’Italia nei primordii del secolo XVI. In questo studio, a parer nostro, si trascende troppo. Pigliando le mosse dal secolo XVI, si sale a portare giudizio di tutta l’età di mezzo; e accettando con eccessiva fiducia le parole su quella età del medesimo Segretario, si riesce esclusivi e incompleti. iSel secolo XVI non si era in condizioni di giudicare quel periodo di tempo. Essendosi tuttavia al limite di quella età che terminava, e a quello dell’età moderna che incominciava, uno non si trovava in grado di parlarne con la pacatezza voluta pei giudizi storici. Da allora in oggi sono troppo mutati i dati e gli elementi per formarsene un criterio. Di tutti que’ fenomeni di scadimento morale, di sfasciamento d’ogni ordine politico, di negazione sistematica e vicendevole - del laicato e del chiericato - d’ogni diritto e d’ogni dovere; in oggi va portato un giudizio differente da quello che si emetteva nel secolo XVI. E se al Machiavelli venivano scritte nei Discorsi - libro I, cap. XII - le acerbe parole rispetto al Pontificato che l’A. riporta a pag. 15; come pure, nel Principe e nelle Storie, quelle rispetto alle altre pretese della medesima Curia Romana circa le esenzioni delle persone ecclesiastiche dai tribunali dello Stato; circa l’ingerenza negata ai giudici civili nelle cause matrimoniali, e in quelle per le decime, per i giuspatronati, per i beneficii; e che quindi lo Stato dovesse lasciar liberi i tribunali ecclesiastici nell’emettere decreti, nel citare ed esaminare e anche condannare le persone senza riguardo alle leggi proprie del paese; e che que’ tribunali avessero una particolare ed esclusiva amministrazione; e che di più lo Stato dovesse prestar loro man forte ogni volta che fosse occorso; e dovesse inoltre ritenere scaduti dai diritti civili e politici gli eretici e i loro fautori; e si dovessero riconoscere inviolabili gli asili per i malfattori, nelle chiese e nei monasteri; de’quali monasteri e chiese si dovessero ancora accettare le tante immunità, e rispettare le decime che riscuotevano dalle popolazioni; mentre invece pretendevasi lo Stato abbisognasse del beneplacito pontificale per imporre nuove tasse; e, oltre a tutto questo, tollerare, come continua l’A., «gli eccitamenti alla ribellione, la privazione di regni, la spogliazione di sudditi, la inibizione di [p. 320 modifica]commercio e di contatto, le persecuzioni sanguinarie mediante roghi ed altri stromenti non meno infami ed esecrati: l’offrire in preda stati e proprietà, e le persone in servitù, e il regicidio insinuare dal confessionale e indi propugnare dal pergamo»1; cose simili, a parer nostro, non si hanno più a scrivere in pieno secolo XIX. L’età di mezzo aveva le sue infelicità - e quale non le ha? - ma come la medesima parola suona, stando di mezzo tra un’età che si spegneva e un’altra che si iniziava - da Colombo a Lutero, - va giudicata con vedute più comprensive, con più estesa sintesi, con maggiore fiducia nello svolgimento continuato dell’umanità. Un Italiano su quella età indirizzava ultimamente queste parole al Concilio riunito in Roma: «Io non sono ingrato a quell’epoca, nè irriverente a quelle grandi rovine. Non dimentico l’immenso passo che la fede, in nome della quale siete oggi raccolti, fece muovere sulla via del suo sviluppo, verso il fine assegnato all’umanità; e che oltre all’unità dell’umana famiglia, all’eguaglianza e all’emancipazione delle anime, frutto del vostro dogma, quella fede salvò le reliquie della civiltà latina anteriore, e riconquistò sugli invasori barbari la vita semispenta della mia patria, risuscitandola alla coscienza d’una seconda missione nel mondo. La salvezza, procacciata in tempi d’anarchia e d’ignoranza, dall’unità della vostra gerarchia, al Cristianesimo; e quindi all’incivilimento europeo -l’amore ai poveri, agli afflitti, ai diseredati della società, che scaldò l’anima dei primi tra i vostri vescovi e papi - le dure battaglie ch’essi in nome d’una legge morale sostennero contro gli arbitrii e la ferocia dei signori feudali e dei re per conquista - la grande missione, oggi fraintesa da quanti nulla sanno e nulla intendono di storia, compita da quel gigante d’intelletto e d’energica volontà che assunse il nome di Gregorio VII, e la feconda vittoria ch’egli diede alla potenza dell’anima sulla forza del regio ferro, all’elemento italico sul germanico - le missioni conquistatrici di popoli semi-barbari a civiltà - l’impulso dato all’agricoltura dai monaci dei primi vostri secoli - la lingua dei nostri padri serbata - una splendida epoca d’arte [p. 321 modifica]ispirata dalla fede nel vostro dogma - i lavori eruditi dei vostri Benedettini - l’insegnamento gratuito iniziato - gli istituti di beneficenza - le vostre suore della Misericordia; io ricordo tutto di voi, e mi prostro davanti al vostro passato». - Della quale prima parte dello scritto dell’Angelini, basterà qui aggiungere: che non si ha più in oggi a ritener per buona la versione del Machiavelli sulla battaglia d’Anghiari; imperocchè dove egli dice mortovi un solo uomo, «non di ferite o d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto»; una scrittura pubblicata, qualche anno addietro, in questo medesimo Archivio Storico, racconta invece come vi fossero morti non pochi uomini da ciascun lato dei combattenti.

Venuto quindi alla parte seconda: Il Machiavelli maestro di libertà nel suo Principe, l’A. trovasi forse più a suo bell’agio, discorrendone. Egli ha studiato e svolto il Principe accuratamente, diligentemente; e per essere meglio determinata della prima, in questa seconda parte l’A. si mostra più sicuro ne’ suoi procedimenti. Se il Foscolo, ne’ Sepolcri, aveva già detto: Il Principe essere inteso a far sentire alle genti di quante lacrime e sangue grondi lo scettro; il nostro A. pare non acconsentire appieno in tale opinione. A suo giudizio, il Segretario fiorentino voleva davvero suscitato il potente che valesse alla liberazione della patria; e ne scrive: «Comprese (il Machiavelli) essere necessità che il prestigio, il genio dell’individuo, reso istrutto della natura indeclinabile e dei governi e degli uomini, si erigesse despota assecondato dal popolo, sopperisse alla inettezza delle masse nelle cose di Stato; con animo franco e risoluto sfidasse a man salva le intemperie dei tempi, l’ambizione e le insolenze dei grandi, la superbia e l’avarizia dei principi, le boriose grettezze repubblicane, gli anatemi, le maledizioni del papato; e, fedele interprete delle leggi della natura, magnanimo e liberale e insieme fulmine di guerra, abbattesse, sterminasse tutta quanta quella serie innumerevole di ostacoli che impedivano il miglior benessere della Penisola, disfacesse le sette, la propria nazione costituisse ad unità, indipendente e libera»2.

[p. 322 modifica]E dopo qualche altra pagina, continua: «A dir breve: un principe per conseguire l’unità della nazione, l’unità per conseguire l’indipendenza, e l’indipendenza per conseguire la libertà, può essere la formula più logica che riassuma in sè tutto il libro del Principe3; tesi che distendesi a svolgere e commentare e illustrare per altre tre e più pagine; finche giunga al capo VII del Principe, nel quale Cesare Borgia dal Machiavelli è francamente indicato per quella missione. A questo punto l’Angelini si trova in aperta opposizione col Ferrari. Lo storico delle Rivoluzioni d’Italia, negando l’opportunità, nel secolo XVI, della dinamica storica accettata dal Machiavelli nello svolgimento dell’umanità, all’individuo vuole invece sostituito il principio; e si esprime: «Combattendo per l’Italia, Machiavelli indicava la via che le nazioni devono percorrere: le nostre rivoluzioni si sviluppano dietro le leggi da lui determinate; le nostre lotte sono governate dalle sue teorie; i nostri uomini sono anticipatamente giudicati dai modelli ch’egli propose. Quel politico risorgimento ch’egli desiderava per l’Italia del secolo XVI, non è altro che il risorgimento dell’89, che l’Europa intera si sforza di attuare in ogni Stato. Noi lavoriamo tutti sul disegno da lui concepito; la nostra fede ha per assunto di realizzare quel progresso ch’egli vagheggiava a traverso la risurrezione della antichità greco-romana.... Havvi una cosa alla quale non pensava punto, un fine che non prevedeva; e questo raggiunge. La grand’arte di Machiavelli è per essenza arcana; la si sveli: è individuale; si franga questo simbolo dell’individuo; al luogo degli individui si pongano i principii; e Machiavelli indicherà la teoria di tutti i principii che trionfano, voglio dire di tutte le rivoluzioni che compionsi nel mondo»4. Alle quali notevoli linee l’A. obbietta, che le vedute di tale sintesi a lui paiono, più che «produzioni del genio,... giudizi in molta parte strambi e contradittorii»5; amare parole che vorremmo evitate, da chi pure propugna con calore la causa delle libertà popolari. - E l’Angelini accettando il Cesare Borgia come l’uomo il quale davvero abbia avuto in animo [p. 323 modifica]la liberazione della patria, vi spende intorno il capo XIV, XV, XVI, XVII, XVIII, XIX, e il XX. E dopo di avere raccolto gli aforismi che il Machiavelli era venuto via via stabilendo, come questi: «Che la patria si debbe difendere o con ignominia o con gloria»; che «dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione nè di giusto, nè di ingiusto, nè di pietoso, nè di crudele, nè di laudabile, nè d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita, e mantengale la libertà»6; - e dopo aver enumerati i suoi meriti - del Valentino - nell’essersi disfatto delle armi mercenarie, sempre vili e pericolose; e di avere invece cercato di rendersi formidabile per armi proprie; ed essersi così composto un esercito interamente d’indigeni, ne riesce a questa conclusione: «Sì, gli è ormai tempo, affè d’Iddio, che al duca si tributi quell’encomio che meritamente gli è dovuto da chiunque con animo imparziale e scevro di preconcette idee, studii le condizioni vere nelle quali languiva l’Italia nei primordii del secolo XVI; gli è ormai tempo, dico, che a titolo di riparazione gli sia resa una postuma giustizia. Se dunque il Machiavelli, nel suo libro del Principe, eresse al duca tale un monumento, che è imperituro; gli Italiani del secolo XIX, imitando quell’immenso ingegno, il creatore della Politica, gli erigano almeno in Campidoglio tale un marmoreo busto, che, espiando le contumelie del passato, attesti alla presente e alle future generazioni la loro savia benemerenza»7.

Nulla meno che a questo. Ma no; e se l’A. nell’ultima parte: Niccolò Machiavelli moralista nel suo Principe, partendosi dal principio che esista un dualismo in fatto di morale; e che vi siano due modi di combattere: l’uno con le leggi, l’altro colla forza propria, il primo dell’uomo, il secondo della bestia; e che sia però necessario ad un principe «saper bene usare la bestia e l’uomo»8; e che per questo rammenti il mito di Achille dato a nutrire a Chirone Centauro, che era mezzo bestia e mezzo uomo; se intende a [p. 324 modifica]mostrare, che in caso di stretta necessità, si abbia ad adoperare la frodo, la violenza e il tradimento per la salvezza della patria; senza tenere alcun conto del giusto, del pietoso, del laudabile, egli s’inganna; e riesce a nessuna conclusione pratica, accettabile dagli uomini delle libertà de’ popoli. Sono queste teoriche, a Dio mercè, oramai invecchiate. De’ tradimenti, delle violenze, delle frodi, se ne sono vedute anche troppe; e la coscienza pubblica ha capito, che non riescono se non a scapito della emancipazione popolare, e sempre sono invece a profitto degli interessi de’ pochi; e per l’ammazzamento del Rossi in Roma, del Lincoln negli Stati-Uniti, del Prim in Ispagna, per non uscire dal giro di pochi anni, si è avuto la prova e controprova, da chi e per chi siansi adoperati siffatti modi. E se una volta, all’imitazione classica, assumevano presso il volgo simili provvedimenti qualche cosa di eroico; in oggi invece si chiamano semplicemente assassinii. Creda l’Angelini, che l’apoteosi di uomini come il Borgia, il marmoreo busto ch’egli propone gli sia eretto in Campidoglio, non educherebbero a nessun nobile pensamento il popolo italiano. La patria, la libertà, l’emancipazione delle plebi, si acquistano e si assodano per i doveri da ognuno via via compiuti, dall’uomo di Stato sino al bracciante. E forse dalla immensa lotta che si sta combattendo nel cuore della Francia, apparirà come la virtù e il sacrificio, non le arti politiche, abbiano potuto salvare la patria; e i Parigini che si difendono sino a che abbiano di che mangiare, insegneranno della politica onde abbisognano le nazioni, assai meglio del Principe e di parecchi Cesare Borgia insieme.

E che dunque del libro dell’avv. Angelini? Non ostante le mende che vi si sono notate, pare a noi che s’abbia a tenere in molto conto come studio storico - non politico - dell’arte di Stato; e aggiungiamo persino, che in qualche modo esso possa servire quasi di complemento al libro della Filosofia Politica di lord Brougham, in quella parte nella quale si tratta degli Stati italiani. E diremo inoltre all’avv. Angelini, che dalla intestazione del suo libro vorremmo tolte le parole: Il Machiavellismo e i Politici del nostro secolo; come quelle che non quadran punto nei limiti di tale studio; e forse [p. 325 modifica]anche quelle onde ebbero la prima origine i deviamenti, dai quali, a parer nostro, il valore del libro si trova alquanto scemato.

Di Siena, 8 gennaio 1871.

Bartolommeo Aquarone.          




Note

  1. Pag. 17.
  2. Pag. 50.
  3. Pag. 59.
  4. Pag. 75-76.
  5. Pag. 77.
  6. Pag. 93.
  7. Pag. III.
  8. Pag. 119.