Artaserse/Atto secondo

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Atto secondo

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Atto primo Atto terzo
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ATTO SECONDO

SCENA I

Appartamenti reali.

Artaserse e Artabano.

Artaserse. Dal carcere, o custodi, (nell’uscire verso la scena)
qui si conduca Arbace. Ecco adempite
le tue richieste. Ah! voglia il ciel che giovi
questo incontro a salvarlo.
Artabano.  Io non vorrei
che credessi, o signor, la mia domanda
pietá di padre o mal fondata speme
di trovarlo innocente. È troppo chiara
la colpa sua: deve morir. Non altro
mi muove a rivederlo
che la tua sicurezza. Ancor del fallo
è ignota la cagione,
sono i complici ignoti: ogni segreto
tenterò di scoprir.
Artaserse.  La tua fortezza
quanto invidio, Artabano! Io mi sgomento
d’un amico al periglio;
tu non ti perdi, e si condanna il figlio.
Artabano. La fermezza del volto
quanto costa al mio core! Intesi anch’io

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le voci di natura; anch’io provai
le comuni di padre
deboli tenerezze:
ma fra le mie dubbiezze
il dover trionfò. Non è mio figlio
chi mi porta il rossor di sí gran fallo:
prima ch’io fossi padre, ero vassallo.
Artaserse. La tua virtude istessa
mi parla per Arbace. Io piú ti deggio
quanto meno il difendi. Ah! renderei
troppo ingrata mercede a’ merti tui,
se senza affanno io ti punissi in lui.
Deh! cerchiamo, Artabano,
una via di salvarlo, una ragione,
ch’io possa dubitar del suo delitto.
Unisci, io te ne priego,
le tue cure alle mie.
Artabano.  Che far poss’io,
s’ogni evento l’accusa, e intanto Arbace
si vede reo, non si difende e tace?
Artaserse. Ma innocente si chiama. I labbri suoi
non son usi a mentir. Come in un punto
cangiò natura? Ah! l’infelice ha forse
qualche ragion del suo silenzio. A lui
parli Artabano: ei svelerá col padre
quanto al giudice tace. Io m’allontano.
In libertá seco ragiona: osserva,
esamina il suo cor. Trova, se puoi,
un’ombra di difesa. Accorda insieme
la salvezza del figlio,
la pace del tuo re, l’onor del trono.
Ingannami, se puoi, ch’io ti perdono.
               Rendimi il caro amico,
          parte dell’alma mia;
          fa’ che innocente sia,
          come l’amai finor.

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               Compagni dalla cuna
          tu ci vedesti, e sai
          che in ogni mia fortuna
          seco finor provai
          ogni piacer diviso,
          diviso ogni dolor. (parte)

SCENA II

Artabano, poi Arbace con alcune guardie.

Artabano. Son quasi in porto. Arbace,
avvicinati: e voi (alle guardie)
nelle prossime stanze
pronti attendete ogni mio cenno. (partono)
Arbace.  (Il padre
solo con me!)
Artabano.  Pur mi riesce, o figlio,
di salvar la tua vita. Io chiesi ad arte
all’incauto Artaserse
la libertá di favellarti. Andiamo:
per una via che ignota
sempre gli fu, scorgendo i passi tui,
deluder posso i suoi custodi e lui.
Arbace. Mi proponi una fuga,
che saria prova al mio delitto?
Artabano.  Eh! vieni,
folle che sei. La libertá ti rendo;
t’involo al regio sdegno,
agli applausi ti guido e forse al regno.
Arbace. Che dici! Al regno?
Artabano.  È da gran tempo, il sai,
a tutti in odio il regio sangue. Andiamo:
alle commosse squadre
basta mostrarti. Ho giá la fede in pegno
de’ primi duci.

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Arbace.  Io divenir ribelle?
Solo in pensarlo inorridisco. Ah, padre,
lasciami l’innocenza!
Artabano.  È giá perduta
nella credenza altrui. Sei prigioniero,
e comparisci reo.
Arbace.  Ma non è vero.
Artabano. Questo non giova. È l’innocenza, Arbace,
un pregio, che consiste
nel credulo consenso
di chi l’ammira; e, se le togli questo,
in nulla si risolve. Il giusto è solo
chi sa fingerlo meglio, e chi nasconde
con piú destro artificio i sensi sui
nel teatro del mondo agli occhi altrui.
Arbace. T’inganni. Un’alma grande
è teatro a se stessa. Ella in segreto
s’approva e si condanna,
e placida e sicura
del volgo spettator l’aura non cura.
Artabano. Sia ver: ma l’innocenza
si dovrá preferir forse alla vita?
Arbace. E questa vita, o padre,
che mai la credi?
Artabano.  Il maggior dono, o figlio,
che far possan gli dèi.
Arbace.  La vita è un bene,
che, usandone, si scema: ogni momento
ch’altri ne gode, è un passo
che al termine avvicina, e dalle fasce
si comincia a morir quando si nasce.
Artabano. E dovrò per salvarti
contender teco? Altra ragion per ora
non ricercar che il cenno mio. T’affretta!
Arbace. No, perdona: sia questo
il tuo cenno primiero
trasgredito da me.

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Artabano.  Vinca la forza
le resistenze tue. Sieguimi! (va a prenderlo)
Arbace. (si scosta) In pace
lasciami, o padre. A troppo gran cimento
riduci il mio rispetto. Ah! se mi sforzi,
farò...
Artabano.  Minacci, ingrato?
Parla, di’: che farai?
Arbace.  Nol so; ma tutto
farò per non seguirti.
Artabano.  E ben, vediamo
chi di noi vincerá. Sieguimi, andiamo!
(lo prende per mano)
Arbace. Custodi, olá!
Artabano.  T’accheta.
Arbace.  Olá! custodi,
rendetemi i miei lacci. Al carcer mio
guidatemi di nuovo.
 (Artabano lascia Arbace, vedendo i custodi)
Artabano.  (Ardo di sdegno.)
Arbace. Padre, un addio.
Artabano.  Va’, non t’ascolto, indegno!
               Arbace. Mi scacci sdegnato,
          mi sgridi severo:
          pietoso, placato
          vederti non spero,
          se in questi momenti
          non senti pietá.
               Che ingiusto rigore!
          che fiero consiglio!
          scordarsi l’amore
          d’un misero figlio,
          d’un figlio infelice;
          che colpa non ha. (parte con le guardie)

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SCENA III

Artabano, poi Megabise.

Artabano. I tuoi deboli affetti
vinci, Artabano. Un temerario figlio
s’abbandoni al suo fato. Ah! che nel core
condannarlo non posso. Io l’amo appunto
perché non mi somiglia. A un tempo istesso
e mi sdegno e l’ammiro,
e d’ira e di pietá fremo e sospiro.
Megabise. Che fai? che pensi? Irresoluto e lento,
signor, cosí ti stai? Non è piú tempo
di meditar, ma d’eseguir. Si aduna
de’ satrapi il Consiglio; ecco raccolte
molte vittime insieme. I tuoi rivali
lá troveremo uniti. Uccisi questi,
piana è per te la via del trono. Arbace
a liberar si voli.
Artabano.  Ah, Megabise,
che sventura è la mia! Ricusa il figlio
e regno e libertá. De’ giorni suoi
cura non ha: perde se stesso e noi.
Megabise. Che dici!
Artabano.  Invan finora
con lui contesi.
Megabise.  A liberarlo a forza
al carcere corriamo.
Artabano.  Il tempo istesso,
che perderemo in superar la fede
e il valor de’ custodi, agio bastante
al re dará di preparar difese.
Megabise. È ver. Dunque Artaserse
prima si sveni, e poi si salvi Arbace.
Artabano. Ma rimane in ostaggio
la vita del mio figlio.

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Megabise.  Ecco il riparo.
Dividiamo i seguaci: assaliremo
nell’istesso momento,
tu il carcere, io la reggia.
Artabano.  Ah, che divisi
siamo deboli entrambi!
Megabise.  Ad un partito
convien pure appigliarsi.
Artabano.  Il piú sicuro
è ’l non prenderne alcuno. Agio bisogna
a ricompor le sconcertate fila
della trama impedita.
Megabise.  E se frattanto
Arbace si condanna?
Artabano.  Il caso estremo
al piú pronto rimedio
risolver ne fará. Basta, per ora,
che a simular tu siegua e che de’ tuoi
mi conservi la fede. Io cauto intanto
a sedurre i custodi
m’applicherò. Non m’avvisai finora
d’abbisognarne; e reputai follia
moltiplicare i rischi
senza necessitá.
Megabise.  Di me disponi
come piú vuoi.
Artabano.  Deh! non tradirmi, amico.
Megabise. Io tradirti! Ah! signor, che mai dicesti?
Tanto ingrato mi credi? Io mi rammento
de’ miei bassi principi. Alla tua mano
deggio quanto possiedo: a’ primi gradi
dal fango popolar tu mi traesti.
Io tradirti! Ah! signor, che mai dicesti?
Artabano. È poco, o Megabise,
quanto feci per te. Vedrai s’io t’amo,
se m’arride il destin. So per Semira

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gli affetti tuoi: non li condanno, e penso...
Eccola. Un mio comando
l’amor suo t’assicuri, e noi congiunga
con piú saldi legami.
Megabise.  Oh qual contento!

SCENA IV

Semira e detti.

Artabano. Figlia, è questi il tuo sposo.
Semira.  (Aimè che sento!)
E ti par tempo, o padre,
di stringere imenei, quando il germano...
Artabano. Non piú. Può la tua mano
molto giovargli.
Semira.  Il sagrifizio è grande.
Signor, meglio rifletti. Io son...
Artabano.  Tu sei
folle, se mi contrasti.
Ecco il tuo sposo: io cosí voglio, e basti.
          Amalo, e, se al tuo sguardo
     amabile non è,
     la man che te lo die’
     rispetta, e taci.
          Poi nell’amar men tardo
     forse il tuo cor sará,
     quando fumar vedrá
     le sacre faci. (parte)

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SCENA V

Semira e Megabise.

Semira. Ascolta, o Megabise. Io mi lusingo
alfin dell’amor tuo. Posso una prova
sperarne a mio favor?
Megabise.  Che non farei,
cara, per ubbidirti?
Semira.  E pure io temo
le ripugnanze tue.
Megabise.  Questo timore
dilegui un tuo comando.
Semira.  Ah! se tu m’ami,
questi imenei disciogli.
Megabise.  Io?
Semira.  Sí, salvarmi
del genitor cosí potrai dall’ira.
Megabise. T’ubbidirei, ma parmi
ch’ora meco scherzar voglia Semira.
Semira. Io non parlo da scherzo.
Megabise.  Eh! non ti credo.
Vuoi cosí tormentarmi: io me n’avvedo.
Semira. Tu mi deridi. Io ti credei finora
piú generoso amante.
Megabise.  Ed io piú saggia
finora ti credei.
Semira.  D’un’alma grande
che bella prova è questa!
Megabise. Che discreta richiesta
da farsi a un amator!
Semira.  T’apersi un campo,
ove potevi esercitar con lode
la tua virtú senz’essermi molesto.
Megabise. La voglio esercitar, ma non in questo.

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Semira. Dunque invano sperai?
Megabise.  Sperasti invano.
Semira. Dunque il pianto...
Megabise.  Non giova.
Semira. Queste preghiere mie...
Megabise.  Son sparse a’ venti.
Semira. E bene, al padre ubbidirò; ma senti:
non lusingarti mai
ch’io voglia amarti. Abborrirò costante
quel funesto legame
che a te mi stringerá. Sarai, lo giuro,
oggetto agli occhi miei sempre d’orrore:
la mano avrai, ma non sperare il core.
Megabise. Non lo chiedo, o Semira. Io mi contento
di vederti mia sposa. E per vendetta,
se ti basta di odiarmi,
odiami pur, ch’io non saprò lagnarmi.
               Non temer ch’io mai ti dica
          «alma infida», «ingrato core»:
          possederti ancor nemica
          chiamerò felicitá.
               Io detesto la follia
          d’un incomodo amatore,
          che a’ pensieri ancor vorria
          limitar la libertá. (parte)

SCENA VI

Semira, poi Mandane.

Semira. Qual serie di sventure un giorno solo
unisce a’ danni miei! Mandane, ah! senti.
Mandane. Non m’arrestar, Semira.
Semira.  Ove t’affretti?
Mandane. Vado al real Consiglio.

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Semira.  Io tua seguace
sarò, se giova all’infelice Arbace.
Mandane. L’interesse è distinto:
tu salvo il brami, ed io lo voglio estinto.
Semira. E un’amante d’Arbace
parla cosí?
Mandane.  Parla cosí, Semira,
una figlia di Serse.
Semira.  Il mio germano
o non ha colpa, o per tua colpa è reo,
perché troppo t’amò.
Mandane.  Questo è il maggiore
de’ falli suoi. Col suo morir degg’io
giustificar me stessa, e vendicarmi
di quel rossor che soffre
il mio genio real, che a lui donato
dovea destarlo a generose imprese,
e per mia pena un traditor lo rese.
Semira. E non basta a punirlo
delle leggi il rigor che a lui sovrasta,
senza gl’impulsi tuoi?
Mandane.  No, che non basta.
Io temo in Artaserse
la tenera amistá; temo l’affetto
ne’ satrapi e ne’ grandi, e temo in lui
quell’ignoto poter, quell’astro amico,
che in fronte gli risplende,
che degli animi altrui signor lo rende.
Semira. Va’, sollecita il colpo;
accusalo, spietata;
riducilo a morir: però misura
prima la tua costanza. Hai da scordarti
le speranze, gli affetti,
la data fé, le tenerezze, i primi
scambievoli sospiri, i primi sguardi,
e l’idea di quel volto,

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dove apprese il tuo core
la prima volta a sospirar d’amore.
Mandane. Ah! barbara Semira,
io che ti feci mai? Perché risvegli
quella, al dover ribelle,
colpevole pietá, che opprimo in seno
a forza di virtú? Perché ritorni
con quest’idea, che ’l mio coraggio atterra,
fra’ miei pensieri a rinnovar la guerra?
               Se d’un amor tiranno
          credei di trionfar,
          lasciami nell’inganno,
          lasciami lusingar
          che piú non amo.
               Se l’odio è il mio dover,
          barbara! e tu lo sai,
          perché avveder mi fai
          che invan lo bramo? (parte)

SCENA VII

Semira

A qual di tanti mali
prima oppormi degg’io? Mandane, Arbace,
Megabise, Artaserse, il genitore,
tutti son miei nemici. Ognun m’assale
in alcuna del cor tenera parte:
mentre ad uno m’oppongo, io resto agli altri
senza difesa esposta, ed il contrasto,
sola, di tutti a sostener non basto.
               Se del fiume altera l’onda
          tenta uscir dal letto usato,
          corre a questa, a quella sponda
          l’affannato agricoltor.

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               Ma disperde in su l’arene
          il sudor, le cure e l’arti;
          ché, se in una ei lo trattiene,
          si fa strada in cento parti
          il torrente vincitor. (parte)

SCENA VIII

Gran sala del real Consiglio con trono da un lato e sedili dall’altro per li grandi del regno. Tavolino e sedia alla destra del suddetto trono.

Artaserse, preceduto da una parte delle guardie e da’ grandi del regno e seguito dal restante delle guardie; poi Megabise.

Artaserse. Eccomi, o della Persia
fidi sostegni, del paterno soglio
le cure a tollerar. Son del mio regno
sí torbidi i principi e sí funesti,
che l’inesperta mano
teme di questo avvicinarsi al freno.
Voi che nudrite in seno
zelo, valore, esperienza e fede,
dell’affetto in mercede
che ’l mio gran genitor vi diede in dono,
siatemi scorta in sulle vie del trono.
Megabise. Mio re, chiedono a gara
e Mandane e Semira a te l’ingresso.
Artaserse. Oh dèi! vengano. (parte Megabise) Io vedo,
qual diversa cagione entrambe affretta.

SCENA IX

Mandane, Semira, Megabise e detto.

Semira. Artaserse, pietá!
Mandane.  Signor, vendetta!
D’un reo chiedo la morte.

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Semira.  Ed io la vita
d’un innocente imploro.
Mandane.  Il fallo è certo.
Semira. Incerto è il traditor.
Mandane.  Condanna Arbace
ogni apparenza.
Semira.  Assolve
Arbace ogni ragione.
Mandane.  Il sangue sparso
dalle vene del padre
chiede un castigo.
Semira.  E il conservato sangue
nelle vene del figlio un premio chiede.
Mandane. Ricòrdati...
Semira.  Rammenta...
Mandane. ...che sostegno del trono
solo è il rigor.
Semira.  ...che la clemenza è base.
Mandane. D’una misera figlia
deh! t’irriti il dolor.
Semira.  Ti plachi il pianto
d’un’afflitta germana.
Mandane. Ognun che vedi,
fuor che Semira, il sacrifizio aspetta.
Semira. Artaserse, pietá! (s’inginocchiano)
Mandane.  Signor, vendetta!
Artaserse. Sorgete, oh Dio! sorgete. Il vostro affanno
quanto è minor del mio! Teme Semira
il mio rigor; Mandane
teme la mia clemenza; e amico e figlio
Artaserse sospira
nel timor di Mandane e di Semira.
Solo d’entrambe io cosí provo... Ah, vieni!
 (vedendo Artabano)
consolami, Artabano. Hai per Arbace
difesa alcuna? Ei si discolpa?

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SCENA X

Artabano e detti.

Artabano.  È vana
la tua, la mia pietá. La sua salvezza
o non cura, o dispera.
Artaserse.  E vuol ridurmi
l’ingrato a condannarlo?
Semira. Condannarlo? Ah, crudel! Dunque vedrassi
sotto un’infame scure
di Semira il germano,
della Persia l’onore,
l’amico d’Artaserse, il difensore?
Misero Arbace! inutile mio pianto!
vilipeso dolor!
Artaserse.  Semira, a torto
m’accusi di crudel. Che far poss’io,
se difesa non ha? Tu che faresti?
Che farebbe Artabano? Olá! custodi,
Arbace a me si guidi: il padre istesso
sia giudice del figlio. Egli l’ascolti:
ei l’assolva, se può. Tutta in sua mano
la mia depongo autoritá reale.
Artabano. Come!
Mandane.  E tanto prevale
l’amicizia al dover? Punir nol vuoi,
se la pena del reo commetti al padre.
Artaserse. A un padre io la commetto,
di cui nota è la fé; che un figlio accusa,
ch’io difender vorrei; che di punirlo
ha piú ragion di me.
Mandane.  Ma sempre è padre.
Artaserse. Perciò doppia ragione
ha di punirlo. Io vendicar di Serse
la morte sol deggio in Arbace. Ei deve

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nel figlio vendicar con piú rigore
e di Serse la morte e ’l suo rossore.
Mandane. Dunque cosí...
Artaserse.  Cosí, se Arbace è il reo,
la vittima assicuro al re svenato,
ed al mio difensor non sono ingrato.
Artabano. Ah! signor, qual cimento...
Artaserse. Degno di tua virtú.
Artabano.  Di questa scelta
che si dirá?
Artaserse.  Che si può dir? Parlate, (ai grandi)
se v’è ragion che a dubitar vi muova.
Megabise. Il silenzio d’ognun la scelta approva.
Semira. Ecco il germano.
Mandane.  (Aimè!)
Artaserse.  S’ascolti.
 (Artaserse va in trono, e i grandi siedono)
Artabano.  (Affetti,
ah! tollerate il freno.) (nell’andare a sedere al tavolino)
Mandane. (Povero cor, non palpitarmi in seno!)

SCENA XI

Arbace con catene fra alcune guardie, e detti.

Arbace. Tanto in odio alla Persia
dunque son io, che di mia rea fortuna
l’ingiustizia a mirar tutta s’aduna?
Mio re...
Artaserse. Chiamami «amico». Infin ch’io possa
dubitar del tuo fallo, esser lo voglio:
e, perché sí bel nome
in un giudice è colpa, ad Artabano
il giudizio è commesso.
Arbace.  Al padre!
Artaserse.  A lui.

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Arbace. (Gelo d’orror!)
Artabano.  Che pensi? Ammiri forse
la mia costanza?
Arbace.  Inorridisco, o padre,
nel mirarti in quel luogo e ripensando
qual io son, qual tu sei. Come potesti
farti giudice mio? Come conservi
cosí intrepido il volto, e non ti senti
l’anima lacerar?
Artabano.  Quai moti interni
io provi in me, tu ricercar non devi,
né quale intelligenza
abbia col volto il cor. Qualunque io sia,
lo son per colpa tua. Se a’ miei consigli
tu davi orecchio, e seguitar sapevi
l’orme d’un padre amante, in faccia a questi
giudice non sarei, reo non saresti.
Artaserse. Misero genitor!
Mandane.  Qui non si venne
i vostri ad ascoltar privati affanni:
o Arbace si difenda o si condanni.
Arbace. (Quanto rigor!)
Artabano.  Dunque alle mie richieste
risponda il reo. Tu comparisci, Arbace,
di Serse l’uccisor: ne sei convinto.
Ecco le prove: un temerario amore,
uno sdegno ribelle...
Arbace.  ...il ferro, il sangue,
il tempo, il luogo, il mio timor, la fuga,
so che la colpa mia fanno evidente:
e pur vera non è; sono innocente.
Artabano. Dimostralo, se puoi; placa lo sdegno
dell’offesa Mandane.
Arbace.  Ah! se mi vuoi
costante nel soffrir, non assalirmi
in sí tenera parte. Al nome amato,
barbaro genitor...

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Artabano.  Taci: non vedi,
nella tua cieca intolleranza e stolta,
dove sei, con chi parli e chi t’ascolta?
Arbace. Ma, padre...
Artabano.  (Affetti, ah, tollerate il freno!)
Mandane. (Povero cor, non palpitarmi in seno!)
Artabano. Chiede pur la tua colpa
difesa o pentimento.
Artaserse.  Ah! porgi aita
alla nostra pietá.
Arbace.  Mio re, non trovo
né colpa, né difesa,
né motivo a pentirmi; e, se mi chiedi
mille volte ragion di questo eccesso,
tornerò mille volte a dir l’istesso.
Artabano. (Oh amor di figlio!)
Mandane.  Egli ugualmente è reo
o se parla o se tace. Or che si pensa?
Il giudice che fa? Questo è quel padre
che vendicar doveva un doppio oltraggio?
Arbace. Mi vuoi morto, o Mandane?
Mandane.  (Alma, coraggio!)
Artabano. Principessa, è il tuo sdegno
sprone alla mia virtú. Resti alla Persia
nel rigor d’Artabano un grand’esempio
di giustizia e di fé non visto ancora.
Io condanno il mio figlio: Arbace mora.
 (sottoscrive il foglio)
Mandane. (Oh Dio!)
Artaserse.  Sospendi, amico,
il decreto fatal.
Artabano.  Segnato è il foglio:
ho compito il dover.
 (s’alza e dá il foglio a Megabise)
Artaserse. Barbaro vanto!
 (scende dal trono, ed i grandi si levano da sedere)

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Semira. Padre inumano!
Mandane. (piange) (Ah! mi tradisce il pianto.)
Arbace. Piange Mandane! E pur sentisti alfine
qualche pietá del mio destin tiranno!
Mandane. Si piange di piacer come d’affanno.
Artabano. Di giudice severo
adempite ho le parti. Ah! si permetta
agli affetti di padre
uno sfogo, o signor. Figlio, perdona
alla barbara legge
d’un tiranno dover. Soffri, ché poco
ti rimane a soffrir. Non ti spaventi
l’aspetto della pena: il mal peggiore
è de’ mali il timor.
Arbace.  Vacilla, o padre,
la sofferenza mia. Trovarmi esposto
in faccia al mondo intero
in sembianza di reo; veder recise
sul verdeggiar le mie speranze, estinti
sull’aurora i miei dí; vedermi in odio
alla Persia, all’amico, a lei che adoro:
saper che ’l padre mio...
barbaro padre... (Ah, ch’io mi perdo!) Addio.
 (in atto di partire: poi si ferma)
Artabano. (Io gelo!)
Mandane.  (Io moro!)
Arbace.  Oh, temerario Arbace!
dove trascorri? Ah! genitor, perdona:
eccomi a’ piedi tuoi; scusa i trasporti
d’un insano dolor. Tutto il mio sangue
si versi pur, non me ne lagno; e, invece
di chiamarla tiranna,
io bacio quella man che mi condanna.
Artabano. Basta, sorgi: pur troppo
hai ragion di lagnarti.
Ma sappi... (Oh Dio!) Prendi un abbraccio e parti.

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               Arbace. Per quel paterno amplesso,
          per questo estremo addio
          conservami te stesso,
          placami l’idol mio,
          difendimi il mio re.
               Vado a morir beato,
          se della Persia il fato
          tutto si sfoga in me.
(parte fra le guardie, seguito da Megabise, e partono i grandi)

SCENA XII

Mandane, Artaserse, Semira ed Artabano.

Mandane. (Ah! che al partir d’Arbace
io comincio a provar che sia la morte.)
Artabano. A prezzo del mio sangue, ecco, o Mandane,
soddisfatto il tuo sdegno.
Mandane.  Ah, scellerato!
fuggi dagli occhi miei; fuggi la luce
delle stelle e del sol! Cèlati, indegno,
nelle piú cupe e cieche
viscere della terra;
se pur la terra istessa a un empio padre,
così d’umanitá privo e d’affetto,
nelle viscere sue dará ricetto.
Artabano. Dunque la mia virtú...
Mandane.  Taci, inumano!
Di qual virtú ti vanti?
Ha questa i suoi confini; e, quando eccede,
cangiata in vizio ogni virtú si vede.
Artabano. Ma non sei quell’istessa
che finor m’irritò?
Mandane.  Son quella, e sono
degna di lode. E, se dovesse Arbace
giudicarsi di nuovo, io la sua morte

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di nuovo chiederei. Dovea Mandane
un padre vendicar: salvare un figlio
Artabano doveva. A te l’affetto;
l’odio a me conveniva. Io l’interesse
d’una tenera amante
non dovevo ascoltar; ma tu dovevi
di giudice il rigor porre in obblio.
Questo era il tuo dover; quello era il mio.
               Va’ tra le selve ircane,
          barbaro genitore;
          fiera di te peggiore,
          mostro peggior non v’è.
               Quanto di reo produce
          l’Africa al sol vicina,
          l’inospita marina,
          tutto s’aduna in te. (parte)

SCENA XIII

Artaserse, Semira, Artabano.

Artaserse. Quanto, amata Semira,
congiura il ciel del nostro Arbace a danno!
Semira. Inumano! tiranno!
Cosí presto ti cangi?
Prima uccidi l’amico e poi lo piangi?
Artaserse. All’arbitrio del padre
la sua vita commisi,
ed io sono il tiranno, ed io l’uccisi?
Semira. Questa è la piú ingegnosa
barbara crudeltá. Giudice, il padre
era servo alla legge. A te, sovrano,
la legge era vassalla. Ei non poteva
esser pietoso, e tu dovevi. Eh! dimmi
che godi di veder svenato un figlio

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per man del genitore,
che amicizia non hai, non senti amore.
Artaserse. Parli la Persia e dica
se ad Arbace son grato,
se ho pietá del tuo duol, se t’amo ancora.
Semira. Ben ti credei finora,
lusingata ancor io dal genio antico,
pietoso amante e generoso amico;
ma ti scopre un istante
perfido amico e dispietato amante.
               Per quell’affetto,
          che l’incatena,
          l’ira depone
          la tigre armena,
          lascia il leone
          la crudeltá.
               Tu, delle fiere
          piú fiero ancora,
          alle preghiere
          di chi t’adora
          spogli il tuo petto
          d’ogni pietá. (parte)

SCENA XIV

Artaserse ed Artabano.

Artaserse. Dell’ingrata Semira
i rimproveri udisti?
Artabano.  Odi gli sdegni
dell’ingiusta Mandane?
Artaserse.  Io son pietoso,
e tiranno mi chiama.
Artabano.  Io giusto sono,
e mi chiama crudel.

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Artaserse.  Di mia clemenza
è questo il prezzo?
Artabano.  La mercede è questa
d’un’austera virtú?
Artaserse.  Quanto in un giorno,
quanto perdo, Artabano!
Artabano.  Ah! non lagnarti.
Lascia a me le querele. Oggi d’ogni altro
piú misero son io.
Artaserse. Grande è il tuo duol, ma non è lieve il mio.
               Non conosco in tal momento
          se l’amico o il genitore
          sia piú degno di pietá.
               So però, per mio tormento,
          ch’era scelta in me l’amore,
          ch’era in te necessitá. (parte)

SCENA XV

Artabano.

Son pur solo una volta, e dall’affanno
respiro in libertá. Quasi mi persi
nel sentirmi d’Arbace
giudice nominar. Ma, superato,
non si pensi al periglio.
Salvai me stesso: or si difenda il figlio.
               Così stupisce e cade,
          pallido e smorto in viso,
          al fulmine improvviso,
          l’attonito pastor.
               Ma, quando poi s’avvede
          del vano suo spavento,
          sorge, respira e riede
          a numerar l’armento,
          disperso dal timor.