Biografie dei consiglieri comunali di Roma/Giovanni Venanzi
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VENANZI CAV. GIOVANNI
Consigliere Municipale
Nel 23 Giugno 1816 nacque egli in Roma, allorquando il proprio genitore cittadino d’altissimi sentimenti liberali, uomo di grande onestà, di profondo accorgimento e di una operosità impareggiabile, alla famiglia procurava agi e ricchezza. Nell’anno 1825 al Collegio Romano mandava il figliuolo per istruirlo negli studi elementari, mentre egli nel vergine cuore gli trasfondeva l’affetto all’Italia. — E Giovanni bello e vivace l’ingegno rivelando, fervido e pieno di nobili sensi il cuore, non soltanto progrediva negli studi, ma l’amore della patria a lui tramandato dal petto paterno, forte gl’incendiava l’anima, cosicchè e ne’suoi componimenti poetici, e ne’ brani che dai classici toglieva, e con bandieruole tricolori e trofei militari, che disegnava sopra lo Screvelio, ed altri libri di scuola, faceva aperto già il germe fecondo di liberi sensi, che nutriva nel petto, e nei compagni amava trasfonderlo. — Fu perciò che sin dall’età giovanissima venne in odio alla setta nera, „a Dio spiacente ed ai nemici sui„ a quei Gesuiti, che scorgendo negli scritti, nei discorsi, e in tutti gli atti di lui, un fiore tenero, che sbocciando mandava già profumi di liberalismo, vennero prima alle inquisizioni e alle minaccie, poi all’artefizio, alla preghiera, agli scongiuramenti, per convertirlo e trarlo dalla distorta via, chè la via da loro insegnata è quella della ignoranza, dell’abbrutimento del cuore, e dell’avversione alla patria, epperò furon sempre di quei „che vivon con infamia, e senza lodo.„ Ma il Venanzi di tempra gagliarda punto non si commosse, alloraquando il suo rugiadoso precettor Lojolita gittatoglisi a piedi e stringendoglisi alle ginocchia, lo supplicava con voce lagrimosa a seguire altro sentiero. E poichè a nulla riusciva, esclamò: „ Oh quando si è messa indosso questa pece non si stacca mai più! „ E disse vero, chè l’amore di patria è per loro pece che li scotta. —
Il padre del Venanzi intanto stimò meglio ritrarre il figlio da quelle scuole gesuitiche, e porlo sotto l’insegnamento di un dotto sacerdote Toscano, che aveva anche sensi di liberale, e da questi apprese letteratura italiana, filosofia, ed economia politica. —
Si esercitò di poi anche nel disegno, per il quale sentiva trasporto grandissimo, e studiò dapprima in casa sotto la scorta di valente disegnatore, e di poi nell’Accademia di S. Luca, d’onde dopo un saggio che riportò l’onoro del premio, e per cura del professore Silvagni, che volealo tosto iniziare alla pittura, passava nelle vacanze al Museo Capitolino per ritrarre i capolavori ivi esistenti, e quindi alla scuola del nudo in Campidoglio. — E qui giova notare come da suo padre, che fu amico di grandi scienziati e di celebri artisti, gli fu stillato nell’anima, sin da giovinetto, amore eziandio alle arti. —
Correva l’anno 1837, quando rapito da morte il genitore carissimo, rimaneva affidato alle cure di un padrino, che lo volle avviare nel trattamento degli affari, per il che gli fu forza abbandonare la prediletta arte del disegno, e gli studi dolcissimi della italica letteratura. —
Sopraggiunta poco stante anche la morte del padrino, si trovò solo, e dovette attendere al riordinamento del suo patrimonio, che trovò in gravi dissesti, perocchè aveva pur subito fortunose vicende. —
Accomodate le sue cose, si abbandonò di nuovo agli studi, gli piacque anche istruirsi nella bella arte della musica vocale, ma principalmente si dedicò di tutta lena e a tutt’uomo alla politica, sentendo nell’animo suo, come la suprema delle sue aspirazioni fosse quella di veder redenta la patria miseramente in mille brani lacerata. —
Di spirito indipendente, per carattere schietto e leale egli non volle giammai soggiacere a vincoli di sette politiche, ma diè fede che egli non avrebbe mancato all’appello nell’ora dell’azione, e che sostanze e vita disponeva per la liberazione d’Italia. E di vero come fosse parato a far di se olocausto alla patria valga a dimostrarlo il seguente aneddoto della sua prima giovinezza. — Viaggiava una volta per diletto ed erudizione insieme ad un suo amico già compagno di scuola, ed erano ad Alba Fucense allorquando per gli irrefrenati effondimenti dell’animo suo patriottico scampati prodigiosamente dagli artigli della polizia borbonica, l’amico che oggi è Professore di letteratura greca in una delle primarie Università d’Italia, gli domandò come in atto di maraviglia, se gagliardamente amasse la patria, cui avendo risposto con risolutezza prontissima affermativamente, quegli soggiunse; quando è così conviene prepararsi a soffrir molto — ed egli „ e sia; l’amerò per questo di più. „
Giungeva il 16 Giugno 1846. Il Pontificato di Pio Nono parea segnasse l’aurora aspettata dalle genti italiane. — Il Venanzi si entusiasma; partecipa alla fondazione del circolo popolare, e ponendo in non cale ogni suo privato interesse, cinge le armi, e con la 1.ª Legione Romana va a combattere le battaglie della patria. — Fà la campagna del Veneto. — A Vicenza combattendo presso porta Padova, cade ferito da un colpo d’artiglieria insieme a Ghinassi di Foligno, ed Albertini di Fano. — Si rialzano, ma per le riportate ferite il Ghinassi ed Albertini ricadono sul suolo, e spirano. —
La Legione torna in Roma, si rafforza d’armi e d’armati, ed il Venanzi da semplice gregario è promosso al grado di ufficiale. — Egli riparte con la Legione medesima, ed è accantonato per ogni eventualità a Cesena, e ad Ancona. — Succede la proclamazione della Romana Repubblica e si trasferisco alle frontiere Napolitano, chè il despota Borbonico pur sollevava contro Italia le armi. — Il Venanzi è incaricato di varie fazioni militari, e funziona in qualità di ufficiale d’ordinanza presso il comando della piazza di Terracina. —
Gli avvenimenti di Roma incalzano. — L’Aquila di Francia muovo il volo nemico contro la Repubblica Romana; le armate francesi scendono già sulla terra, che un dì calpestarono i dominatori del mondo. — Roma si atteggia a disperata difesa, e colà è chiamata anche la 1.ª Legione.
Correva il 30 Aprile. — Il Venanzi comandando un distaccamento della sua compagnia, traversa Villa Giraud, dando battaglia ed inseguendo alla baionetta il nemico, nel che interviene il prode Masina, il quale dà splendide prove di eroismo, che sempre più incuora. — Alla vigna Tallongo si scontra col grosso dei Francesi, che erano stati tagliati fuori, li circonda, e molti di essi si rendono prigionieri. — A Velletri la compagnia, di cui egli fà parte, riceve l’onore di esser comandata dal Generale Garibaldi in persona, il quale la slancia all’assalto del monte dei Cappuccini sotto il fuoco delle artiglierie borboniche. — Si fanno prodigi di valore, e si riesce a cacciare i nemici, e a stabilire su quella posizione i cannoni. — Proseguono i disperati combattimenti, ed il 3 Giugno ed il 2 Luglio vanno ricordati per le battaglie date sui monti Parioli, alle galliche schiere nemiche d’Italia. —
Tramontava dai sette colli il sole della libertà, e la notte della schiavitù si stendeva di nuovo sopra le terre italiane. — I tiranni, sanguinanti le mani, stringevan lo scettro dei despoti, e siedevano tremebondi nell’anima sopra i troni tarlati. —
Era nel suo corso l’anno 1850, quando i patriotti si stringevano in segreta intelligenza per giungere di nuovo alla sospirata conquista della libertà e indipendenza della patria. — Il Venanzi fu tra gli organizzatori dell’associazione Nazionale, costituita su libere basi, ed al punto di raccogliere la generalità delle masse. Non curando egli le forme, ma avendo per meta l’unità ed indipendenza Nazionale, si schierò fra coloro che fecero sacramento di seguire la bandiera che prima s’innalzasse, per giungere al conseguimento di quel bene supremo. — Però è noto, come di taluni idealisti la tenacità e la intolleranza, la esagerazione delle passioni, e la discordia degli animi, facessero crollare una immensa mole di difesa, che un popolo vinto ma non domato, avea saputo creare, e come facesse abortire l’opera di un rivolgimento, da cui la salute della patria sarebbe derivata. —
Le persecuzioni quindi del papale governo si fecero efferate, crudeli, continue, ed il Venanzi principalmente ne fu preso di mira, per modo che voleanlo anche di tutte le sostanze privare, onde contro una commissione pontificia a tale effetto incaricata, dovette egli anche dinnanzi ai Tribunali combattere, sostenuto da quel valentissimo avvocato che fu Altobrando Viviani, e dal chiarissimo procuratore Augusto Zuccarelli. — E nonostante gli strani soprusi, le vigliacche cavillazioni, e gli atti frodolenti da quella commissione adoperati, in accordo col retrogrado e servile Municipio di quel tempo, riportò il Venanzi trionfo, che fu grandissimo per l’interesse morale, e politico, sebbene umile per l’interesse materiale, giacchè la sua proprietà si era di molto assottigliata, onde gli fu duopo rivolgere i suoi capitali al commercio, per provvedere anche ai bisogni di una madre infelico, che alla gravezza degli anni, univa la piti grande delle umane sventure — la cecità della vista. —
Successe il Congresso di Parigi, dove una voce si fè udire che protestava avere Italia diritto di Nazione, e Roma essere la capitale, e sin d’allora l’anima dei patriotti si riapriva ad un sorriso di più bella speranza. — Fu perciò che una deputazione di cittadini romani, tra i quali era il Venanzi, fecero pervenire per mezzo del marchese Migliorati Ambasciatore Sardo un indirizzo al Conte di Cavour, e una medaglia d’oro coniata in suo omaggio a nome di Roma. —
I tempi maturavano. — L’anno 1859 và celebrato per la nuova riscossa italiana, d’onde derivar dovea la uuità, libertà e indipendenza della patria. — E alle prime battaglie accorsero volontari nelle fila dell’esercito tremila Romani, mentre i patriotti che ne curavano l’arruolamento e rimanevano in Roma a combattere il nemico più fiero, quale era il prete, non solo concorrevano alle spese di guerra, ma a tutte le più splendide dimostrazioni, e alla novella dei gloriosi trionfi inviavano due preziose spade, una al Re Vittorio Emanuele, e l’altra a Napoleone III, e di poi facean coprire da diecimila firme un indirizzo, che esprimeva il Plebiscito di Roma di volere riacquistare la nazionalità, tenendosi sotto lo scettro del Re Vittorio Emanuele. — In tutti questi fatti tra i principali promotori fu sempre il Venanzi. — E quanto in quei tempi difficili per la ferocia papale, compiesse il Comitato Nazionale romano, a cui egli apparteneva, basti leggere la storia diplomatica della questione romana di Celestino Bianchi dove si trova in onorata menzione tra i primi cittadini il nome dell’istesso Venanzi.
Avvenuta la morte del Conte di Cavour, una nuova dimostrazione compievasi dai Romani, perciocchè versavasi nella banca di Torino, una somma cospicua per l’erezione del monumento ad eternità di ricordo di quel grande uomo di Stato, e fu il Venanzi quegli che ebbe le attribuzioni di tener la scrittura.
Ricorreva il carnevale dell’anno 1862. — Solenne, grave, ammiranda dimostrazione offerivano i Romani al teocratico governo, imperciocchè le usate feste abbandonando, il corso di Roma rendevano squallido, deserto, malinconioso, con rabbia estrema dei birri e zuavi pontifici, e con immenso fremito d’ira di tutta la corte papale, che avria voluto far credere al mondo, come nel beatissimo regno il popolo è felice. - In quella vece, dappresso invito dei capi del partito Nazionale, tra i quali era il Venanzi, che al personale sopraintendeva, più che 20,000 persone si radunarono nel Foro Romano, luogo designato a dilettoso ritrovo, e intrattenevansi in ordinato passeggio, sopra gli avanzi angusti delle glorie antiche meditando, e dimostrando essere in aspettazione dei liberi tempi. — E fu la sera del 25 febbrajo di quell’anno, che dal sommo del Campidoglio il Venanzi contemplava con la più grande emozione dell’anima quella moltitudine sfilare ordinata e tranquilla, siccome in atto di trionfo, siccome in segno di impavida sfida ai manigoldi teocratici. — E in quella sera gli sgherri del Papa-Re lo traevano nel fondo di un carcere.
La casa del Venanzi era perquisita. — Si sequestrarono carte, di non grave rilievo, ma cui pur si volle dare un’importanza seriamente politica, per fabbricare sopra le medesime la rovina di lui e del partito liberale. — Ma erano sforzi di mente esagitata, di un’anima piena di clericale fanatismo, quale è quella del Demerode, da cui l’ordine di cattura e di perquisizione fu emanato. —
Lo zelo imprudente di un cittadino liberale, sollecitò un soldato pontificio alla diserzione, promettendogli l’appoggio del Venanzi per essere quindi ammesso nell’esercito Italiano. — E poiché il soldato tornato in caserma fè confidenza della cosa ad altri commilitoni, se ne venne così dal Ministro delle armi pontificie Demerode allo scuoprimento, il perchè lo imprigionamento immediato del Venanzi, e la rigorosa perquisizione ordinava. —
Si macchinarono perfidie, si crearono esecrazioni di vituperi e d’infamia, e nel partito liberale volea involversi la vecchia burocrazia pontificia, che era in sospetto del Demerode ricordevole dei fatti del 1848, e nemica alle nequitose brame di taluni rinnegati profughi delle Romagne e dell’Umbria, capitanati dal famoso Giudice processante Collemasi, che il processo politico contro il Venanzi istruiva. —
E poiché le fondamenta del processo mancavano, si ricorse alla più vile, alla più iniqua, alla più nefanda opera. — Una donna volgare chiamata Costanza Diotallevi fu assunta quale eroina degli atti processuali, e ne è rimasta celebre per esecrazione di memoria. — A costei si dà la qualifica di confidente del Comitato Nazionale, si fà figurare impunitaria, e dalla di lei bocca e per di lei mezzo si immagina raccogliere gli elementi per iscoprire colpevoli. — Ad oscurare il partito liberale, si ravvolge nel processo medesimo un Fausti di contrari principi, e un tessuto di nere calunnie, di accuse scelleratamente bugiarde, di scritti malvagiamente falsi, su tutte le tavole processuali si distende. — È una storia di raffinata clericale nequizia, è un quadro di congiurazioni maligne contro chi consacrava alla patria i beni e la vita. — Le rivelazioni immunitarie di Costanza Vaccari-Diotallevi nella causa Venanzi-Fausti — è un opuscolo pubblicato nel 1863 dal Comitato Nazionale Romano, e in quello si fanno manifeste le oscurissime trame, dopoché parte del processo potè essere involato al pontificio dominio, e venire in possesso del partito liberale. —
Non pertanto dal Tribunale della S. Consulta si dichiarava constare di corrispondenza all’estero ed all’interno tendente a turbare l’ordine pubblico, e il Venanzi era condannato alla pena di venti anni di carcere duro. —
Noi non diremo con quanta ferocia fosse nelle prigioni trattato, e come sovr’esso tutta la più brutale tirannia il famigerato custode Fontana spiegasse. —
Non diremo come nonostante le crudeli sevizie, e le rigorose cautele contro di lui adoperate, avesse modo di porsi in corrispondenza esterna con il suo nipote Luigi Boccafogli, con Bompiani, con Vincenzo Maggiorani, ed altri cittadini liberali. Ma crediamo di grandissima importanza storica i seguenti fatti rilevare.
Gli amici per lettera stimolavano il Venanzi alla fuga, ed egli ricusava per non privare primieramente la detenzione ed il partito di un mezzo utilissimo di corrispondenza, che si manteneva coll’aver guadagnato a suo favore un guardiano carcerario, che di già erasi offerto pronto ad evader con lui; secondariamente per non esser cagione di più duri trattamenti agli altri detenuti. — Ma erano appena decorsi quattro mesi allorchè accortosi che il processo era nella camera di istruzione entro lo stabilimento carcerario, e che del medesimo poteva di subito impossessarsi, scrive agli amici in questo tenore „ il processo è qui: se credete che aggiungendo al primo progetto . . . quest’altra parte ... ne possa tornare utilità al principio politico e ai compagni di causa, io non sarei più renitente allo evadere. „
Il Maggiorani esultante nell’animo rispose accingersi all’opera e fu destinato il giorno, in cui l’evasione dal carcere e l’asportazione dello incarto dovea compiersi. — Spuntò l’alba. — Il Venanzi tenevasi già pronto — Udì il segnale; udì il rumore che faceasi nel trascinare il sacco delle carte processuali. — Attese che la porta del carcere si dischiudesse. — Indarno. — Un guardiano carcerario erasi desto e poichè aveva udito alcun rumore ed era entrato in alcun sospetto, si tenne quindi vigilante, onde fu che l’altro guardiano non potendo sottrarsi alla presenza del medesimo fu costretto porsi in salvo; e una carrozza sopra la quale era un amico del Venanzi in abito di cocchiere attese vanamente per lunga ora. Il Venanzi intanto persuaso esser l’operazione del tutto andata a vuoto, dovè sopportare, simulando, inscienza, le crudeli e furibonde disposizioni che di poi furono prese. — Se non che dopo la pronunciata condanna ossia il giorno 13 Giugno 1863, in cui fu trasferito al carcere largo di S. Michele, apprese dai suoi compagni di causa, che lo carte processuali erano state felicemente trasportate — E poichè omai era forza all’espiazione della pena sommettersi, si diè insieme ai compagni d’infortunio con affetto indicibile a stabilire tra i detenuti la concordia, la fraternità e la pace, e ciò si conseguì col distruggere le ruggini dei partiti, col consigliare il rispetto alle individuali opinioni, coll’insinuare aborrimento all’ozio, alla ciarla, alle ubie carcerarie, coll’istituire il mutuo insegnamento e coll’organizzare all’esterno un sicuro mezzo di sussidi. —
Mentre così trascorrevano d’alcun dolce aspersi gli amari anni del carcere, e la consolazione avea avuta grandissima nel vedere molti compagni di causa restituiti a libertà per diminuzione di pena, il 23 Giugno 1866 in odio del bene promosso nella detenzione, fu barbaramente strappato da quei detenuti, con i quali era già nato un legame di affetto come di famiglia, e gettato di nuovo nel carcere detto S. Micheletto tra le branche crudeli del custode Fontana, ove nel più atroce isolamento rimase tre anni interi. —
Però la di lui salute era in sì grave stato ridotta, che per consiglio ed insistenza dei medici, eragli la pena del carcere, che aveva già sofferto per il ben lungo periodo di otto anni, commutata nell’esilio perpetuo. —
E di fatti dopo averlo ancor travagliato con nuovi e più fieri maltrattamenti, era finalmente da due birri accompagnato al confine. —
Il suo nipote Luigi Boccafogli, che fuggito di Roma erasi rifugiato in Foligno, lo accolse con immensa consolazione, con affetto tenerissimo che lo costringeva alle lagrime. — Convissero insieme. — E fu in Foligno che festeggiandosi il 30 Aprile a glorioso ricordo delle battaglie combattuto dal Generale Garibaldi insieme a tanti prodi italiani, il Venanzi dettò un proclama altamente patriottico e commoventissimo, onde particolari attestazioni d’onore n’ebbe anche dalle autorità governative e applaudimento universale. — E noi siam certi di far cosa grata ai lettori riportandolo qui per intero, chè vedranno anche sovr’esso tutta riversata l’anima del patriotta. —
«Folignati! — Il nome di GIUSEPPE GARIBALDI rappresenta le aspirazioni più schiette e gagliarde del Popolo italiano.
Compendia in sè i dolori, le gioie, gli slanci, le lotte della Nazione che spezzando le secolari catene, è sorta a nuova vita.
Porta sculta l’idea del puro amor patrio, del disinteresse, del sagrificio personale, del valore magnanimo, della generosità, — in una parola — della Virtù.
Fiaccola inestinguibile del dritto di Roma e d’Italia, propugnato già sul Gianicolo nel 1849; folgore nelle nazionali battaglie, promosso da poi — con giusta e naturale egemonia — dalla Casa Sabauda e dal magnanimo Re guerriero; meteora prodigiosa che sfolgora ed abbatte la più poderosa tirannide d’Italia, facendosi strumento potentissimo dell’Unità della Penisola, sotto la Monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II; luce tranquilla e modesta, che dal ritiro di un’isola appartata, ci ricorda le primitive virtù de’ nostri padri; vampa irrefrenabile di patria carità, che mal compressa dalle diplomatiche ambagi, tenta talora rompere gl’indugi dell’inesorabile politica; sincera e franca espressione insomma del cuore della Nazione, quel nome è tutto uno splendore a cui riguardano quanti attendono con Roma il compimento d’Italia, giusta la magnanima parola del Re, e il voto solenne emesso dal Parlamento il 27 Marzo 1861.
In sequela di ciò, è naturale-che se la ricorrenza onomastica di qualunque uomo volgare è comunemente una festa di famiglia, quella di Giuseppe Garibaldi sia una festa di tutta la grande famiglia italiana.
Ma perchè festeggiare un onomastico che sa di sagrestia? — dice la Società dei Reduci delle Patrie Battaglie in Terni. — Non è meglio festeggiare il 30 Aprile, perchè ricorda una vittoria su quelle armi, che oggi ci contrastano la nostra Capitale? — Sì! festeggiate il 30 Aprile — risponde l’illustre Generale il 24 Marzo 1870 da Caprera — Esso è un giorno glorioso per le armi italiane. —
Ed in vero: associare il nome dell’Eroe de’ due mondi al battesimo della sua prima battaglia nazionale, piuttosto che al battesimo del curato, per noi che vogliamo occuparci un poco degli affari di questa terra, è cosa che ci va alquanto più a grado.
Quanta eloquenza poi in quel giorno! In esso il grande Capitano, come qui innanzi accennammo, segnalò con una memoranda vittoria le sue prime gesta a pro della propria terra;
In esso effondendosi insieme al sangue romano quello degli Italiani tutti accorsi da più parti della penisola, s’intraprese a segnare l’ultima pagina di quel gran moto italico, che Roma, la quale avealo iniziato, quando fece l’ultima prova dell’incompatibilità del Papato con la civiltà, protrasse poi gloriosamente; preludiando così alla futura riscossa d’indipendenza, e costituendosi fin da quel punto centro e capo della italica unità;
In esso il popolo romano affermò solennemente e liberamente i suoi dritti, la sua autonomia, la sua volontà nazionale contro le usurpazioni papali, sorgendo tutto in armi, e sconfiggendo i Francesi repubblicani, ipocritamente fatti leviti;
In esso finalmente ebbe vita la protesta inoppugnabile di questo Popolo, che — se una volta varrà il dritto e non la forza brutale — contribuirà certo a rendere sgombro il suo territorio dalle armi straniere; a far vergognare gli stati civili di trescare con chierici nelle ombre del regresso; ad insegnar loro, e per loro stesso vantaggio, la ispirata formola italiana: Libera Chiesa in libero Stato; a rendere finalmente Roma all’Italia.
Folignati! — I Reduci delle patrie battaglie di questa Città, v’invitano ad ascrivere un tal giorno tra le feste nazionali, ed a solennizzarlo con gioia; ma con calma ed ordine.
L’ordine è ciò che sgomenta il nemico d’Italia: le turbolenze sono la sua letizia, la sua speranza. Non un moto dunque, non un grido che possa dar pretesto ai nemici d’Italia, che la libertà ci uccide, che noi ci demoliamo da noi stessi.
Noi dobbiamo gioire di quanto abbiamo conseguito; dobbiamo aprire il cuore all’amore, alla fraternità, alla concordia, con ogni classe cittadina, con ogni gradazione di partito che con l’ordine costituito intende al compimento de’ nazionali voti.
Noi dobbiamo chiuderlo invece alle divisioni, al malcontento, ai rancori, agli odi, alle violenze contro chicchessia.
Noi nel nome di Garibaldi che racchiude la più viva espressione di unità patria, dobbiamo rinvigorire nel nostro cuore quei legami che valsero ad edificare in 10 anni, con stupore di tutte le nazioni, questo sospirato regno d’Italia, sofferente in qualche parte ancora, ma libero, rigoglioso di nuova vita, e prossimo a godere appieno tutti i boneficj della civiltà, della sua fortunata postura, e delle sue libere istituzioni.
In questa guisa saremo noi che compatti con l’ordine costituito, assisteremo alla dissoluzione in cui già versa la più brutta emanazione del dispotismo, la Teocrazia; la quale, sfuggendolo oramai ogni sostegno, invano cerca in sè stessa un soffio di vita, un elemento di forza; e quindi disperata e folle rivolge già l’unghie in sè stessa.
Folignati! — Se un grido ci ha da uscire dal petto, in aggiunta a quelli co’ quali il popolo italiano salutò il costituirsi della sua nazionalità, sia d’ora in poi — Viva il 30 Aprile! —»
E presentendo la liberazione di Roma, egli nel 30 Giugno 1870, in un indirizzo al Sotto-Prefetto Cav. Millo il glorioso avvenimento prediceva. —
Giunse il 20 Settembre 1870. — Palpitò il cuore del Venanzi il palpito desiderato, la sua anima come quella di tutti gli esuli romani traboccava di gioia, l’annunzio che Roma finalmente era rivendicata all’Italia, così profondamente il commosse, che dovette prorompere in un pianto felice. — Il giorno appresso era egli nella città eterna, nella sua dolce terra natale. — Noto per le sue distinte virtù, era di subito nel 23 Settembre dal Comando della città di Roma e Provincia, nominato Membro della Commissione incaricata di rivedere i processi di titolo misto politico-comune. — Il 26 la Giunta Provvisoria di Governo, lo eleggeva Commissario per la Delegazione di Roma e Comarca, cui rinunciava per attendere di proposito al primitivo e geloso incarico. — Il 29 dall’istesso Comando della Città di Roma e Provincia, erano conferite alla sopradetta Commissione maggiori attribuzioni, incaricandola di riferire circa molti individui, che giacevano nelle carceri senza aver subito regolare processo, o condanna. — E così fu tale incarico eseguito, che il procuratore del Re n’ebbe ad esprimere a ciascun membro della Commissione la piena soddisfazione ed aggradimento del Ministro. —
Il 13 Novembre 1870, i propri concittadini lo eleggevano unanimi Consigliere Comunale, e in tale carica essendo, lorchè si trattò di innalzare una lapide commemorativa a tutti quei prodi, che perirono per la patria, propose di nominare una Commissione di persone estranee anche al Consiglio per poter scegliere cittadini più atti a somministrare le notizie, e specialmente fra i capi di corpi, che hanno combattuto le battaglie nazionali, i quali sono meglio in grado di fornirne; — e alloraquando si trattò di imporre la tassa sui servi, fu accolta unanimemente la sua proposta che ne fossero per sentimento umanitario esonerati coloro, che l’opera prestavano a persone affette da infermità, o cieche della vista; egli fece interpellanza al Consiglio, affinchè degnamente si provvedesse alle feste per l’ingresso del Re in Roma; — ed allorchè si trattò della sistemazione del quartiere del Celio fece udir la sua parola, perchè si fosse dato maggioro spazio all’area esterna del Colosseo; e presentò un ordine del giorno, con cui dichiarava che il busto del Conte Cavour fosse ad alta onoranza collocato nel posto più insigne del Campidoglio, il quale ordiue del giorno fu alla unanimità adottato. —
Li 8 Giugno 1871 era onorato del grado di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia. —
In quel medesimo giorno fu nominato Membro della Commissione di soccorso agl’inondati. —
Il 24 dello stesso mese era delegato ad esercitare le funzioni di Ufficiale dello Stato civile. —
11 16 Maggio la Intendenza di Finanza in Roma, lo nominava Delegato effettivo nella Commissione Comunale per l’applicazione dell’imposta sulla ricchezza mobile. —
Li 6 Agosto il Consiglio Comunale lo eleggeva Membro della Giunta di Statistica. —
Il 24, La Giunta Comunale lo nominava Membro della Commissione di arruolamento delle Guardie di città. —
Li 11 Novembre, il Consiglio Comunale lo destinava a far parte della Commissione visitatrice delle Carceri giudiziarie. —
Nel Decembre 1871 al Gennajo 1872, presiedeva al censimento della popolazione, nei rioni Ripa e Trastevere. —
Il 31 Maggio, era nominato Membro per l’esame delle istanze di concorso ai vacanti impieghi Municipali. —
Li 8 Agosto, fu dalla Giunta Municipale incaricato dell’ordinamento dell’Ufficio per la Commissione Archeologica, cui attese con ispeciale interessamento. —
11 15 Settembre 1873, era confermato Membro della Commissione visitatrice delle carceri. —
H 20 dello stesso mese, dal Ministro d’Agricoltura, Industria, e Commercio, era decorato della medaglia d’argento per il buon esito del censimento. —
Nel mentre in si diversi uffici con amore e sollecitudine si occupava, nel mentre il suo cuore si riposava dalle corse sventure, un colpo di supremo dolore trafiggeva la sua anima. — L’avvocato Luigi Boccafogli, quel suo nipote affezionato, che giovinetto aveva pur al di lui fianco combattuto le patrie battaglie, e riportato onorate ferite, che ebbe compagno nell’esilio, era da crudelissimo morbo immaturamente rapito alla vita, e lui seguiva nel sepolcro, indi a non guari, la propria madre sorella del Venanzi, e poco appresso, anche il vedovo marito il padre infortunato. — Queste perdite di cari parenti hanno aperto nel cuore del Venanzi sì larga ferita, che nel volgere de’ suoi giorni non potrà essere più rimarginata e un lutto perpetuo gli preme il petto nobilissimo. —
Ritiratosi dall’ufficio di Consigliere Comunale, ha accettato il grado ad unanimità conferitogli di Segretario per la parte amministrativa, presso la Commissione Archeologica, chè per il culto santissimo, che egli sente verso la patria, gli è caro consacrarsi alla conservazione delle antiche memorie, che al lustro non solo giovano della Nazione, ma sì bene a dimostrarne la passata gloria e a prenderne esempio per la grandezza avvenire. —
In queste pagine abbiamo pertanto con grata soddisfazione dell’animo, presentata la figura splendida, pura, serena di un cittadino, che tutto sè stesso consacrò all’amore d’Italia, di un uomo, che i pregi della mente e del cuore fanno caro e stimato universalmente. — E noi ci auguriamo che sulle orme d’uomini così fatti cresca la generazione italiana. —
Tip. Tiberina — Luglio 1874. | Riccardo Fait — Editore. |