Breve storia dei rumeni/Capitolo quinto

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Capitolo quinto

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CAPITOLO QUINTO.

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Ultimi tempi di indipendenza.


i. Bogdano-il-Cieco (Orbul; era stato ferito a un occhio) ebbe un regno breve (fino al 1517) e disorientato. Cominciò coi Polacchi una lunga guerra, non tanto per predar la Pocuzia che aveva ceduta fin da principio, ma per ottener la mano della principessa Elisabetta, sorella del rè Sigismondo. Invase la Valacchia dove aveva trovato ricovero un rivale. Rinnovò verso i Turchi gli obblighi di vassalità che Stefano stesso era stato costretto di prendere negli ultimi anni di sua vita. Ma i Tartari devastarono la Moldavia orientale.

2. Anche il figlio di Stefano coltivò le relazioni amichevoli coll’Occidente. Nel 1506 il suo tesoriere (Vestiario, Vistier) Geremia ed il «tavernico» o Păharnic (da pahar, bicchiere) Giorgio visitavano Venezia come primi ambasciatori del nuovo regente moldavo e per annunziar le sue prossime nozze con Elisabetta, la quale non doveva però esser mai sua sposa; pella solennità si comprarono panni d’oro e di seta, nonché [p. 78 modifica] gioielli. I due boiari portavano al doge un presente di zibellini ed altre pelliccie: presero parte alle allegrie del carnevale, alle «mumarie», balli in maschera, pranzi solenni, ed alle feste dello sposalizio del principe veneto col Mare, nonché alla processione del Corpus Domini assistevano anche «li do oratori dil Valacho». Dieci anni dopo il principe valacco Basarab IV (Neagoe) mandava a Venezia per compre il Ragusino Geronimo Matievich, «medico ciroico», che portava in dono al Governo di Ragusa stessa un cavallo in valore di «dodici ducati o in circa» e «due tazze di argento». La Signoria veneta lo fece nel 1518 cavaliere, come aveva già fatto coll’ambasciatore di Stefano-il-Grande, Demetrio Purice. Nel 1519 Papa Leone X ringraziava Basarab ed il Moldavo Stefano, figliuolo di Bogdan, pella loro intenzione di partecipar alla lega contro i Turchi che si stava negoziando a Roma.

In quell’anno stesso, Antonio Paicalas, «oratore» moldavo, ritornando da Roma, alloggiava a Venezia nelle stanze di San-Mosè: «fò mandato a levar per li cai di XL e Savii ai ordini»; vestito di panno d’oro, presentò un regallo di zibellini, «non belli»; voleva anche un medico pel suo signore. Nel 1521 un pretendente, indubbiamente impostore, «duca Iani di Moldavia», offriva all’ambasciatore veneto presso Carlo V di entrar in servizio della Repubblica.

3. Già cominciava a sentirsi anche nei paesi [p. 79 modifica] rumeni l’influenza del rinascimento italiano. Nei fregi delle iscrizioni commemorative e sepolcrali dell’ultimo periodo del regno di Stefano-il-Grande si vedono linee che non rassomigliano più a quelle del gotico tradizionale. Il figlio del «monaco» Vlad, Radu, detto il Grande pei larghi doni fatti alle comunità del Monte

Entrata del monasterio di Dealu.


Santo e ad altri chiostri greci, erigeva negli anni 1500-1 il bel monastero di Dealu presso Tîrgovişte, sua residenza, e le linee che ne ornano il portale hanno un incontestabile carattere veneziano. Sotto Radu fu introdotta la stampa nei paesi danubiani, ed il tipografo del principe era un religioso slavo formato a Venezia, quel Macario che aveva pubblicato anche nel Cettigne [p. 80 modifica] del Montenegro qualche libro del rituale ortodosso. L’arte italiana si riconosce nelle lettere maiuscole adoperate nella stamperia di Dealu (pei libri slavi). La nuova chiesa di Argeş, eretta da quel principe artista che era Basarab-Neagoe, contiene elementi che non appartengono alla tradizione rumena o a modelli orientali. Ma i suoi orefici erano Sassoni di Transilvania, abitanti a Kronstadt e Hermannstadt (pegl’Italiani Corona e Cibinio).

4. Salvo qualche zuffa coi vicini moldavi, questi signori valacchi fino al 1521 non segnarono niente negli annali guerrieri del paese. Soltanto quando, dopo la morte di Neagoe, i Turchi cercarono sostituir un beg del Danubio, Mohammed, al fanciullo Teodosio, che l’erudito padre aveva voluto preparar al regno con una sua compilazione di scienza politica e militare conservataci (fu scritta in lingua slava), la resistenza dei boiari ricominciò la lotta peli’ indipendenza cristiana del paese. Radu detto «de la Afumaţi», dal suo podere (1529), vinse e fu vinto in molti scontri cogli spai danubiani: il sepolcro nel chiostro di Argeş lo rappresenta coronato, col mantello ondeggiante e la mazza nella man diritta, nell’atteggiamento di valente difensore della patria.

5. I successori di questo nuovo Radu sono creazioni dei coetanei principi moldavi. Stefano-il-Giovine fu [p. 81 modifica] sempre un fanciullo mal educato; dopo qualche combattimento coi Tartari, morì, forse ucciso dai suoi boiari, nel 1527. In un fìglio naturale del Gran Stefano, in Pietro detto Rareş la Moldavia trovò finalmente un principe nato per regnare: astuto, incostante, poco scrupoloso come un discepolo di Macchiavelli, ch’egli non aveva ma [p. 82 modifica] letto, ma energico, istancabile e con alto senso della dignità d’un principe.

Nel 1526 Lodovico II, rè di Ungheria, periva nella catastrofe di Mohàcs, e una larga parte della sua eredità diventava il Pascialico di Buda, un’altra quello di Temesvàr. Ferdinando, fratello di Carlo Imperatore, prendeva i comitati del Sud, Ovest e Nord e fissava in Pressburg o Posonia la sua residenza ungarica. La Transilvania ed il territorio fino al fiume Tissa furono ritenuti dal Vaivoda Giovanni Zàpolya e poi dal suo figlio colla principessa polacca Isabella (figlia anch’ essa di Bona Sforza).

Il Moldavo ambiva la possessione di questa Transilvania dove, umiliati, perseguitati e scontentissimi, vivevano tanti contadini rumeni; i Siculi erano disposti a sostener le sue pretenzioni. La lunga guerra tra Ferdinandisti e Zàpolyani gli teneva sempre aperto l’ingresso nel paese, e nella battaglia di Földvàr presso a Corona i Moldavi guadagnarono una grande vittoria. Assediò Corona stessa ed ottenne la cessione della città di Bistritz e delle miniere di Rodna con tutto il territorio vicino. Cercò di riprender ai Polacchi la Pocuzia, ma ebbe il peggio nel combattimento di Obertyn (agosto 1531), descritto anche in una lettera italiana di Ercole Dalmata, viaggiatore in Moldavia. Il Sultano Solimano il Magnifico andò in persona per scacciarlo nel 1538: la Moldavia perdette allora la sua città di Tighine sul Nistro, vecchia dogana verso il deserto tartaro che [p. 83 modifica]menava a Caffa, e quivi, nel nuovo Bender (arabico: Porta), si stabilirono gianizzeri; la parte sudica del territorio tra il Nistro ed il Prut fu riunita alle città osmane di Bender, Chili e Acherman (già Cetatea-Albă e Moncastro). Ma, due anni dopo, Pietro, ch’era andato a Costantinopoli, tutto arrischiando pur di riavere il regno,

Il monastero Pobrata fondazione, di Pietro Rareş.


fu riconfermato da Solimano, e, dal 1541 fino al 1546, malgrado le sue negoziazioni col marchese Giovacchino di Brandenburgo, capitano della crociata tedesca destinata a riprender la Capitale ungherese, Pietro regnò da ricco e potente rè; entrò in Transilvania e fece prigioniero il Vaivoda Stefano Majlàth, di [p. 84 modifica] origine rumena, che i Turchi volevano avere e punire per le sue velleità d’indipendenza.

6. Ma ora i principati rumeni stavano piuttosto sotto l’influenza della cultura germanica ed, in quel che riguarda la Moldavia, anche polacca, senza contar le relazioni sempre più strette coll’Oriente greco e turco. Gl’Italiani però venivano in questo tempo, come agenti politici, in Moldavia e Valacchia, e qualcheduno notava anche quanto vi aveva veduto. Così fece Della Valle, a cui i monaci di Dealu, della scuola dì Macario, il quale diventò Metropolita del paese, parlarono dalla discendenza romana, che aveva sostenuta già Enea-Silvio de’ Piccolomini; poi Tranquillo Andronico, un Dalmatino di Traù Ragusini s’incontrano nelle città rumene già nella seconda metà del secolo decimo quinto. Quest’ultimo scrive così sulla lingua e le usanze dei Rumeni:« Si dicono Romani, ma non hanno niente di romano che la lingua, anch’ essa molto corrotta e mista di idiomi barbari: forse trassero dai Romani le civili discordie ed il tirannicidio, perchè raramente i loro Voevodi finiscono di morte naturale; non c’è nessuna misura e nessun fine nelle inimicizie: fratelli e cognati di principi sono sospetti a questi, che non gli lasciano star nel regno; se vengono presi, gli uccidono, ovvero, se sono vili, gli si fanno tagliar le narici per non poter poi, in quanto diformi, esser ammessi al principato. Nissuna [p. 85 modifica] gente è più ignava e più perfida: lo spergiuro per loro non è riprensibile,»

Il monastero Slatina: l’entrata nella chiesa.

7. Esprimendosi in questi termini, Tranquillo pensava all’attitudine di Rareş verso Aloisio Gritti, governatore di Ungheria in nome di Solimano. Dopo aver attraversato due volte la Valacchia, questo bastardo di doge e [p. 86 modifica] favorito del Sultano fu attaccato dai Transilvani ch’egli aveva gravemente offeso, ed il Moldavo, fingendo di soccorrerlo, lo consegnava nelle mani dei suoi nemici per esser ammazzato; i due figliuoli dell’ardito avventuriere furono portati via da Pietro, e non si udì più il loro nome. Così si vendicava il Voevoda perchè credevasi che il Gritti avesse cercato di guadagnar le sedi di Valacchia e Moldavia per quei due infelici giovani.

8. Alessandro Lăpuşneanu, figlio di Bogdan e di una donna del borgo di Lăpuşna, che ottenne colle armi la Moldavia dopo il rinnegamento o la morte dei due figli di Pietro Rareş, cercò di rinnovar le relazioni coll’Italia. Questo principe malatuccio, che doveva perder la vista, questo spietato tiranno che uccise i suoi consiglieri in un’orgia di morte era un buon negoziante di buoi e di porci. Fu contentissimo allor quando, nel 1559) un Fiorentino ed un Veneziano vennero in Iaşi (Jassy), la sua nuova Capitale, per proporgli di menar le sue greggi nell’Impero. Un Bresciano voleva comprar buoi e pelli per Giovanni de’ Francisci di Venezia: Alessandro acconsentì ad esser pagato per una metà in ducati ungarici, per l’altra in velluto, in broccati, in panni di seta, in damaschi, scarlati, bergamini, ecc. Si conserva ancora la sua lettera latina ed un’altra lettera slava negli archivi di San-Marco. Uno dei medici di questo [p. 87 modifica]valetudinario, che si lagna poi di esser stato avvelenato, era natio d’Asolo di Bressana.

9. Il figlio di Lăpuşneanu e di Ruxanda figlia di Pietro Rareş, Bogdan, volle trovar moglie in Polonia, venne ivi catturato per contese privati, e in vece sua ebbe la Moldavia Giovanni, figlio di Stefano-il-Giovane e di una donna armena. Rifiutando di accrescer il tributo, già più volte cresciuto Pietro pagava 10.000 ducati, trovò nella «colluvie» dei Cosacchi del Dniepr, tra quali molti erano Rumeni, le truppe necessarie alla resistenza. Dopo aver guadagnato vittorie sulle schiere dei «beg» del Danubio, fu attaccato dal rinegato Cigala con un possente esercito, costretto a capitolar, ed il suo corpo squarciato da quattro [p. 88 modifica] cammelli (giugno 1574). Dopo la sua terribile morte, i Cosacchi portarono in Moldavia più di un falso Giovanni ed altri pretendenti. Il più valente tra loro, un certo Potcoavă, perchè era capace di romper ferri di cavallo, ebbe la testa mozza in Lembergo, dove aveva cercato ricovero; lo stesso avevano fatto i Polacchi, i quali temevano un’intervenzione turca, anche col successore di Despot, Stefano (Tomşa), e così fecero anche col figlio di Pietro Rareş avuto con una donna sassone di Corona, Iancu Sasul, nel 1582. Più tardi i Turchi stessi uccisero come ribelli altri infelici pretendenti moldavi e valacchi. Le competizioni trà i membri delle antiche dinastie, il gran numero di figli naturali dei principi, l’usanza dei Sultani e Visiri di metter all’incanto il trono dei principati, nonché lo spirito irrequieto dei boiari, la mancanza di una borghesia nazionale — le città, fondate da Tedeschi, Armeni, Ungheresi, non ebbero mai privilegi politici — e lo stato sempre più decaduto dei contadini, che perdevano già nella seconda metà del secolo decimo sesto prima le loro terre e poi anche la loro libertà personale (diventando in Valacchia: rumâni, Rumeni non liberi, e «vicini» - cf. i pareci dei Bizantini, ed anche in Cipro e nella Greta veneziana in Moldavia) avevano distrutto prosperità, indipendenza e dignità. L’autonomia rimase lo stesso intangibile, ed i Turchi non furono mai tollerati come abitanti dei principati rumeni. [p. 89 modifica]10. Quest’è l’epoca delle prime pubblicazioni in lingua volgare, rumena. Già sul principio del secolo decimo quinto il movimento ussita, che era penetrato nell’Ungheria settentrionale, poi nel Marmaros e nelle contrade vicine alla Transilvania dopo la morte di rè Alberto, Giskra, uno dei capi dell’ussitismo di questo Nord ungarico tenne occupati intieri distretti, aveva dato per mezzo di un prete sconosciuto la prima traduzione, incompleta, della Bibbia. I manoscritti si conservavano e si adoperavano soltanto pella lettura, mentre l’uffizio divino continuava a farsi in lingua slava.

La riforma, luterana e calvina, diede ai Sassoni ed Ungheri di Transilvania l’impulso per far stampar queste antiche versioni. Rumeni convertiti al calvinismo officiale dei principi transilvanici magiari, i quali già avevano nei chiostri di Vad, di Gioagiu, eretti dai vicini principi della loro razza, i loro soprintendenti, arricchirono questa letteratura con nuove versioni di commentari del Vangelo e con migliori traduzioni del Vecchio Testamento stesso. Così ebbero i Rumeni già prima del 1600, pel lavoro assiduo del prete Coresi fuggito al di là dei monti per scappar alle persecuzioni del Lăpuşneanu valacco Mircea-il-Pastore (Ciobanul), il Vangelo, gli Atti degli Apostoli, i Salmi, parti della Bibbia» Commentari evangelici e Prediche, un’Orario (Coresi stampava anche libri slavi, adoperati poi in tutte le numerosissime chiese che non avevano accettato la Riforma). La città di Cibinio mise già nel 1544 un [p. 90 modifica] catechismo luterano nelle mani dei contadini rumeni che abitavano nel suo distretto.

11. Relazioni con Italiani e colle città e Corti italiane si ebbero in questa seconda metà del secolo decimosesto, mentre correnti tedesche, ungariche, polacche dominavano la vita culturale rumena, soltanto pei pretendenti raminghi, che cercavano nei lontani paesi dell’Occidente il necessario appoggio per arrivar a Costantinopoli e per poter ivi conseguir il loro ultimo desiderio, ovvero pella propaganda cattolica, diventata più attiva in Oriente doppo i successi della Riforma e la creazione susseguente della nuova milizia pontificale dei Gesuiti.

Già «duca Iani» aveva domandato a Brusselle all’ambasciatore veneto protezione ed impiego. Il curioso avventuriere «Despota», di cui il nome vero era Giacopo Basilico, mà che ardiva intitolarsi anche marchese di Samo e Paro e discendente degli Eraclidi, questo Candiotto, copista di manoscritti in Roma — parlava bene italiano — , poi corteggiano di Cesare Carlo V, visitò principi tedeschi e signori polacchi prima di stabilirsi per la conquista nel regno di Moldavia, che conservò soltanto tre anni (1561-3), cercando di introdur col socinianismo religioso l’insegnamento superiore latino nella sua scuola di Cotnari, presso alla chiesa luterana di cui si vede ancora la mole rovinata. Chiamò dagli Stati vicini i suoi secretari, maestri e condottieri. Ad [p. 91 modifica] eccezione di pochi soldati mercenari, che lo servirono fino all’ultimo, nessun Italiano partecipò a questo straordinario

Chiesa di Neagoe Basarab in Argeş.


intermezzo di storia rumena che finì colla rivolta dei boiari, coll’assedio di Suceava, coll’esito reale del Despota, che si faceva nominare: «principe [p. 92 modifica] Giovanni», e coll’uccisione di questo ardito «tragediante». Gli archibugieri a cavallo che doveva assoldar in Italia Pier-Francesco «Farusino» non arrivarono mai. Ma la vita dell’infelice riformatore dei Rumeni, il quale rammentava loro l’origine romana - «voi, valenti homeni et gente bellicosa, discesi dali valorosi Romani, quali hano fatto tremer il mondo» fù scritta dal cardinal Commendone e poi da Antonio-Maria Graziani, che aveva passato parecchi anni nella vicina Polonia. Il primo giudicava che questi fatti parrebbero piuttosto appartener «alla vita di uno di quelli antichi Greci, deli quali scrive Plutarco, che di quelli che a tempi nostri hanno acquistato dominio e Signoria».

Qualche anno dopo la morte del Despota, Genova ospitava «Giovanni Georgio Heraclio Basilico Despota, disceso dalla linea degl’Imperatori Flavii Augusti Romani e dopo degli Costantinopolitani, per la Dio gratia ristauratore et Gran-Maestro de’ cavalieri di Santo-Georgio, di tutta la Grecia successore, rè del Peloponneso, di Moldavia, Valacchia, signore dell’Oriente, ecc.» e ’l suo secretario Domenico Anselmo, che era soltanto «cavagliere di San-Giorgio», voleva danari per «ricuperar le terre orientali occupate dall’immanissimo tiranno». Certamente costui non aveva niente che fare col Despota ammazzato sotto le mura di Suceava e non era altro che un impostore d’origine greca. [p. 93 modifica]12. Presso poco nello stesso tempo Nicolò Basarab, «marchese di Ialomiţa», costui indubbiamente un Rumeno, che si pretendeva parente di Neagoe, ottenne la fiducia del cardinale Dolfino e del Papa stesso, e, passando per Udine, dove restò qualche tempo ammalato, andò in Germania; poi se ne perde la traccia. Per vero figlio di Basarab-Neagoe si spacciava poi nel 1577 il medico lombardo Bernardo Rosso, abitante della costantinopolitana Galata, che fu rinchiuso a Rodi dopo aver speso 10.000 ducati per ottener la Valacchia. Verso il 1588 un certo Giovanni Bogdano, che si diceva figlio del giovane Stefano, principe di Moldavia, visitava Gregorio XIII, andava a Parigi, ritornava in Italia, dove lo ritroviamo a Torino, entrava a Venezia con un seguito di nobili francesi, faceva sembiante di aspettarvi l’ambasciator reale che doveva condurlo a Costantinopoli e, questo ritardando, riprendeva il suo viaggio in Occidente, non senza aver ricevuto dalla Signoria un soccorso di 200 ducati. Nel 1592 si aveva di nuovo il piacere, e la spesa, di vederlo a Venezia e a Murano, dove viveva come monaca, nel chiostro di San Maffio, la stessa sorella della principessa Ecaterina di Valacchia, moglie di Alessandro II, Maria o Mariora (rum. Mărioara) Adorno Vallarga.

13. Un più elegante esemplare di questo tipo fu Pietro o Pietro Demetrio, figlio del mite e pacifico principe di Valacchia Petraşco-il-Buono († 1557). Nel 1579 era [p. 94 modifica] cortigiano del re francese Enrico III, e, sostenuto da questo, andava in Turchia per raccoglier la sua paterna eredità. Era a Venezia nel marzo del 1581 ed ebbe la sua audienza dal doge prima di imbarcarsi per Ragusa. Era un bel giovane, con lunga chioma; parlava francese ed italiano ed era in stato di trattare in iscritto non soltanto quei concetti ch’erano tanto pregiati alla Corte di Caterina de’ Medici, ma anche un inno a Dio che ci hà conservato Stefano Guazzo, nei suoi «Dialoghi piacevoli». Ottenne, più felice che i suoi rivali, la sede valacca, costruì chiese e palazzi, fece fonder cannoni e intrattenne una Corte in cui si ritrovavano anche Italiani, «cavaglieri», tra quali un certo Franco. Costretto dai Turchi, nel 1585, dopo due soli anni di regno, a rifugiarsi in Transilvania, scappò dalla prigione di Hust e apparve di nuovo in Italia, dove trovò anche questa volta ammiratori ed amici. L’accompagnava il suo segretario Francesco Sivori, Genovese. Abitava nella Cà Pozzo, «vecchia e marcia», che dovette abbandonar quando la Signoria gli mostrò il pericolo che poteva risultar per la sua persona dai tanti stranieri che concorrevano nella città. Passò qualche giorno a Mantova e Ferrara voleva far anche pellegrinaggi a Loreto ed a Roma poi tornò a Venezia, malgrado il divieto del Senato, finché, nel giugno del 1589, s’imbarcava su una fregata del governo per Costantinopoli, dove fù annegato nel Bosforo. Era partito ringraziando ed augurando alla città che, «sì come il Signor [p. 95 modifica] Dio l’hà conservata sempre come une vergine celeste, così si degni conservarla sempre vergine, liberandola de ogni pericolo e dandole sempre felicità».

Chiesa di Snagov (fine del secolo decimo sesto).

14. Dopo Pietro detto «Cercel» pell’ orecchino che portava alla moda dei «mignons» di Parigi, venne a [p. 96 modifica] Venezia, nel 1590, andando a Roma come rappresentante del partito cattolico nel clero moldavo, un Stefano figlio del tiranno Lăpuşneanu. Fù aiutato con cento ducati. Un’intiera colonia moldava vi si stabilì poi quando il fuggiasco principe di Moldavia Pietro-il-Zoppo, che aveva voluto sceglier Arco per sua residenza, si fermò fino alla sua morte a Bolzano. Sua figlia Maria, il marito di questa, Zoto Tzigaras, ch’è sepolto nel cimitero di San-Giorgio dei Greci, poi una schiera di cortigiani e parenti di questo infelice esule furono ospiti della città, dove si tessero tutti gl’intrighi pell’ eredità di Pietro e si giudicarono i processi che aveva provocato. Maria sposò dopo la morte di Zoto il nobile veneto Polo Minio, che visitò più tardi la Moldavia: il loro figlio unico, Teodoro Stefano, nato nel 1603, sposò Giulia Morosini e lasciò una numerosa posterità.

In Venezia fù educato Radu, il figlio del nipote di Pietro-lo-Zoppo e della monaca di Murano, Mihnea, il quale aveva rinnegato la fede cristiana: questo Radu regnò più volte in Valacchia e Moldavia ed ebbe un gran ruolo di pacificatore tra Polacchi e Turchi. Bogdano, figlio di Iancu, il principe decapitato a Lemberg, si trovava a Venezia nel 1593 colla madre, e la sorella di questo nuovo pretendente, Maria, sposò Giovanni Zane; il matrimonio di Bogdano stesso con una donzella Elena Cievatelli che viveva da professa in [p. 97 modifica] un monastero di Venezia, fu impedito dall’autorità ecclesiastica.

15. Sul principio del secolo decimosesto il successore del largo donatario dei chiostri greci Radu-il-Grande, Mihnea, figlio di Ţepeş e di una parente del rè Mattia Corvino, era rimasto cattolico e fù ucciso, dopo esser stato scacciato pei suoi atti di crudeltà, in Cibinio, mentre usciva dalla chiesa latina. Nessuno dei suoi successori mostrò simpatie pel cattolicismo, benché Mircea il-Pastore avesse maritato una sua figliuola con un nobile transilvano forse cattolico. Prima che la compagnia di Gesù si stabilisse in Transilvania, dove i Padri vi restarono dal 1578 al 1588 per ritornar nel 1595, richiamati dal loro allievo, il principe Sigismondo Bathory, ed in Polonia, dove furono ammessi dallo zio di costui, dal rè Stefano Bathory, Alessandro, principe di Valacchia, marito della Levantina Caterina, la madre della quale era cattolica, faceva eseguir in Roma un’epitatìo pella chiesa cattolica, di Tîrgoviște, a cui il figlio Mihnea rigalava, con diversi dritti d’essenzione i villaggi di Şotînga e Bezdad. La chiesa era servita da Francescani ungheresi. Alle istanze dell’Albanese italianizzato Bartolomeo Bruti, fratello del dragomano veneto a Costantinopoli, Pietro, cugino di Alessandro e principe di Moldavia (dal 1574; morto a Bolzano; v. p. 88), restituì al culto cattolico i villaggi abitati da Magiari e Sassoni e fece venir da Leopoli Padri [p. 98 modifica] polacchi per catechizzarli. Il Croata Alessandro Comuleo ed il padre Mancinelli, tutti due Gesuiti, visitarono

Pietro-il-Zoppo, principe di Moldavia.


in quel tempo i principati. Non trovarono più mercanti italiani, che erano stati sostituiti dai Ragusini, da Ghiotti e specialmente da Candiotti, i quali diedero [p. 99 modifica] alla Moldavia il ricchissimo appaltatore delle dogane Costantino Corniacto, Greco ortodosso e costruttore della chiesa «moldava» di Leopoli (successori suoi furono i fratelli di Marini Poli, Ragusini, al pari del loro associato Domenico). Il legato Annibale di Capua, il cardinale Montalto proteggevano l’opera di proselitismo nei paesi rumeni, in cui ebbe la sua parte anche il celebre padre Possevino, predicatore nella Moscovia. Già dopo ’l 1580 aveva residenza a Bacovia l’Italiano o Greco di lingua italiana Geronimo Arsengo, «vicario e vescovo eletto di Moldavia», Minorità, e nel 1590 un Veneziano di Gandia, Bernardino Guerini, fu nominato «vescovo din Argeş e della Moldavia e Valacchia», colla residenza nella stessa città di Bacău: tornato da Roma nel 1599, portava ai principi rumeni brevi apostolici che gl’invitavano all’Unione colla chiesa d’Occidente1.

16. Già era scoppiata quella rivolta della Transilvania, Moldavia e Valacchia contro i Turchi che doveva rinnovar in Europa la memoria del valore dei Rumeni. Sigismondo Bàthory era stato educato dai suoi precettori gesuiti nell’idea della necessità di una lotta dei cristiani contro la tirannia degli osmani Infedeli. Il suo confessore, lo Spagnuolo Alfonso Carrillo, la sua Corte, composta in parte d’italiani, tra quali un Fabio Genga [p. 100 modifica] e Pietro Busto, Bresciano, il suo musicante, nutrivano in lui la speranza di poter diventar un nuovo «atleta della cristianità». Già nel 1594, dopo che il Papa aveva deputato presso di lui Alessandro Comuleo, il principe transilvano dava il segnale della guerra, in un tempo in cui gli eserciti osmani attaccavano (dal 1593) le possessioni ungheresi della Casa d’Austria.

17. Nel 1593 Michele, fratello di Pietro Cercel, otteneva pagando, secondo il solito, il possesso della Valacchia. In Moldavia aveva ricomprato la sede un figlio naturale di Alessandro Lăpuşneanu, Aron, erede della patria crudeltà. Tutti due i principi rumeni dovevano sostener i Turchi con viveri e danari e, nello stato in cui si trovavano i loro paesi, non potevano più corrisponder alle continue richieste dei loro padroni. Arrischiarono dunque anch’essi una sollevazione, tagliando a pezzi i creditori turchi o sudditi turchi che pretendevano anche il pagamento dei debiti fatti dai loro predecessori e si erano istallati da padroni a Bucarest e Iassy. Aron fece incursioni nel territorio di Chili, Accherman e Bender e potè prender la nuova fortezza turca d’Ismail. Il Valacco brucciava le città osmane su ambedue le rive danubiane e batteva i Tartari che ritornavano dall’Ungheria. Sigismondo, che sospettava la fedeltà di Arone, lo fece menar in Transilvania, — dove poco poi morì, e la guardia ungherese diede a Stefano, detto prima [p. 101 modifica] Răzvan, di madre zingara, il trono moldavo. Michele fu costretto anch’ esso a dichiararsi vasallo, «capitano», del vicino più potente di lui.

18. In quel frattempo il Gran-Visir stesso, Sinan, era entrato in Valacchia per punir il ribelle. Nelle paludi del Neajlov, sulla strada che và da Giurgiu, allora turco, a Bucarest, il principe valacco ebbe l’ardire di affrontarlo con un piccolo esercito di Rumeni, Cosacchi ed Ungheresi, venuti dalla Transilvania. Il coraggio personale di Michele riportò la vittoria in questo combattimento di Călugăreni, al 23 di agosto 1595.

Una relazione del bailo veneto descrive la vittoria in queste parole:

Dato il segno, furono improvvisamente assaliti i Turchi, dai fianchi et dalle spalle assai più che dalla fronte, dai cristiani che si avventorono sopra di loro, che in quella guisa ancora si difendevano, resistendo non poco, per il grandissimo vantaggio del tramonto, non cessando intanto i cristiani con buon ordine et con giudicio di spingersi loro adosso animosamente, urtandoli et facendone traboccar una grandissima quantità nella propinqua palude, dove restorono affogati et sepolti nel paltano. Degli altri, in gran numero fugati et sparsi, molti perirono, qual di fuoco et qual di ferro, con varie qualità di morte.
Fù asprissima la battaglia, che durò di quà del [p. 102 modifica]

mezzo giorno fino alla sera, et ben convennero i cristiani menar le mani per aterrar tanta moltitudine

Michele-il-Bravo.


A canto di Sinan generale, che, [trascorso avanti in abito sconosciuto, procurava di [p. 103 modifica]

rimetter la sua gente fugata et smarrita, furono amazzati quattro giovani suoi più famigliari, et egli, scavalcato la terza volta di una lanciata che ’l ferì malamente nel volto, con l’essersi fiacati in bocca, nel cadere sopra la testa del cavallo, i denti davanti, fù vicino ad affogarsi nel fango della medesimo palude, dove restò morto il suo cavallo, et egli, dopo essere stato gran pezzo dibattendosi per quel fango, finalmente fù agiutato a rimontar sopra un’altro cavallo per sua gran ventura, da un spai che’l riconobbe a tempo. Che, se fosse stato conosciuto dai cristiani, non usciva dalle mani loro, o vivo, o morto. I gianizzeri da Damasco, archibusieri a cavallo, sono cadetti assieme con gli altri gianizzeri pedoni, et con disdotto loro capi, et col resto della fanteria. La cavalleria tutta fu bersagliata et sbarata ta, tre beglierbei sono restati morti, et un altro, che da Sinan era stato creato Visir della Porta, cadde ferito di archibuso nel petto, mortalmente, et sono morti più di cinque volte tanti sanzachi.


Ma i vincitori, troppo deboli, dovettero ritirarsi nelle montagne, e Sinan fortificò Bucarest e Tîrgovişte, dove postò i suoi giannizzeri per difender la nuova provincia del Sultano.

Soltanto nel settembre ripresero Valacchi, Transilvani ed anche Moldavi l’offesiva, sotto il comando [p. 104 modifica] nominale di Sigismondo. Cento Toscani, mandati dal Gran-Duca, partigiano della crocciata e creatore dell’Ordine di San-Stefano per combatter i Turchi, si trovavano nell’essercito. Erano «soldati esperti et veterani, tutti capitani, luogotenenti, alfieri et sergenti, per senno et per valore riguardevoli et conosciuti», stando sotto gli ordini di Silvio Piccolomini, «eccelentissimo capitano di guerra», dicesi nella loro «Descrizione del lungo et travagliato viaggio». Alla ripresa di Tîrgovişte ebbero poca parte, ma l’opera loro fu assolutamente necessaria per poter conquistar la vecchia fortezza construita nell’isola di Giurgiu. Tra quei che assalirono il castello si mentovano i nomi di Marzio Montaguto, Ermodine Gentile, Francesco Pètrucci ed altri, anche un Veneziano, Turione. «Il Serenissimo Transilvano et monsignor nunzio dì Sua Santità» Monsignor Visconti, vescovo di Cervia, che hà lasciato nelle sue lettere la storia di questa guerra del Danubio — «et tutta la nobilita del essercito furono insieme spettatori et testimoni della virtù et del valore degl’Italiani.»

19. Dopo altri successi Michele, ridiventato principe indipendente, conchiuse un’armistizio coi Turchi. Vi era costretto anche per via dell’invasione fatta in Moldavia dal cancelliere di Polonia, Ian Zamoyski, un allievo della scuola di Padova, il quale aveva installato [p. 105 modifica] a Iassy il boiar Geremia Movilă e l’aveva difeso, a Țuţora, contro i Tartari.

Ora si presentava a Michele l’occasione di scappar dalle pretenzioni di suzeranità del Transilvano e d’impadronirsi di quel ricco paese, dove la più parte dei contadini appartenevano alla razza rumena -, benché egli non avesse avuto il proposito di riunir sotto lo stesso scettro la nazione rumena intiera: il tempo per questo ideale, ch’è una necessità logica per ogni popolo, non era venuto ancora. Ma la tentazione di questa provincia vicina, risparmiata fin’ora dalle depredazioni osmane, che gli si offriva pello scoraggiamento di Sigismondo, il quale, non potendo realizzar le sue grandi speranze, non anelava adesso ad altro che alla vita solitaria in qualche residenza del patrimonio austriaco, e la tardanza degl’Imperiali, a cui l’aveva ceduta, di prenderne possesso, erano motivi irresistibili per un temperamento come ’l suo.

Nel 1597 l’Imperatore, in seguito alla rinuncia di Sigismondo, diventava padrone della Transilvania, magia nell’estate prossima dell’anno 1598 Sigismondo ritornava nel paese, richiamato dai nobili ungheresi, che non potevano soffrire una dominazione estera. Difficoltà che gli parevano invincibili lo fecero rinnovar la sua abdicazione sul principiare del 1599, lasciando questo volta l’eredità del Bàthory al cugino, cardinale Andrea, giovane vescovo in Polonia. Questi non tardò a negoziare coi Turchi e coi Moldavi di Geremia, [p. 106 modifica] semplice agente di Zamoyski e che per fargli piacere, prendeva parte alle processioni cattoliche in Suceava, onde provocar la rovina dell’incomodo Michele. Dopo essersi inteso cogli Imperiali, costui entrava in Transilvania, ed in una sola gran battaglia, a Schellenberg presso Cibinio, questo «pastore», come lo chiamava con disprezzo Andrea, distrusse l’esercito ungherese (28 ottobre 1599). Il fuggiasco cardinale fù ucciso da Siculi pastori. Michele fece sepelir in Alba-Giulia, Capitale della provincia, quel «povero prete» e condusse egli stesso i funeragli.

Nominalmente il conquistatore si spacciava soltanto per luogotenente dell’Imperatore Rodolfo, ma infatti lui non considerava la propria autorità in Transilvania come di essenza diversa da quella di cui godeva già nella stessa Valacchia. Nel maggio susseguente trovò anche l’occasione d’impadronirsi della Moldavia, dove Geremia non ebbe il coraggio di opporgli resistenza, ma cercò rifugio a Hotin e poi in Polonia. Michele, il quale aveva confidato il paese valacco al suo unico figlio Petraşcu ch’egli fece nominar principe Niccolò, stabilita in Suceava una reggenza di tre boiari, ritornò in Transilvania, aspettando quel dottor Pezzen, commissario imperiale, che doveva portagli il danaro necessario per le paghe del suo esercito di mercenari.

Ma l’arrivo di Pezzen tardava. Per ingannar l’impazienza del «Valacco» la Corte gli aveva mandato altri agenti, tra quali l’Italiano Carlo Magno, il [p. 107 modifica] Ragusino Giovanni dei Marini Polì. Un Albanese italianizzato, del reame di Napoli, Giorgio Basta, autore di pregiati opuscoli sulla cavalleria leggiera e sul maestro-di-campo, nonché di memorie che publicarono poi Sirtori e Spontoni, invidiava al «barbaro» il possesso di quella Transilvania che lui stesso, come governatore dell’Ungheria Superiore, aveva voluto occupare. Da canto suo, Michele accusava il generale che, «con li altri suoi seguazzi, hanno rovinato tre comitati, passeggiandosene per il paese a levar il sangue a poveri villani, e il desiderio suo era di entrar in questo a far il medemo. Se si tiene per tanto bravo», aggiungeva Michele, il quale doveva esser nominato dai posteri «Viteazul», il Bravo, «perchè non hà tentato in questo mentre con il suo esercito qualche piazza dell’inimico», come lui, Michele, sperava di far anche altre «honorate imprese, che si giudicarà dipoi il valore d’ambi doi», andando fino ad Adrianopoli a «rompersi la testa» col Sultano stesso?

Già nel settembre scoppiava la rivolta degli nobili magiari di Transilvania sdegnosi contro questo odioso signore rumeno. «Che l’Imperatore ci mandi piuttosto uno di quei servi che accendono il fuoco nelle sue stanze», avevano eglino detto, dando sfogo alla loro passione. Invece di aiutar il rappresentante dell’Imperatore, Basta, contentissimo della piega che prendavano la cose, si riuniva agli Stati transilvani ribelli. Nel battaglia sul fiume Maros (Murăş), presso a Enyed [p. 108 modifica] (rum. Aiud), nella vicinanza immediata del piccolo villaggio di Mirislău (ung. Miriszló), Michele fù vinto dall’arte militare del suo rivale. Tornò subito in Valacchia, dove già i Polacchi avevano portato un secondo loro vasallo, Simeone, fratello di Geremia, che aveva pur ripreso dominio della Moldavia. Negli scontri che ebbe colle milizie del cancelliere Zamoyski, venuto in persona per finirla con questo nemico della Polonia, che sperava di potervi guadagnar una corona reale, come già il suo predecessore ungherese in Transilvania, Stefano Bàthory, Michele ebbe la peggio. Şi aprì strada fino a Viena, dove sperava trovar dall’Imperatore giustizia e ricompensa pei suoi lunghi e fedeli servizi.

Vi fù tanto meglio ricevuto che Sigismondo era già ritornato nella sua eredità. Si credette poter impiegar Basta stesso ed il «Valacco» per rientrar nel possesso della Transilvania e punir quei maestri traditori che avevano già tre volte ingannata la diplomazia imperiale. A Goroszló (Goroslău) le schiere ungheresi furono completamente disfatte. L’esercito unito, composto da mercenari d’ogni nazione ed avente due capitani tra loro indipendenti, marciò fino a Torda (rum. Turda). Michele voleva prender i suoi per andar verso il castello di Făgăraş, dove era rinchiusa la sua famiglia per entrar poi nella Valacchia stessa a scacciar l’usurpatore moldavo. Basta volle impedirgli l’attuazione di questo proposito e, prevedendone la resistenza, impiegò quel [p. 109 modifica] metodo criminale che aveva imparato nelle provincie olandesi di Filippo Secondo: una compagnia di fidi soldati valloni sotto Giacopo Beaury andò alla tenda di Michele per arrestarlo. «Io preso?, gridò il Bravo, e cadde subito colpito dalle alebarde (19 agosto 1601). Il suo corpo nudo fu gittato sui campi, la testa fu veduta legata al cadavere di un cavallo. I suoi fedeli poterono rapirla di nascosta ai cristiani profanatori e portarla riverentemente nel chiostro di Dealu, dove Michele aveva prestato nel 1598 il giuramento all’Imperatore e seppellirla presso alle reliquie di suo padre, Petrascu-il-Buono. La semplice iscrizione rumena contiene queste parole: «Qui trovò riposo l’onorato capo del cristiano Michele, il Gran Voevoda, che fù principe della Valacchia, della Transilvania e della Moldavia: il suo corpo onorato giace nei campi di Borda, e, quando l’uccisero gl’Imperiali (Nemţii= i Tedeschi), era l’anno 1601, il mese di agosto giorni 8. Questa pietra gliela dedicarono il signor Radul Buzescu e sua moglie, Preda».

20. Colla Sede romana non ebbe Michele relazioni dirette frequenti. Ma già nell’agosto del 1597 gli rispondeva il Papa della nuova crociata, Clemente VIII, lodando «la fortitudine ed alacrità del suo animo pella difensione valente della causa cristiana contro il Turco, accanito comune nemico» («animi tui fortitudinem et alaeritatem ad causato christianae Reipublicae [p. 110 modifica] propugnandam prò tua virili parte contra communem et infensissimum hostem Turcam»), ma non gli mandava nessun aiuto pecuniario per mezzo del di lui inviato Ettore Vorsi, uno di quei Cretani con carattere più greco che italiano abbondavano in quei tempi, i qualli nei principati. L’esortava invece a ritornar nel gremio della (chiesa cattolica, promettendogli non dimenticarlo l’anno prossimo nella ripartizione dei sussidii apostolici. Gli si richiamava in memoria anche l’ossequio dei «suoi predecessori, dai tempi più antichi», verso i Pontefici rappresentanti della necessaria cristiana unità. Nel 1599 la corrispondenza colla Curia continuava ancora, ed il Papa raccomandava a Michele il suo nunzio, Germanico vescovo di San-Severo, che si sforzò a pacificar gl’Imperiali ed i Polacchi, rivali pel possesso dei principati rumeni i quali mostravano tutt’altre intenzioni che quella di confondersi col dominio dei potentati vicini. Sul principio del 1600 il principe di Valacchia senza che si menzionasse la conquista della Transilvania fu invitato a riconoscer Bernardino Querini, vescovo di Argeş. Poi nell’aprile seguente Clemente III desiderava che il vincitore,— il quale aveva rovinato il trono di un cardinale — , diventasse «membro della Chiesa militante», prima di domandar quel soccorso, che anche questa volta gli venne rifiutato. Tali esortazioni contiene pure l’ultima lettera del Pontefice, a cui Michele si era indirizzato anche nei giorni della sua presenza a Praga. [p. 111 modifica] Basta mandò a Roma la nuova della morte del suo nemico per mezzo d’un Milanese «di Casa borsate», e ’l nuncio Spinelli non trovò nemeno una parola di condannazione dell’atto criminale di Torda.

21. Venezia, una volta la prima tra i rappresentanti di quell’idea politica del cristianesimo militante, aveva già da lungo tempo abbandonato quest’ideale, - cioè dalla perdita delle sue colonie orientali, poi dall’ultimo insuccesso della Lega che aveva guadagnata la gran vittoria navale di Lepanto. Michele conobbe i Veneziani soltanto dal lato mercantile, comprando da loro panni, stoffe di raso e di veluto, pelli di leopardo, scimitarre, nonché colori, confetti, «zuccheri» ed olive, e pagava il dazio di «ducati nove e mezzo», pel trasporto in valore di 170 ducati.

22. Radu Mihnea, allievo di maestri veneziani, fu mandato da Costantinopoli più volte per occupar la sede dei principi valacchi contro Simeone e contro il nuovo candidato del partito guerriero, amico degl’Imperiali e della cristianità, il boiaro Şerban, che si fece chiamare anche lui: Radu. Questo Radu Şerban, che ricevette la confermazione di Rodolfo II e l’appoggio costante di Basta, ebbe a difendersi contro il Can dei Tartari che, riconducendo Simeone, penetrava fin nelle montagne di Prahova, dove, nel settembre del 1602, fu respinto, dopo ripetuti assalti di cavalleria [p. 112 modifica] [p. 113 modifica] che durarono due giorni. L’aiutavano truppe mandate dal governatore della Transilvania sotto il comando del conte Tommaso Cavrioli. Dopo un’anno Radu entrava nel paese vicino per ripagar questo servizio essenziale attaccando Mose Szekély che in qualità di principe transilvano si era ribellato contro all’Imperatore. Guadagnò nei primi di luglio 1603 la gran battaglia presso Corona, e Mosè stesso rimase tra i morti. «E cosci», scrive un’Italiano, che vi fù presente, «piegamo in un tempo a fugire li Hungari delii loro logiamenti, con grande obrobio e paura, inanti al vincitore; che, de 10 milia che erano, non credo che ne siano scampati 3 m. Se vede piena di morti quella campagna». Sette anni dopo Gabriele Bàthory, il quale come vasallo dei Turchi governava la Transilvania, finalemente ripresa agl’Imperiali, entrò in Valacchia, scacciandone Radu e devastando il paese, ma nel suo ritorno vittorioso quest’ultimo ebbe la sodisfazione di vendicarsi del vicino malvagio nella seconda battaglia vittoriosa di Corona (luglio 1611). «Nella mattina della domenica», scrive un Coronese, «i nostri signori magistrati, con tutti gli abitanti che avevano potuto montar a cavallo, andarono incontro al Voevoda ed ammirarono, andando con esso lui, la gran quantità dei corpi caduti. Il Voevoda disse: «Sono troppo debole per aver potuto far questo; non l’ ho fatto io. L’ha fatto Dio, il Signore del Cielo, colla sua invincibile mano». «Ma Radu non trovò dai Tedeschi [p. 114 modifica] appoggio necessario per impedir l’offensiva del Bàthory, e così perdette anche lui la sua sede valacca; morì a Vienna nel 1621 e tu sepolto con grandi onori nella chiesa metropolitana di S. Stefano, in attesa che le sue ossa fossero trasportate in Valacchia, dove regnava adesso incontesto Radu Mihnea. In Moldavia Simeone succedeva a Geremia, poi i loro figliuoli e delle principesse d’origine ungherese, Elisabetta e Margherita, si disputavano l’eredità paterna, finché vinse Elisabetta, che doveva finir poi schiava dei Turchi. Dopo la caduta di Radu Şerban i Turchi scacciarono il giovine Costantino, che, preso poi dai Tartari, si annegò nel Nistro. Un veterano delle guerre spagnuole, Stefano Tomşa II, prese possesso della sede moldava, ed il mercante veneziano Tommaso Alberti, che visitò in quel tempo la Moldavia, lo vide a Iassy «città senza muraglie, con ottomilia case in circa, mà tutte di legno (alquante chiese, alcune di pietra, mà parte sono rumate dalle guerre), sporchissima, con molto fango», «cavalcar accompagnato da 500 archebusieri, vestito di rosso, con la mazza ferrata in mano». Più tardi Radu Mihnea e suo figlio Alessandro-il-Giovine (Coconul) spartirono il dominio dei due principati con Alessandro Iliaş, della famiglia dei Rareş. Dei Movilă, regnarono ancora Gabriele, che si rifugiò in Transilvania sposando una Ungherese, e Mosè, che morì in Polonia. Le figlie di Geremia avevano sposato [p. 115 modifica]

signori polacchi ed, una di loro fù l’ava del rè Michele, Wiszniewiecki.

23. A Stefano ed a Radu s’indirizzava Paolo V chiedendo protezione pei, cattolici moldavi, e Radu Şerban aveva già confermato i privilegi, di quei di Valacchia; ma vescovi polacchi avevano occupato sotto la dinastia Movilă la sede vescovile di Bacovia. Una sorella di Radu era moglie del Levantino Bartolomeo Minetti, che fù il tutore del giovinetto Alessandro. Bernardo Borisi, parente del dragomano veneto, si trova fra i boiari di questo stesso Radu. Nel 1619 la Moldavia fù confidata, [p. 116 modifica] come ricompensa pei servizi prestati nel corso delle negoziazioni pella pace coll’Imperatore, al Croata, o piuttosto Morlacco italianizzato, Casparo Gratiani, prima duca di Paro e Nasso. Gratiani sperava poter seguir le traccie di Michele: ambiva la Transilvania e si ribellò contro i Turchi, chiamando in suo aiuto i Polacchi, che subirono un vero disastro a cui Casparo stesso non sopravisse, essendo ucciso da due boiari che l’avevano accompagnato nella sua fuga. Questo principe cattolico, che chiedeva soccorso al Papa e voleva sposar la figlia del dragomano veneto, menò con lui Ragusini ed Italiani, un Resti, un Annibale Amati, capitano di Hotin ed il capitano di Galaţi, Giambattista Montalbano, scrittore delle cose turchesche, di cui si conserva anche una «Vera relatione et aviso di Moldavia» sulla tragedia di Casparo Gratiani; voleva far commandante di tutte le sue forze lo stesso conte Maiolino Bisaccione, di Bologna, uno degli storici di questo tempo. Anche Polo Minio che voleva spedir per la via di Vidin e della Bosnia cavalli moldavi da impiegarsi nella cavalleria veneta, visitò in quel tempo il paese dove aveva regnato il suocero suo, e vi trovò ancora la memoria del «famoso Michale Vaivoda».



  1. Nello stesso tempo Giovanni Boterò descriveva anche i paesi rumeni nelle sue „Relationi Universali".