Commedia (Buti)/Inferno/Canto XVIII

Da Wikisource.
Inferno
Canto diciottesimo

../Canto XVII ../Canto XIX IncludiIntestazione 3 maggio 2018 100% Poemi

Inferno - Canto XVII Inferno - Canto XIX
[p. 467 modifica]

C A N T O   XVIII.

___________


1Luogo è in inferno detto Malebolge,
      Tutto di pietra e di color ferrigno,
      Come la cerchia, che d’intorno il volge.1
4Nel dritto mezzo del campo maligno
      Vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
      Di cui suo loco dicerò l’ordigno.2
7Quel cinghio, che rimane, adunque è tondo,
      Tra il pozzo e il piè dell’altra ripa dura,3
      Et è distinto in dieci parti il fondo.
10Quale, dove per guardia delle mura
      Più e più fossi cingon li castelli,
      La parte, dove son, rende figura;
13Tale imagine quivi facean quelli:4
      E come a tai fortezze dai lor sogli
      Alla riva di fuor son ponticelli;
16Così da imo della roccia scogli
      Movien, che ricidien li argini e i fossi
     Infino al pozzo, che i tronca e raccogli.5

[p. 468 modifica]

19In questo luogo, della schiena scossi
      Di Gerion, trovamoci; e il Poeta
      Tenne a sinistra, et io retro mi mossi.
22Alla man destra vidi nuova pieta,
      Nuovi tormenti e nuovi frustatori,
      Di che la prima bolgia era repleta.
25Nel fondo erano nudi i peccatori,
      Dal mezzo in qua ci venian verso il volto:
      Di là con noi; ma con passi maggiori:
28Come i Roman, per l’esercito molto,
      L’anno del Giubileo, su per lo ponte
      Ànno a passar la gente modo colto;
31Che dell’un lato tutti ànno la fronte6
      Verso il castello, e vanno a Santo Pietro,
      Dall’altra sponda vanno verso il monte.
34Di là, di qua, su per lo sasso tetro7
      Vidi demon cornuti con gran ferze,
      Che li battean crudelmente di retro.
37Ahi come facean lor levar le berze
      Alle prime percosse! e già nessuno
      Le seconde aspettava, nè le terze.
40Mentr’io andava, li occhi miei in uno
      Furon scontrati; et io sì tosto dissi:
      Già di veder costui non son digiuno.
43Perciò a figurarlo i piedi affissi;
      E il dolce Duca mio si ristette,8
      Et assentìo che alquanto indietro gissi.
46E quel frustato celar si credette
      Bassando il viso; ma poco li valse,
      Ch’io dissi: O tu, che li occhi a terra gette,

[p. 469 modifica]

49Se le fazion che porti non son false,
      Venedigo se’ tu Caccianimico;9
      Ma che ti mena a sì pungenti salse?
52Et elli a me: Mal volentier lo dico;
      Ma sforzami la tua chiara favella,
      Che mi fa ricordar del mondo antico.10
55Io fui colui, che la Ghisola bella
      Condussi a far la voglia del Marchese,
      Come che suoni la sconcia novella.
58E non pur io qui piango Bolognese;
      Anzi n’è questo loco tanto pieno,
      Che tante lingue non sono ora apprese
61A dicer sipa tra Savena e il Reno:11
      E se di ciò voi fede o testimonio,
      Recati a mente il nostro avaro seno.
64Così parlando il percosse un demonio
      Con la sua scuriata, e disse: Via,12
      Ruffian, qui non son femine da conio.
67Io mi raggiunsi con la Scorta mia:
      Poscia con pochi passi divenimmo
      Là dove un scoglio della ripa uscia.13
70Assai leggieramente quel salimmo,
      E volti a destra su per la sua scheggia,14
      Da quelle cerchie eterne ci partimmo.
73Quando noi fumo là, dov’el vaneggia15
      Di sotto, per dar passo alli sferzati,
      Lo Duca disse: Attendi, e fa che feggia

[p. 470 modifica]

76Lo viso in te di questi altri mal nati,
      A’ quali ancor non vedesti la faccia:
      Però che son con noi insieme andati.
79Del vecchio ponte guardavan la traccia,
      Che venia verso noi dall’altra banda,
      E che la ferza similmente scaccia.16
82Il buon Maestro, sanza mia dimanda,
      Mi disse: Guarda quel grande che viene,
      E per dolor non par lagrima spanda:
85 Quanto aspetto reale ancor ritene!
      Quelli è Giason, che per cuore e per senno
      Li Colchi del monton privati fene.1718
88Elli passò per l’isola di Lenno,
      Poi che le ardite femine spietate19
      Tutti li maschi loro a morte dienno.
91Ivi con segni e con parole ornate
      Isifile ingannò, la giovanetta,
      Che prima avea tutte l’altre ingannate.20
94Lasciolla quivi gravida e soletta:
      Tal colpa a tal matirio lui condanna;
      Et anco di Medea si fa vendetta.
97Con lui sen va chi di tal parte inganna;
      E questo basti della prima valle
      Saper, e di color che in sè assanna.21
100Già eravam dove lo stretto calle
      Con l’argine secondo s’incrocicchia,
      E fa di quello ad un altro arco spalle.

[p. 471 modifica]

103Quindi sentimmo gente, che sì nicchia22
      Nell’altra bolgia, che col muso sbuffa,
      E sè medesma con le palme picchia.23
106Le ripe eran gromate d’una muffa,24
      Per l’alito di giù, che vi si appasta,
      Che con li occhi e col naso facea zuffa.
109Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
      L’occhio a veder, senza montare al dosso
      Dell’arco, ove lo scoglio più soprasta.
112Quivi venimmo, e quindi giù nel fosso
      Vidi gente attuffata in uno sterco,
      Che dalli uman privadi parea mosso.25
115E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
      Vidi un col capo sì di merda lordo,
      Che non parea s’era laico o cherco.
118Quei mi sgridò: Perchè se’ tu sì gordo26
      Di riguardar più me, che li altri brutti?
      Et io a lui: Perchè, se ben ricordo,
121Già t’ò veduto coi capelli asciutti,
      E se’ Alesso Interminei da Lucca;27
      Però t’adocchio più che li altri tutti.
124Et elli allor, battendosi la zucca:
      Qua giù m’ànno sommerso le lusinghe,
      Ond’io non ebbi mai la lingua stucca.
127Appresso ciò lo Duca: Fa che pinghe,
      Mi disse, il viso un poco più avante,
      Sì che con li occhi ben la faccia attinghe28

[p. 472 modifica]

130Di quella sozza e scapigliata fante,
      Che là si graffia con l’unghie merdose,
      Et or s’accoscia, et or è in piede stante.
133Taida è la puttana, che rispuose29
      Al drudo suo, quando disse: Ò io grazie
      Grandi appo te? Anzi maravigliose.
E quinci sian le nostre viste sazie.

  1. v. 3. C. M. lo cerchio,
  2. v. 6. suo loco. Maniera ellittica, dove supponsi la particella in; cioè in suo loco. E.
  3. v. 8. C. M. dell’alta ripa
  4. v. 13. Tali imagini
  5. v. 18. raccogli; gli raccò, raccoglieli, da raccore o raccorre. E.
  6. v. 31. C. M. Che dall’un lato
  7. v. 34 C. M. Di qua, di là
  8. v. 44. C. M. E il dolce Duca mio sì si ristette,
  9. v. 50. C. M. Venetico
  10. v. 54. Mi fa sovvenir
  11. v. 61. C. M. e Reno:
  12. v. 65. C. M. scorriada,
  13. v. 69. C. M. Dove uno scoglio
  14. v. 71. C. M. sopra la sua scheggia,
  15. v. 73. Fumo; voce primitiva e regolare e più prossima alla configurazione latina. E.
  16. v. 81. C. M. similmente caccia.
  17. v. 87. C. M. Li occhi del
  18. v. 87. fene. Per una tal quale dolcezza di lingua, anche oggi il popolo d’alcune provincie d’Italia pronunzia fane, fene, dane per fa, fe, dà e simili. E.
  19. v. 89. C. M. femine e spietate
  20. v. 93. C. M. avea l’altre tutte
  21. v. 99. Il Cod. Antaldino legge « di color che in sè affanna ». E.
  22. v. 103. C. M. Quivi
  23. v. 105. C. M. medesmo
  24. v. 106. Gromate, da groma o gruma. E.
  25. v. 114. Privadi; privati, secondo il facile scambio del t in d per eufonia. Così imperadore, codesto, in vece d’imperatore, cotesto ec. E.
  26. v. 118. C. M. sì ingordo
  27. v. 122. C. M. Allessio
  28. v. 129. C. M. Sì che la faccia ben con li occhi attinghe
  29. v. 133. C. M. Taide

___________


C O M M E N T O

Luogo è in inferno ec. In questo xviii canto l’autore nostro comincia a trattare dell’ottavo cerchio, ove si punisce l’astuzia, o vero fraude, che s’usa in verso lo prossimo non confidente, la quale à divisa in dieci spezie, e così à distinto lo cerchio in dieci bolgie. Et in questo canto tratta della prima e comincia a trattar della seconda; e però si divide principalmente in due parti, perchè prima incomincia a trattar della prima, ove si puniscono li seduttori e ingannatori delle femmine; nella seconda compie di trattare d’essi, e comincia a trattare della seconda bolgia ove si puniscono li adulatori e lusinghieri, e comincia la seconda, quivi: Io mi raggiunsi con la Scorta ec. Questa prima, che fia la prima lezione, si divide in cinque parti: imperò che prima l’autor descrive lo cerchio ottavo; nella seconda induce una similitudine a manifestare la descrizione, quivi: Quale, dove ec.; nella terza manifesta il luogo ove si pose Gerione, quivi: In questo luogo, ec.; nella quarta dimostra come conobbe uno di quelli seduttori, quivi: Mentr’io andava, ec.; nella quinta pone come quelli si manifesta a lui, quivi: Et elli a me: ec. Divisa adunque la lezione, è da vedere la sentenzia litterale, che dice così:
     È uno luogo nell’inferno che si chiama Malebolge secondo ch’elli l’à nominato; e questo è l’ottavo cerchio et è tutto di color ferrigno e di pietra, come lo cerchio che il cigne intorno: et aggiugne che nel diritto mezzo di quello maligno campo ove è tanto 1 cavato che pare uno pozzo assai largo e profondo, del quale dice che dirà l’ordigno nel suo luogo, quando tratterà del nono et ultimo cerchio; e quel [p. 473 modifica]cinghio, che rimane tondo tra il pozzo e il piè dell’alta ripa, è l’ottavo cerchio et è distinto in x parti, et è tutto fatto a valloni l’uno dopo l’altro tondi, e così sono x a quella imagine che sono li fossi, l’uno dopo l’altro alle castella girati tondi intorno intorno per guardia delle mura. E come alle fortezze così fatte sono ponticelli che vanno dal soglio della fortezza alla ripa del fosso di fuori, così dalla parte di sotto della ripa del cerchio ottavo 2 si muovono scogli, li quali ricidono li argini e li fossi e terminano al pozzo, e quivi ove sono 3 li fossi sopr’essi, passano questi scogli, come ponticelli voti di sotto. Et aggiugne che in così fatto luogo; cioè giù basso appiè della ripa del vii cerchio, si trovarono smontati della schiena di Gerione; onde Virgilio procedendo nel cammino tenne verso mano sinistra, et elli li andò dietro: et andando verso mano ritta; cioè di verso lo pozzo, videno nuova miseria e nuovo tormento e nuovi frustatori, de’ quali era piena la prima bolgia. E nel fondo di questa bolgia erano i peccatori ignudi, partiti in due schiere, e l’una schiera ch’era infino al mezzo della bolgia da lato onde era Dante; cioè di qua, venivano inverso lui; e l’altra schiera che tenea l’altro mezzo andavano verso mano sinistra, come Dante; ma tutti andavano velocemente. E fa una comparazione, che così andavano costoro contrari l’uno a l’altro, come fanno andare li Romani li pellegrini nel tempo del Giubileo su per lo ponte, che dall’un lato vanno tutti verso lo castello, e dall’ altro vanno verso il monte, perchè possa andare chi va, e tornar chi torna. E dice che in su li argini di questo primo vallone dall’un lato e dall’altro vide demoni cornuti con grandi scuriate, e batteano questi nudi di retro crudelmente: et aggiugne che faceano bene loro levare le gambe a correre per li gran colpi, e dopo la prima percossa non aspettavano la seconda percossa, nè la terza. E dice Dante che mentre ch’elli andava, li occhi suoi si scontravano in uno il quale disse ch’avea già veduto, e però si fermò per affigurarlo; e Virgilio si fermò e consentì che Dante tornasse un poco indietro con lui. E questo frustato, dice Dante, che abbassò il viso credendosi celare; ma poco li valse: chè Dante li disse allora: Tu, che gitti li occhi a terra, se le fattezze che porti non sono false, tu se’ Venedigo de’ Caccianimici, che è uno casato di Bologna; ma che ti mena a sì pungenti salse? Et elli allora rispose: Mal volentieri tel dico; ma sforzami la tua chiara favella, che mi fa sovvenir del mondo antico. Io fui colui che condussi la Ghisola bella a far la voglia del Marchese, come 4 si dica la sconcia novella; e non pur io Bolognese piango qui: chè ce n’à assai più, che non sono ora vivi in Bologna. [p. 474 modifica]E se di questo vogli fede o testimonio, arrecati a mente la nostra avarizia; e parlando così lo percosse uno demonio con la ferza e disse: Via, ruffiano, qui non sono femine da conio; cioè da essere ingannate: e qui finisce la sentenzia litterale. Ora è da vedere lo testo con le allegorie o vero moralitadi.

C. XVIII — v. 1-9. In questi tre ternari l’autor nostro descrive e nomina lo cerchio ottavo, dicendo: Luogo è in inferno; lo cerchio ottavo del quale ora si comincia a trattare, detto Malebolge; cioè questo luogo, secondo la nominazione dell’autore, che tanto viene a dire quanto mali ripostignoli; bolgia cioè ripostignolo, o vero ripostiglio, e veramente tal nome si conviene a questo luogo: imperò che l’autor finge qui essere puniti dieci spezie d’astuzia, le quali si commettono contra lo prossimo rompendo la carità naturale solamente, e non la fede, sicchè ben li si conviene essere chiamato Malebolge; cioè mali riposticoli: tanti mali in questo viii cerchio sono posti. Tutto di pietra e di color ferrigno 5; e questo finge l’autore, per mostrare che l’astuzia, o vero fraude, è dura come pietra perchè niuna carità, nè pietà à verso il prossimo, e di color ferrigno: imperò che è vestita di crudeltà, che non solamente è privata di carità e di pietà; ma ancora è vestita di crudeltà: imperò che aopera crudeltà verso lo prossimo, Come la cerchia; che termina lo vii cerchio, che d’intorno il volge; cioè gira intorno a questo luogo detto Malebolge, lo quale finge l’autore che sia di pietra e di color ferrigno, perchè la violenza, che si punisce in esso, à ancora simili condizioni. Nel dritto mezzo del campo maligno; cioè di questo ottavo cerchio, che bene si può chiamare campo maligno per quello che detto è, Vaneggia un pozzo 6; cioè ov’è uno voto a similitudine d’uno pozzo, e questo è lo nono cerchio lo quale per la sua strettezza, a rispetto di questo viii cerchio e delli altri, pare a modo d’uno pozzo, assai largo e profondo; questo dice perch’altri non intenda che lo luogo sia piccolo: imperò che di sopra disse pozzo; e profondo dice, a denotare che va infino al centro della terra, Di cui suo loco dicerò l’ordigno; cioè quando tratterò del ix et ultimo cerchio dell’inferno; e questo dice, per confermare quello che di sopra disse nel ix 7 canto, che fraude si può usare contra colui che si fida, e contra colui che non si fida. Quanto al primo modo è più grave che al secondo: imperò che qui si rompe due legami; cioè di carità naturale, e d’amore speciale dal quale nasce la fede; e però finge l’autore che più gravemente si punisca nel ix cerchio: e nel secondo modo si rompe pur lo [p. 475 modifica]vincolo generale d’amore che fa natura; e però finge l’autore che si punisca men gravemente nell’viii cerchio. Quel cinghio, che rimane; intorno al pozzo; cioè l’ottavo cerchio, adunque è tondo; e convien che sia tondo, sì perchè tutti li cerchi à finti esser tondi, e sì perchè dice che è intorno al pozzo, Tra il pozzo; detto di sopra, e il piè dell’altra ripa dura; e così manifesta la sua ampiezza, o vero latitudine, Et è distinto in dieci parti il fondo; di questo viii cerchio; cioè in dieci bolgie che sono dieci cerchietti, l’uno dopo l’altro, tra la ripa e il pozzo; cioè dieci fosse tonde; e come si passi sopra esso dirà di sotto.

C. XVIII — v. 10-18. In questi tre ternari l’autor nostro per similitudine conferma la descrizione dell’viii cerchio, dicendo: Quale; figura, rende la parte dove sono; cioè li fossi, dove; cioè in quel luogo, nel quale, per guardia delle mura; questo è il fine a che si fanno. Più e più fossi cingon li castelli; intorno a’quali sono fatti; Tale imagine quivi facean quelli; ora adatta la similitudine, dicendo che tale rappresentagione faceano quelli fossi dell’viii cerchio; et aggiugne l’altra similitudine, dicendo: E come a tai fortezze; cioè dove sono più fossi, dai lor sogli; cioè dalle porte loro ove è l’entrata, Alla riva di fuor; cioè de’ fossi, son ponticelli; che passano sopra i fossi; Così da imo della roccia scogli; cioè dalla parte di sotto di quella ripa del vii cerchio detto di sopra, Movien, che ricidien; cioè passavan sopra, li argini; che sono intorno alli fossi, e i fossi; che sono tra li argini, Infino al pozzo, che i tronca e raccogli; cioè in fino alla ripa tonda del nono cerchio ove finiscono. Et è qui da notare che litteralmente l’autor finge questo, per fare verisimile lo suo trattato, per mostrare come passasse sopra questi fossi. Oltra questo volle intendere allegoricamente per li dieci fossi le dieci spezie dell’astuzia, o vero fraude, che si commette contra il prossimo; rompendo pur lo legame dell’amore che fa la natura; cioè seduzione, adulazione, o vero lusinghe, simonia, affatturamento, baratteria, ipocresia, ladroneccio, fraudulento consiglio, seminamento di scandalo, falsità; e di queste intende di trattare mentre che tratterà dell’ottavo cerchio. E perchè finge che i peccatori secondo le predette spezie sono puniti distintamente nelle dette fosse, dà ad intendere che i peccatori che sono nelle predette spezie, stanno come sepolti nella fossa del suo vizio con quelle pene che à seco tal vizio; e questi scogli che continuano e legano queste fosse significano l’astuzia, o vero fraude, sotto la quale si legano le predette spezie; e però finge che passasse su per questi scogli, perchè li passò per considerazione tutte quelle spezie dette di sopra sotto lo genere suo, se non che in alcuna discese, del quale descenso nel suo luogo si renderà la ragione. [p. 476 modifica]

C. XVIII — v. 19-39. In questi sette ternari l’autor nostro finge come Gerion li posò a piè della ripa del vii cerchio, e come Virgilio seguitò suo cammino lungo la prima bolgia a man sinistra, e dimostra che pene sosteneano in quella bolgia i peccatori, dicendo: In questo luogo; descritto di sopra e nominato Malebolge, della schiena scossi Di Gerion, trovamoci; cioè Virgilio et io Dante, e il Poeta; cioè Virgilio, Tenne a sinistra; sì come tuttavia sono iti per cagione assegnata di sopra, et io; cioè Dante, retro mi mossi; a Virgilio. Alla man destra; così li venia la prima bolgia, perch’elli finge che fosse ancor di qua della bolgia prima, vidi; io Dante, nuova pietà; cioè nuova miseria; et è qui color retorico che si chiama denominazione quando lo sequente si piglia per lo precedente: dalla miseria seguita la pietà, e però si pone qui la pietà per la miseria, che in sua significazione non si può intendere: imperocchè in altra parte cap. xx di questa prima cantica dice l’autore: Qui vive la pietà, quando è ben morta ec.— , Nuovi tormenti; cioè vidi, perchè tali tormenti non sono ancor detti di sopra, e nuovi frustatori; de’ quali dirà di sotto, Di che; cioè di nuovi tormenti e 8 di frustatori, la prima bolgia; cioè fossa, o vuogli ripostiglio 9, era repleta; cioè piena. Nel fondo; della detta bolgia, erano nudi i peccatori; che v’erano puniti, Dal mezzo in qua; cioè della fossa, ci venian verso il volto; quelli peccatori, e così era partita quella fossa, di là; cioè dall’altra metà della fossa, con noi; cioè veniano verso mano sinistra; ma con passi maggiori; che non andavano Virgilio et io Dante: e l’andar con maggior passi s’intende dall’una brigata e dall’altra; cioè di quelli ch’andavano in su e di quelli che venivano in giù; et aggiugne una similitudine, dicendo: Come i Roman, per l’esercito molto; cioè per la gran moltitudine, L’anno del Giubileo; questo anno è ogni cinquanta anni, quando si rimette colpa e pena per lo papa a chi va a Roma, su per lo ponte; che è in sul Tevere, Ànno a passar la gente modo colto; che l’una brigata non dia noia all’altra; cioè quella che va a quella che torna, e quella che torna a quella che va, Che dell’un lato; del ponte, tutti ànno la fronte Verso il castello; quelli che vanno a Santo Pietro, e però aggiugne dicendo: e vanno a Santo Pietro, Dall’altra sponda; del ponte, vanno verso il monte; col volto sì, che l’una brigata va contraria all’altra. Di là, di qua; della prima bolgia, su per lo sasso tetro; cioè su per li argini che sono di sasso nero, come fu detto di sopra, Vidi; io Dante, demon cornuti con gran ferze, Che li battean crudelmente di retro; cioè li peccatori nudi ch’andavano di qua e di là. Ahi come facean lor levar le berze; cioè le gambe a correre a quelli peccatori con le [p. 477 modifica]scorreggiate, Alle prime percosse, che davano quelli demoni! e già nessuno; di quelli peccatori, Le seconde aspettava, nè le terze: sì li doleano le prime. Veduto lo testo, ora è da vedere qual peccato finge l’autore ch’elli 10 punisca quivi, e perchè finge sì fatta pena. E primo doviamo sapere che l’autore finge che qui sieno puniti li seduttori; e però doviamo considerare che cosa è seduzione, e disfiniscesi 11 così: Seduzione è inducimento del prossimo a mal fare o con veri beni, o apparenti; seduzione tanto viene a dire, quanto inducimento con inganno a mal fare. E benchè questa possa essere in molti modi, et abbia molte spezie: imperò che l’uomo può essere sedutto a molti vizi, come a carnalità, a furto, a omicidio, e così a molte altre cose, e ciascuna di queste specie n’à due sotto sè: imperò che l’uomo può essere sedutto o a utilità del seducente, o a utilità d’altrui; cioè d’altra terza persona; e però l’autor nostro, tutte l’altre spezie lasciando che intendeno ad altri diversi fini, tratta qui solamente d’una; cioè di seduzione a carnalità et a lussuria. E perchè questa è la men grave spezie che sia nella seduzione sì, come lussuria è men grave che li altri peccati mortali, come mostrò l’autore di sopra cap. xi trattando d’essa, la pose nel secondo cerchio di sopra a tutti li altri; così à posta l’autor questa nella prima bolgia, e dell’altre seduzioni tratterà poi di sotto insieme con quel peccato e vizio nel quale s’aopera; cioè nelli seduttori al furto insieme coi furi, e così delli altri. E perchè questa distinzione 12 à due modi: imperò che chi è seduttore a lussuria o elli seduce a sè o ad altrui; se a sè, si chiama ingannatore di femine; se ad altrui, si chiama col disonesto vocabolo ruffiano. E però pone l’autor due brigate; l’una di coloro che li venivano 13 contro e quelli erano ruffiani, i quali figura che li venissino 14 contro, perchè sempre li dispiacquono; e l’altra era delli ingannatori 15 a sè con le grandi promesse e non attendere, e questa pone che andasse in là con lui, perchè forse vi cadde in quel peccato. Puossi ancora intendere che elli finga l’uno andare contra l’altro, allegoricamente: imperò che l’uno è contrario all’altro nel mondo: imperò che il seduttore è avaro, e per avarizia fa ciò ch’elli fa; e lo ingannatore è prodigo, e per lussuriare gittarebbe 16 ogni cosa, e ponli a tal pena perchè è conveniente a tale peccato: imperò che chi à condotto altrui con sue promesse et inganno a dissoluzione, che significa scorrimento, degno è che sia fatto correre con battiture; e come à nudato sè et altrui di virtù e di buona fama, vada e corra sempre nudo. E moralmente si [p. 478 modifica]può intendere per quelli che sono in tal peccato nel mondo: imperò che i nudi di buona fama tuttavia sono incitati al loro peccato con la forza del dimonio; cioè con la intenzione 17 et impulsione a ciò, infino che stanno in sì fatto peccato: imperò che lo seduttore è stimolato dalla avarizia e lo ingannatore dalla lussuria, e ciascuno è stimolato dalla fraude in detti et in fatti. Quante sono le parole simulate e li servigi simulati, che sì fatti peccatori usano e fanno a quelle femmine che si sforzano d’ingannare! Et ancor si può dire che sieno nudi: imperò quanto l’uomo sta nel peccato, tanto nudo è della grazia di Dio; e che dopo la prima sferzata non s’aspetti la seconda, nè la terza, per questi del mondo ancora è vero: imperò che quelli che sono fuori della grazia di Dio per la prima caduta nel peccato per la suggestione del dimonio, spesso poi vi caggiono per loro medesimi sì, che non aspettano l’altro incitamento del dimonio; anzi 18 vi corrono per loro medesimi pure per lo 19 peccato.

C. XVIII — v. 40-51. In questi quattro ternari l’autor finge come conobbe uno de’ seduttori, dicendo: Mentr’io; cioè Dante, andava; dietro a Virgilio, li occhi miei in uno; di quelli frustati, Furon scontrati; et io; cioè Dante, sì tosto dissi: Già di veder costui non son digiuno: imperò che altra volta l’ò veduto. Perciò a figurarlo i piedi affissi; cioè fermai; E il dolce Duca mio; cioè Virgilio, si ristette; ad aspettarmi, Et assentìo; Virgilio, che alquanto indietro gissi; io Dante, per andare con quel frustato. E quel frustato celar si credette Bassando il viso; suo; ma poco li valse; il bassare lo volto, Ch’io; cioè Dante, dissi: O tu, che li occhi a terra gette, per ch’io non ti conosca, Se le fazion che porti non son false; cioè che mostrino quel che tu se’, e non altro, Venedigo se’ tu Caccianimico; cioè messer Venedico de’ Caccianimici da Bologna, ch’è uno casato che così si chiama; Ma che ti mena a sì pungenti salse; per che colpa se’ condannato a sì fatta pena? E qui è da notare l’abominazione e il vituperio di tal peccato: finge ch’elli si volesse celare, e però non si nomina di sotto, se non per lo nome della patria.

C. XVIII — v. 52-66. In questi cinque ternari l’autor nostro induce a parlar messer Venedigo et a dir la cagione perchè fu dannato quivi; e dice che li rispose in questa forma: Et elli; cioè messer Venedigo, a me; cioè Dante: Mal volentier lo dico; ch’io fui; Ma sforzami la tua chiara favella; questo dice o perchè Dante l’avea nominato, o perchè Dante parlava latino, ch’è parlare chiaro più che l’altro, Che mi fa ricordar del mondo antico; cioè nel quale già lungo tempo era vivuto, e lungo tempo era passato poi che fu fatto quel mondo et aveane preso piacere; e di questo nostro mondo [p. 479 modifica]intende. Io fui colui; cioè io messer Venedigo de’ Caccianimici, che la Ghisola bella Condussi a far la voglia del Marchese; questa fu una sirocchia del detto messer Venedigo ch’ebbe nome la Ghisola bella, la quale elli condusse a fare la voglia del marchese Obizzo da Esti marchese di Ferrara per danari ch’elli n’ebbe 20, mostrando a lei che ne le seguiterebbe grande bene, Come che suoni la sconcia novella; cioè come che si racconti la novella. Questo dice, perchè molti diceano che fu elli, e molti che fu altri: qui afferma che fu elli. E non pur io qui piango Bolognese; quasi dica: Non sono pur io qui solo da Bologna; Anzi n’è questo loco tanto pieno; di Bolognesi, Che tante lingue non sono ora apprese; cioè vive et apparecchiate, A dicer sipa: li Bolognesi quando vogliono dire , dicono sipa, - tra Savena; che è fiume ch’è tra l’una parte di Bologna, di lungi dalla città forse due miglia, e il Reno; che è ancor fiume, di lungi dalla città altrettanto; e questo vuole significare che i Bolognesi che viveano allora, non erano tanti quanti erano quelli, ch’erano quivi dannati. E se di ciò; ch’io dico, voi fede o testimonio; tu Dante, Recati a mente il nostro avaro seno; cioè animo de’ Bolognesi, che per avarizia fanno tali seduzioni. Così parlando; come detto è, il percosse un demonio; di quelli ch’erano posti a tormentarli, Con la sua scuriata; che avea in mano, e disse: Via, Ruffian; cioè va oltre come li altri, qui non son femine da conio; cioè da essere coniate 21 et ingannate con le tue seduzioni, che tu ti debbi restare a parlar con loro; e così li rimpruovera lo suo vizio. Questo finge l’autore, per mostrare che continuamente 22 rimpruovera la loro conscienzia il peccato loro; e così a quelli del mondo, se non quando sono caduti in bestialità, ch’allora non ànno coscienzia nessuna. E qui finisce la prima lezione: seguita ora la seconda lezione.
     Io mi raggiunsi ec. Qui comincia l’autor nostro a trattare dell’altra brigata della prima bolgia; cioè di quelli che ingannano e seducono le femine a sè, e comincia a trattare poi della seconda bolgia ove pone li adulatori; e dividesi questa lezione in vi parti, perchè prima pone il processo del cammino; nella seconda, come Virgilio fa attento da riguardare, quivi: Quando noi fumo ec.; nella terza, come Virgilio li dimostra Giasone, quivi: Il buon Maestro ec.; nella quarta, come pervennono alla seconda bolgia e quella descrive, quivi: Già eravam ec.; nella quinta, come parlò con uno della seconda bolgia, quivi: E mentre ch’io ec.; nella sesta pone come Virgilio li mostra un’altra anima, quivi: Appresso ciò lo Duca ec. Divisa la lezione, è da vedere la sentenzia litterale. [p. 480 modifica]Dice adunque che, poi che messer Venedigo si fu ito via, Dante si tornò a dietro a Virgilio, et aggiunsesi con lui, et andarono poco più oltre che trovarono uno scoglio ch’usciva della ripa, e facea ponte sopra la detta prima bolgia. E dice che leggiermente montarono in su quello, e, montati a man ritta, si partirono da quelle eterne circulazioni che faceano quelle anime. E quando furono in sul mezzo del ponte, sotto lo quale passavano l’anime sferzate dai demoni, Virgilio ammonì Dante ch’elli attendesse sì, che il volto di quell’altra brigata si dirizzasse verso lui, de’ quali non avea ancor veduta la faccia, perchè erano iti insieme con loro. E però mentre che Dante guardava la traccia di costoro, i quali veniano dall’altra banda similmente sferzati da’ demoni, Virgilio li disse sanza ch’elli lo domandasse: Guarda quel grande che viene, che non par che spanda lagrime per dolore: quanto aspetto reale tene ancora! Quelli è Giasone, che per cuore e per senno privò quelli di Colcho del monton del vello dell’oro; elli passò per l’isola di Lenno, poi che le femine ardite e spietate di quella isola uccisono tutti li maschi, e con segni d’amore e con parole ornate ingannò Isifile reina di quell’isola, la quale avea tutte l’altre femine ingannate: alla fine la lasciò quivi gravida e soletta, promettendole di tornare. Et aggiugne che tale colpa lo condanna a tal martirio; et ancora di lui si fa vendetta per quel che fece a Medea, la quale ingannoe similmente; et aggiugne che con lui se ne va chi inganna a tal modo, e questo basti a saper della prima bolgia e di coloro chi ella punisce. Aggiugne che egli erano venuti già al discenso del ponte, ove quello scoglio s’incrocicchiava con l’argine secondo, e facea spalle a un’altro che andava sopra la seconda bolgia: e quindi; cioè da quell’argine, sentivano gente che piangeano nella seconda bolgia e bussavano 23 col muso, e sè medesimi percoteano con le palme. E descrive quella bolgia, dicendo che le ripe sue erano gromate d’una muffa per l’alito che venia di giù che s’impastava quivi, e facean 24 zuffa con li occhi e col naso: et aggiugne che il fondo era sì cupo che non vi poteano vedere, se non montavano in sull’arco dello scoglio ove più sopra stava, e dice che montati lassù ragguardando giù, vide gente attuffata in uno sterco che parea mosso dalli umani privadi. E mentre ch’elli ragguardava 25 qui con l’occhio, vide uno col capo sì lordo di sterco, che non parea s’elli era laico, o cherico; et aggiugne che quello così lordo lo sgridò e disse: Perchè se’ tu ghiotto di mirare 26 più me che li altri brutti? Et allora Dante li rispose: Imperò che sì bene mi ricordo, io t’ò già veduto con capelli asciutti, e se’ Alesso 27 [p. 481 modifica]Interminelli da Lucca e però ti riguardo 28 più che tutti li altri. Allora messer Alesso rispose battendosi la zucca con le mani: Qua giù m’ànno affundate le lusinghe, delle quali non ebbi mai la lingua asciutta. Appresso a questo dice che Virgilio li disse: Pigni il viso un poco più oltre sì, che tu veggia ben con li occhi la faccia di quella sozza fante scapigliata, ch’ella si gratta con l’unghie brutte di sterco, et or si pone giù et or si lieva in piè: quella è la meretrice ch’ebbe nome Taide, che rispose al drudo suo quando la domandò: Ò io grande grazie appo te? Non solamente l’ài grandi; ma maravigliose. E questo ci basti aver veduta 29 questa seconda bolgia dell’inferno: ora è da veder lo testo con le esposizioni, e dice così:

C. XVIII — v. 67-72. In questi due ternari l’autor nostro dimostra il processo del loro cammino, dicendo così, poi che messer Venedigo si fu partito: Io; cioè Dante, mi raggiunsi con la Scorta mia; cioè con la mia Guida; cioè con Virgilio, Poscia con pochi passi divenimmo; e per questo mostra che fosse presso, Là dove un scoglio; di quelli che furon detti di sopra, della ripa liscia; cioè della ripa che cigne il vii cerchio e la prima bolgia dell’ottavo. Assai leggieramente quel salimmo; cioè Virgilio et io Dante, perchè non era molto faticoso. E per questo vuole significare che, avendo considerate le cose dette di sopra che furono faticose, assai leggiermente poteva montare all’altezza del ponte; cioè alla generalità del vizio che quivi si punisce, per considerare particularmente quell’altra spezie; e litteralmente finge questo, per fare verisimile la sua poesia; cioè come vedesse quell’altra turba. E volti a destra; cioè verso man ritta, perchè necessario era tornare verso man ritta volendo montare in sul ponte, secondo la lettera: et ancora per mostrare che vi montavano, per considerare la sua condizione e non altrimenti, però finge che convenisse volgersi a man ritta, su per la sua scheggia; cioè su per l’ascensione dello scoglio che scheggiava dalla ripa, o vero dalla banda ritta del ponte; e quest’era necessario, volendo vedere quell’altra turba ch’era venuta con loro. Da quelle cerchie eterne ci partimmo; cioè da quelle circulazioni che faceano in eterno quelle due brigate dette di sopra, che andavano l’una contraria all’altra.

C. XVIII — v. 73-81. In questi tre ternari l’autor nostro finge come venuti al colmo del ponte, Virgilio lo fece attento a guardare l’altra brigata dicendo: Quando noi fumo; cioè Virgilio et io Dante andando su per lo ponte, là, dov’el vaneggia Di sotto; cioè in su l’arco ch’è voto di sotto, per dar passo alli sferzati: però che quindi sotto passavano quelle turbe, Lo Duca; cioè Virgilio, disse; a me Dante: [p. 482 modifica]Attendi, e fa che feggia; cioè si dirizzi, Lo viso in te di questi altri mal nati; che non li ài ancor veduti; e dice mal nati, perchè sono dannati alle pene eterne: mal nato è chi è dannato. A’ quali ancor non vedesti la faccia; et assegna la cagione, Però che son con noi insieme andati; quando venimmo oltre, verso man manca. Del vecchio ponte; in sul quale eravamo già montati, guardavan; io Dante e Virgilio, la traccia; cioè la brigata e multitudine grande, Che venia verso noi; cioè verso Virgilio e me Dante, dall’altra banda; cioè dall’altra ripa, che quella onde eravamo iti, E che la ferza similmente scaccia: imperò che così erano sferzati, come li altri dell’altra ripa. E questo è convenevole quanto a quelli dell’inferno, e secondo la lettera: imperò che come ànno stigato e sollicitato le femine a scorrere nel vizio della lussuria; così scorrano ellino al dolore et alla pena, infestati dalle battiture del dimonio. Et allegoricamente, quanto a quelli del mondo, questa ferza è l’appetito della lussuria, alla 30 quale sempre lo demonio stiga l’uomo con le sue tentazioni, come detto fu di sopra.

C- XVIII — v. 82-99. In questi sei ternari l’autor nostro finge che Virgilio, sanz’essere domandato da lui, li dimostrò Giasone; onde dice: Il buon Maestro; cioè Virgilio, sanza mia dimanda; cioè di me Dante, Mi disse: Guarda quel grande che viene; in verso noi, s’intende, E per dolor non par lagrima spanda; e per questo dimostra l’autore che stava sdegnoso e superbo: imperò che nell’inferno no si può porre virtù. Quanto aspetto reale ancor ritene; cioè come ancor nell’apparenzia sua è onorevole, e quanta apparenzia reale à ancora, con tutto che sia in inferno! Quelli è Giason. Ad evidenzia di questo è da sapere la storia di Giasone. Dice Ovidio, Metamorfoseos, che Esone e Pelia furono fratelli e furono re in Grecia, et Eson ebbe uno figliuolo che fu chiamato Giasone, che fu molto savio e gagliardo. E Pelias non avea se non figliuole femmine, onde temendo che il figliuolo d’Esone; cioè Giason suo nipote, li togliesse lo regno perchè il conoscea animoso, si pensò di farlo morire mandandolo a luoghi pericolosi degni di fama; e però lo mandò all’isola di Colco, ad acquistare il montone ch’avea 31 il vello dell’oro, ch’era pericolosa cosa: imperò che il guardava un dragone ch’uccideva chiunque v’andava. Questo Giason, come animoso, prese l’andata e fece una nave grandissima che fu chiamata Argos, e dicono i poeti che fosse la prima nave ch’andasse per mare, e questo può essere vero, quanto alla contrada: chè nell’altre contrade n’erano ite assai innanzi per mare, e ben che si chiami nave per general vocabolo, ella fu una galea. E messosi in viaggio con valentissimi uomini di [p. 483 modifica]Grecia, tra’ quali fu Ercole et altri assai, per andare all’isola di Colco ch’era a loro verso tramontana, pervenne a una isola che si chiamava Lenno. Et in quell’isola erano allora più 32 femmine: imperò che avendo preso 33 li abitatori di Lenno con quelli di Tracia, et essendovi iti tutti li uomini a oste, e fatto sacrificio a tutti li dii, salvo che a Venere, Venus indegnata mise tanto furore in quelle femine ch’erano rimase nell’isola, che state già tre anni sanza li mariti, mosse a furia, feciono uno consiglio d’uccidere tutti li maschi che v’erano rimasi, in vendetta di mariti, et uccidere ancora i mariti quando tornassono. E di questo consiglio fu autrice e principale una ch’avea nome Polisso; e quando questo consiglio fu deliberato, volle la fortuna che’ mariti tornassono di Tracia con vittoria; e fatta la gran festa della tornata, la notte quando dormivano, ciascuna uccise il suo marito, salvo che Isifile figliuola del re Toante la quale, vedendo Io padre dormire e vedendo che li convenia uccidere lui o morire, andossene al padre e svegliollo, e dettoli lo fatto lo confortò che fuggisse via, et andò con lui fuori della terra infino al mare, e miselo in su uno legno e mandollo via. E venuto poi lo di’, intesono queste maledette femine a sotterrare li loro maschi uccisi; e similmente Isifile fece vista di sotterrare il padre, come l’altre fingendo tutte le cose 34 et i segni della sepoltura: e questo era stato, poco innanzi che Giason pervenisse a Lenno. E però queste femine, quando vidono venire lo legno di Giason per mare, ebbono paura; e credendo che fossono li Traci che si venissono a vendicare, montarono in su le mura et in su le torri, et armaronvisi a difensione della loro terra, e cominciarono a saettare a questa nave ch’era in mare. E poi che Giason e li altri s’avvidano ch’erano femine, s’appressarono che voleano a parlamentar con loro, e massimamente con la reina. Allora queste femmine feciono consiglio e deliberarono di ricevere costoro, et intendersi con loro a generazione, e dierono loro licenzia di scendere in terra e d’entrare nella città. Allora Giason con li altri baroni ch’erano con lui, s’adornarono quanto più seppono, e scesono in terra, e mostrando con segni e con parole la loro grandezza, fingendo che fossono iti là studiosamente per star con loro, Giason, come maggiore di quello esercito, promettendo a Isifile giovanetta, ch’era reina di quel regno, di pigliarla per moglie; e così li altri all’altre, si congiunsono con loro e stettono con loro uno anno. Infine dell’anno Giason, infestato da’ suoi, si volle partire et andare 35 suo viaggio, e promise di tornare, e lasciarono queste femine gravide, e la reina Isifile rimase gravida di due figliuoli. Giunto Giason in Colco, [p. 484 modifica]dove era lo montone col vello dell’oro, fu invitato dal re Oete, re di Colco al palazzo suo e quivi stato alcun di’, manifestò la cagione del suo avvenimento; onde lo re Oete lo sconfortò che non intendesse a ciò, mostrandoli li grandi pericoli che v’erano. Ma avea lo re Oete una sua figliola che si chiamava Medea molto grande incantatrice, la quale s’innamorò di Giason, e colto tempo li parlò in segreto in una camera; e con lui stando e domandando Giason consiglio, si fe promettere che la prenderebbe per moglie e menerebbenela 36 seco: e promessolo con giuramento, ella insegnò il modo che dovea tenere ad acquistare quel montone; cioè come prima li convenia combattere col dragone e giugnere, vinto il dragone et i tori che gittavano fuoco, all’aratro et arare la terra e seminare li denti del dragone ucciso; e combattere con li uomini armati che di quelli denti doveano nascere. Ma s’elli l’incantasse, com’ella l’insegnerebbe, e gittasse una pietra tra loro, l’ira e il furore si convertirebbe tra loro et ucciderebbonsi insieme, e così addivenne. E per questo modo Giason, acquistato il montone del vello dell’oro, se tornò a casa sua menatosene seco Medea e non tornò a Isifile: e così ingannò Isifile, e così ingannò poi Medea, che, poi che n’ebbe figliuoli, la cacciò via e presene un’altra; e così ne ingannò due; cioè Isifile e Medea, e però dice l’autore: Quelli è Giason; lo qual io ti mostro, che per cuore e per senno; ch’elli ebbe, Li Colchi 37 del monton; del vello dell’oro, privati fene: però che l’acquistò. Elli passò, cioè Giason coi suoi, per l’isola di Lenno; ch’era d’Isifile figliuola del re Toante, Poi che le ardite femine spietate; di quella isola, Tutti li maschi loro a morte dienno; perchè li uccisono, come detto fu di sopra. Ivi con segni; di grandezza e 38 d’amore, e con parole ornate; ch’elli seppe dire, Isifile ingannò; esso Giason, la giovanetta, Che prima avea tutte l’altre ingannate; perdonando la morte al padre, e facendolo fuggire. Lasciolla quivi gravida e soletta; come detto fu di sopra: Tal colpa; d’ingannare Isifile, a tal martirio lui condanna; cioè d’essere sferzati dalli demoni, Et anco di Medea si fa vendetta; cioè dell’inganno che fece, come già è detto, Con lui; cioè con Giason, sen va chi di tal parte; cioè di tal setta e condizione, inganna; cioè le femmine a sè, come fece Giason; E questo basti della prima valle; cioè della prima bolgia, Saper, e di color che in sè assanna; cioè morde con pena e con tormento.

C- XVIII— v. 100-114. In questi cinque ternari l’autor nostro comincia a trattare della seconda bolgia, descrivendo la prima e dicendo come era fatta, dicendo così: Già eravam; Virgilio et io Dante, [p. 485 modifica]dove lo stretto calle; cioè il ponte che sopra sta la prima bolgia, Con l’argine secondo s’incrocicchia; passando sopr’esso, e di sè e dell’argine fa una croce, E fa di quello; cioè secondo argine, ad un altro arco spalle; cioè all’arco secondo, che va sopra la seconda bolgia. Quindi; cioè d’in sul secondo argine, sentimmo gente, che sì; cioè per sì fatto modo, nicchia; cioè piagne, Nell’altra bolgia; cioè nell’altra fossa; cioè nella seconda, che col muso sbuffa; cioè 39 erge e leva il viso, E sè medesma con le palme picchia; cioè si batte con le palme sue. Le ripe; di questa fossa, eran gromate d’una muffa; ecco la ragione, Per l’alito di giù; cioè per la puzza che di giù su fiatava, che vi si appasta; a quelle ripe, Che con li occhi e col naso facea zuffa; cioè sì fatta era quella muffa, che offendea li occhi e il naso. Lo fondo; di questa bolgia, è cupo; cioè oscuro e cavo, sì, che non ci basta L’occhio a veder; cioè non bastava la vista a discernere quel che v’era, senza montare al dosso Dell’arco; cioè del ponte secondo, ove lo scoglio; cioè lo ponte ch’era d’una pietra, più soprasta; cioè ove elli è più alto. Quivi venimmo; cioè a quell’arco alto, ch’era sopra lo mezzo, Virgilio et io Dante, e quindi; cioè d’in su quello 40 arco, giù nel fosso; secondo, Vidi; io Dante, gente attuffata in uno sterco, Che dalli uman privadi parea mosso; cioè che parea che discendesse del mondo de’ luoghi comuni delli uomini, giù nella detta fossa. Veduto lo testo, ora è da notare 41 qual peccato si punisce in questa bolgia, e perchè l’autore finge che abbi tal pena. E prima è da sapere che l’autore finge che quivi si punisca lo peccato della adulazione; et adulazione, o vero lusinga, è compiacenzia mostrata al prossimo con parole o con atti contra la verità; e questo vizio è contrario all’asprezza, o vero garrulità: l’adulazione loda le cose da esser lodate, e le cose da esser biasimate; e così loda ogni cosa, et eziandio più che non si dee quelle da essere lodate: e questo fa, per compiacere al prossimo e cavare qualche cosa da lui; e l’adulazione è lo inganno ch’elli usa per venire alla compiacenzia, e per quella venire all’ultimo fine che elli desidera. Ma asprezza, o vero garrulità, è biasimare ogni cosa, come fanno li vanagloriosi e li invidiosi; ma qui l’autor nostro tratta pur delli adulatori, o vero lusinghieri, mostrando quanto è brutto e fetido lo vizio dell’adulazione, e pertanto li mette in sì fatta pena, per ch’elli vuole denotare la viltà, sozzezza e bruttura di tal vizio. E parlando dell’inferno litteralmente, ponendo li lusinghieri nella seconda bolgia nello sterco inviluppati, percotendosi e graffiandosi con le mani fastidiose 42, intende allegoricamente delli adulatori del mondo, li quali si fanno servi di [p. 486 modifica]ciascuno dal quale sperano di sottraere sì, che per viltà bene stanno nello sterco: imperò che non è maggiore viltà che la servitudine. E questi così fatti uomini putono a Dio et al mondo sì, che ben fa a porli fastidiosi 43 e puzzolenti; e continuamente si battono con le mani fastidiose: imperò che lodando li vizi altrui, arrecano l’altrui colpe a sè, e questa specie di adulatori più si trova nelle corti de’signori che altrove.

C. XVIII — v. 115-126. In questi quattro ternari l’autor manifesta lo peccato che si punisce nella seconda bolgia, fingendo che favellasse con un’anima la quale qui nomina, dicendo così: E mentre ch’io; cioè Dante, là giù; cioè in quella seconda bolgia, con l’occhio cerco; cioè riguardo, Vidi un col capo sì di merda lordo; perch’era fitto in quello sterco, Che non parea s’era laico o cherco: però che non se li vedea il capo. Quei; cioè colui ch’io riguardava, mi sgridò; cioè me Dante: Perchè se’ tu sì gordo Di riguardar più me, che li altri brutti; che ce ne sono tanti? Et io; Dante, a lui; cioè a quell’anima: Perchè, se ben ricordo; cioè s’io ò buona ricordanza, Già t’ò veduto coi capelli asciutti; e non brutti, come ài ora 44, E se’ Alesso Interminei da Lucca. Questi fu messer Alesso Interminelli, cavalier da Lucca, il quale fu grande lusinghiere mentre che visse, e però finge l’autore che sia in questo luogo, Però t’adocchio; cioè t’avviso, più che li altri tutti; perch’io ti conosco. Et elli; cioè messer Alesso, allor; mi disse, s’intende, battendosi la zucca; cioè percotendosi il capo con le mani fastidiose, per dolore ch’avea per la sua miseria: e dice zucca, perchè comunemente li Lucchesi ànno la testa leggiere, come la zucca quando è secca; o perchè la testa è umida per lo cerebro che v’è, come la zucca. Qua giù; in questo vitupero, m’ànno sommerso le lusinghe; ecco lo peccato ch’elli manifesta che l’à condotto a quel luogo, Ond’io; cioè dalle quali, non ebbi mai la lingua stucca: imperò che sempre l’usai.

C. XVIII — v. 127-136. In questi tre ternari e un verso l’autor finge, come Virgilio li dimostra ancor un’altra gran peccatrice nel detto vizio, dicendo: Appresso ciò; cioè a quel ch’è detto, lo Duca; cioè Virgilio 45: Fa che pinghe, Mi disse; tu Dante, il viso un poco più avante; che non ài fatto insino a qui, Sì che con li occhi ben la faccia attinghe; cioè aggiunghi, Di quella sozza e scapigliata fante; la quale elli li mostrava, Che là si graffia con l’unghie merdose; per dolore, Et or s’accoscia, et or è in piede stante; cioè ora si pone giuso, et ora si lieva suso. Taida è la puttana; cioè quella, che rispuose Al drudo suo; cioè al suo amante, quando disse; il suo drudo [p. 487 modifica]a lei: Ò io grazie Grandi appo te? Non solamente grandi; ma ancora l’ài maravigliose, e però dice: Anzi maravigliose. E quinci sian le nostre viste sazie; dice Virgilio, cioè questo basti a vedere la seconda bolgia. Et è qui da sapere che Taida fu una meretrice appo li Greci, la quale seppe usare l’adulazioni e le lusinghe; e però finge 46 Isopo di quindi la favola del giovane e di lei, lodando il giovane che si seppe guardare dalle lusinghe. E comunemente per li savi uomini ammaestrati di poesia si muove quivi uno dubbio, riprendendo l’autore che di questa materia à parlato si bruttamente; e massimamente inducendo a parlare Virgilio, al quale non si convenia questa 47 incomodità di sermone: imperò che Orazio dice nella Poesia 48: Intererit multum divusne loquatur an heros ec.; onde pare che abbia peccato contra la poesia. E se altri volesse scusarlo ch’elli à mescolata la satira con la comedia, e la satira usa sì fatti vocaboli, puossi ostare ancora secondo che dice Orazio nel detto libro ov’elli dice: Sylvis deducti caveant me judice Fauni, Ne velut innati triviis ac paene forenses Aut nimium teneris juvenentur versibus umquam, Aut immunda crepent ignominiosaque dicta; Offenduntur enim ec. E però si dè considerare che qui è una poca di macchia, e sostenere si può, come dice Orazio nel detto libro: Verum, ubi plura nitent in carmine, non ego paucis Offendar maculis, quas aut incuria fudit, Aut humana parum cavit natura. E così si scusa questo passo e quell’altro, che è nel xxviii canto ove dice: Che merda fa di quel che si trangugia; ma più lievemente, perchè quivi parla pur l’autore. E qui si finisce il canto xviii.

Note

  1. C. M. tanto di voito che par uno poco assai largo
  2. C. M. ottavo petrina si muoveno
  3. C. M. sono fossi son rosi, passano
  4. C. M. comunca si dica
  5. C. M. ferrigno; cioè questo luogo era tutto di pietra, e la pietra avea colore di ferro; e questo
  6. C. M. un fosso; cioè dove è uno voito a
  7. C. M. nell’undecimo canto,
  8. C. M. tormenti de’ nuovi frustatori,
  9. C. M. ripostignulo,
  10. C. M. che si punisca
  11. C. M. difiniscesi
  12. C. M. questa seduzione à
  13. C. M. lì vanno contra
  14. venissino naturale piegatura della terza singolare venissi. E.
  15. C. M. ingannatori delle femine a sè
  16. C. M. gitterebbe
  17. C. M. con la tentazione
  18. C. M. anco
  19. C. M. pur per lo primo.
  20. C. M. n’ebbe, e però dice: Condussi a far la vollia del Marchese, mostrando
  21. C. M. essere cumiellate et
  22. C. M. comunemente
  23. C. M. e sbuffava col muso,
  24. C. M. facea
  25. C. M. guardava giù coll’occhio,
  26. C. M. d’avvisare
  27. C. M. Allessio
  28. C. M. t’avviso più
  29. C. M. ci vasti aver veduto di questa
  30. C. M. con la quale
  31. C. M. ad acquistare lo vellio de l’oro,
  32. C. M. allora pur femine:
  33. C. M. preso guerra li abitatori
  34. C. M. le cose funerali: e questo
  35. C. M. andare a suo viaggio,
  36. C. M. menerebela nella nave con seco:
  37. C. M. Li occhi del monton
  38. C. M. e d’onore, e con
  39. C. M. cioè soffia con la bocca, E sè
  40. C. M. di su quell’altro, giù
  41. C. M. da vedere qual
  42. C. M. fastigiose,
  43. C. M. fastigiose
  44. C. M. ài avale, E se’ Allessio Interminel
  45. C. M. Virgilio mi disse: Fa che pinghe; tu
  46. C. M. finge di quinde Lisopo la sua faula del giovano
  47. C. M. questa immondezza
  48. C. M. nella Poetria:



Altri progetti

Collabora a Wikipedia Wikipedia ha una voce di approfondimento su Inferno - Canto diciottesimo