Dal Trentino al Carso/La titanica lotta nel Trentino/Nella regione riconquistata
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NELLA REGIONE RICONQUISTATA.
Vicenza, 3 luglio.
Il Cengio, brullo e maestoso, avanza sulla valle dell’Astico i suoi fianchi dirupati, sporge grigi bastioni di roccia come una immensa fortezza, e gli austriaci, i quali, dopo avere investito la montagna dalla conca di Asiago, erano riusciti dopo lunghi e sanguinosissimi sforzi a salire da declivio a declivio fino all’orlo dell’abisso e ad annidarvisi, debbono aver sofferto una specie di supplizio di Tantalo.
La bella, la dolce, la incomparabile pianura vicentina apriva sotto a loro lo sterminato e meraviglioso tappeto folto dei suoi campi, delle sue vigne, dei suoi frutteti. La terra agognata, la terra promessa era là, screziata di vegetazioni ubertose, variegata di ricchezze, fresca, gaia, ridente, sterminata come un mare e sfumata all’orizzonte nell’azzurro nebuloso delle distanze infinite, un oceano di verdura sul quale i campanili dei paeselli lontani ergevano le loro cuspidi snelle. Era sotto a loro questa vallata di sogno, il cui possesso rappresentava nella loro immaginazione la fine della guerra, il riposo, la dominazione, il godimento; la contemplavano, potevano tormentarne i lembi a colpi di cannone, potevano farvi rotolar giù dei macigni, ma non potevano scendervi.
«Il buon vino e le belle donne d Italia ci aspettano» — - aveva detto loro il proclama di un capo vandalico, e con gli occhi pieni di ogni cupidigia essi guardavano giù dalla soglia insuperabile, fermati all’ultimo gradino. A nessuna delle grandi unità austriache la ritirata deve essere sembrata così amara come a quella unica brigata di cacciatori che ha visto, così vicina e così lontana, la pianura dei desideri.
La zona montuosa ed aspra che circonda il Cengio porta così profonde, così eloquenti e terribili tracce della battaglia recente, che inoltrandovi, al varcare le nostre vecchie linee di difesa insanguinate e sconvolte, si è presi
da un senso indicibile di commozione, di stupore, di orgoglio. Il disordine, la convulsione, lo sfacelo lasciato dalla lotta accanita, disperata, decisiva, ha in certi luoghi qualche cosa di urlante. Il combattimento erompe, balza su, rivive, spaventoso e magnifico, nella immobilità solenne e funerea delle vette dilaniate; esso è come scolpito in loro; tutto quello che vi si vede ha un’impronta di violenza; non un albero e non un macigno sono rimasti fermi; un uragano favoloso li ha divelti, spezzati e scagliati da ogni parte, e i cadaveri, con le bocche spalancate in un urlo che par di sentire ancora lontano, misterioso e spettrale, hanno gesticolazioni che dicono lo slancio, l’impeto, la mischia, pieni di un tragico e glaciale furore.
Pare che la terra così squarciata, devastata, sconvolta si sia sommossa per mescolarsi intimamente al tumulto umano, che abbia combattuto e sofferto anche lei; e avanti alle sue piaghe immani noi sentiamo di amarla di un amore più appassionato e più struggente, questa nostra sacra terra materna che ci ha difesi. Mai come qui e come ora la Patria ci è apparsa vivente, animata e cara.
La sua personalità prodigiosa erompe improvvisamente, immane, palpitante, soggiogatrice, appena si scorgono le prime rovine all’imbocco della valle dell’Astico, dove gli austriaci cercavano di controbattere le nostre concentrazioni di artiglieria, appena si scorgono le macerie delle scuole di Chiuppano, demolite da un 305, e i ruderi di casupole che hanno franato fino sulla strada di Caltrano, sventrate dai colpi destinati al ponte. Allora il senso della vittoria si amplifica, e dalla terra liberata sale una non so quale voce possente che ci penetra e ci esalta. Guardiamo tutto con occhio di adorazione e di reverenza.
La gran marcia in avanti di truppe, di carriaggi e di cannoni, che ingombra le vie, assume una festosità ineffabile. I soldati la sentono inconsciamente questa gioia della terra che li saluta, ed hanno adornato di fiori il loro elmo; la popolazione che ritorna, seguendo lenti carri carichi di masserizie, esprime in frasi pittoresche la sua letizia; dai campi soleggiati, sui quali il lavoro riprende, arrivano canzoni lente ed antiche.
Intorno al Cengio la battaglia ha avuto il maggiore furore. È lì che fino all’ultimo giorno essa ha imperversato, anche dopo il primo sviluppo della nostra offensiva, ed è in questa zona centrale che la riconquista è anche più faticosa e più lenta.
Il cannone non tuona lontano. I punti di massima pressione dell’avanzata austriaca, i settori sui quali il nemico tutto ha tentato per sfondare la nostra barriera estrema, sono tre. A sinistra, al di qua del Posina, padroni della scoscesa e dominante vetta del Pria Forà, gli austriaci hanno cercato di far impeto sul Novegno, oltre il quale nulla li avrebbe trattenuti dal discendere nella valle del Leogra e sboccare da Schio. Tutte le nostre difese dell’Adige e del Pasubio sarebbero state aggirate. Il Pria Forà ha la cima così tappezzata di cadaveri nemici, che degli ufficiali nostri saliti fino lassù per stabilirvi un osservatorio non hanno potuto resistervi. Sono stati ricacciati dal nemico morto, soffocati dal fetore.
A destra, sull'Altipiano di Asiago, da Gallio gli austriaci hanno tentato di aprirsi il varco nella Val Frenzela verso la bassa valle del Brenta, per prendere alle spalle le nostre forze della Valsugana e scendere verso Bassano. Con un ardimento incosciente, fatto più di disprezzo per noi che per la morte, sono andati a gettarsi a masse nell’imbocco del vallone dirupato, in una minuscola conca che il nome descrive, il Buso, sotto al fuoco delle creste sovrastanti che li ha falciati.
Al centro, conquistato il Cengio con sacrifici enormi, appoggiandosi a questa poderosa posizione avanzata che si incastrava fra le nostre, hanno sferrato attacchi su attacchi contro al Lèmerle, al Magnaboschi, al Busibollo, prendendoci d’infilata con terribili concentrazioni di artiglieria annidate nelle pendici settentrionali del Cengio, per impadronirsi del varco e delle belle strade della Valcanaglia e scendere al piano allo sbocco dell’Astice, su Thiene. Questo ultimo tentativo non è stato abbandonato che alla vigilia della ritirata. L’offensiva nemica aveva rallentato per tutto il suo impeto, e qui insisteva feroce. L’azione sul resto della fronte non aveva altro scopo negli ultimi giorni, che di stornare la nostra attenzione dal centro, dal vertice della invasione, dove gli austriaci si sentivano più vicini alla mèta.
Un bombardamento inaudito del Novegno, durato due giorni, il 13 e il 14 giugno, minacciandoci apparentemente sul Posina, era invece il prodromo di una serie di disperati attacchi centrali la cui violenza andò aumentando fino al giorno 19, il giorno in cui il comando nemico decise l’abbandono definitivo dell’impresa.
Quando la manovra di Cadorna cominciò a premere minacciosamente i fianchi dell’avversario, questi rispose con un supremo sforzo sul Lèmerle, sul Magnaboschi, sul Pau. Pensava che spezzando il centro, il movimento sui fianchi sarebbe stato paralizzato e sconvolto. Al centro la battaglia è giunta al parossismo, ha assunto le più terribili forme di implacabile veemenza, proprio quando la nostra vittoria si delineava nell’aggiramento, e precisamente perchè la nostra vittoria si delineava. Le ultime speranze austriache erano riposte in questi colpi di ariete. IL 17 giugno i nostri alpini conquistavano il monte Magari, e il nemico assaliva il Lèmerle e il Boscon, arrivava alla vetta del Lèmerle, era respinto. Il 18 giugno la nostra destra avanzava fra la Valle Frenzela e la Marcesina, e il nemico assaliva replicatamente il Lèmerle e il Magnaboschi. Il 19 continuò la nostra avanzata, la Cima Isidoro era presa all’estrema destra, e il nemico assaliva il Lèmerle, il Magnaboschi, il Boscon.
Così tutti i giorni; e il 22 giugno continuavano ancora gli assalti al Magnaboschi. Il 25 gli austriaci erano quasi per tutto in ritirata, e qui si difendevano con accanimento, esasperati dalla rinunzia.
Le nostre trincee avanzate erano dei nidi d’aquila sui costoni meridionali del Cengio, fra le rocce, sospese in certi punti sull’abisso. Salendo la strada che si inerpica con infinite giravolte dallo sbocco dell’Astico sulla spalla del Pau per infilare il fondo dell’angusta Valcanaglia, si vedano sui fianchi scoscesi della montagna quelle posizioni ardite, tutte buche, tutte tane, protette da muricciuoli di sassi che si profilano nel cielo, e i camminamenti, le gradinate, le scalette, le infinite vie di approccio solcano i declivi precipitosi, li rigano di nero, li tagliano per ogni verso. Il bosco, più in basso, formicola di uomini, biancheggia di tende, echeggia di voci. La brezza tepida porta ogni tanto dalle vette deserte l’odore della morte.
La valle dell’Astico, in basso, verde, luminosa, vaporosa, fugge e si restringe verso Arsiero nelle ombre azzurre del Cimone, perdendosi in un labirinto di montagne boscose e di gole profonde, tutta costellata di paeselli bianchi che il cannone austriaco ha battuto: Meda, con delle case senza tetto, Velo d’Astico, il cui campanile è troncato, Arsiero lontano che fumiga. Il Cimone erge le sue cime turrite alla confluenza del Posina e fronteggia lo sbocco dell’Astico, come una sentinella torva e vigilante. Ed è ancora una sentinella nemica.
È l’osservatorio avanzato degli austriaci, che spinge il suo sguardo fino alla pianura e sorveglia i nostri movimenti nella vallata. Non vi sono molte forze sulla vetta, ma è impossibile attaccarla di fronte. Pochi tiratori nascosti fra i macigni, nei greti, fra i crepacci delle sommità rocciose, bastano a dominare tutti gli approcci, lungo i quali la scalata non può essere che lenta, allo scoperto, fatta da pattuglie esili salenti in fila indiana. L’avanzata nostra, arrivata al Caviojo, che è una prima pendice del Cimone, è passata oltre, sui fianchi, ha deviato da una parte e dall’altra della montagna inaccessibile, come il gorgo di un torrente diviso da uno scoglio. È risalita lungo i lati, per le strade dell’Astico e per le strade del Monte Seluggio: dilaga per ogni accesso, si suddivide in ogni sentiero, si inerpica da tutte le parti, sfonda i piccoli argini della resistenza, passa oltre, tendendo ad isolare il Cimone. Si combatte in decine di punti contemporaneamente, ogni minuscolo reparto ha la sua azione, e la battaglia crepita ad intervalli da tutte le parti.
Ad uno svolto, la visione dell’ampia vallata sparisce, la strada s’insinua nella spaccatura della Valcanaglia, fra il Pau e il Cengio, serrata dai declivi ripidi folti di boschi, e improvvisamente si è fra gli avanzi dei reticolati austriaci. Le tracce degli avversari si mescolano. Le ondate del combattimento sono passate e ripassate lasciando la loro impronta.
Il nemico è stato fermato a mille metri dallo sbocco, a Campiello. La stazione della ferrovia a cremagliera, che va ad Asiago, è distrutta.
Gli edifici vicini, squarciati e diroccati, vomitano macerie e mobilia sulla strada. In alcune casupole rimaste intatte, dei feriti gravi austriaci e italiani sono stati ricoverati insieme e sono morti uno vicino all’altro. La via è stata rotta qua e là dalle granate e il terreno tutto intorno appare in certi punti arato dai proiettili, solcato, bucato, squarciato. Qualche colpo arriva ancora, più in alto, un ultimo saluto dei medi calibri che tirano dal di là dell'Assa. Per
centinaia di metri le rotaie della ferrovia, divelte e contorte dalle cannonate, serpeggiano in aria, sospese in un divincolamento strano, come se avessero tentato di fuggire.
Più tardi si arriva sull’altipiano e la strada è deserta. Si è sotto il tiro; le nuove posizioni nemiche sono di fronte. Esse sono sulle alture oltre l’Assa, sul Monte Erio e sulla Cima di Campolongo che domina il baratro dell’alta valle dell’Astico con le sue torri grigie. Ad ogni pochi passi gli austriaci hanno lasciato una linea di reticolati. Ogni loro passo in avanti è rimasto segnato da sterminate barriere di filo di ferro e di «cavalli di Frisia».
Fra le ondulazioni erbose della vasta conca di Asiago, circondata da un oscuro anfiteatro di montagne, numerosi villaggi agonizzano. Tresche, Fondi, Conca, non sono più che pittoresche apparenze. Ogni casa ha la sua ferita. Le strade sono ingombre di rottami. Intere pareti sono crollate come per un terremoto, dei tetti si sono rovesciati, e masserizie e travi sono ricadute all’aperto in confusione, sparpagliate dal ciclone ardente degli scoppi.
Il cannane nemico batte verso il Cengio, di tanto in tanto; fruga, cerca, e, non trovando niente, torna a mordere i paeselli, dilaniandoli ancora. Cesuna è bombardata, Canove è bombardata, Roana è bombardata, Camporovere è bombardata e un fumo di incendi lo sovrasta. Ma sono pochi colpi, una gran nube ogni due o tre minuti fra le case bianche che conservano un’apparenza di grazia civettuola, una festosità da ville. Il nostro cannone è più attivo.
Il fragore dei medi calibri italiani che martellano il Monte Interrotto e il Monte Mosciagh, dietro Asiago, echeggia fragorosamente fra i monti. D’ora in ora il nostro fuoco sembra aumentare. I giganti dell’artiglieria non potevano seguire rapidamente l’avanzata. Ora soltanto cominciano a riprendere posto nella battaglia.
Salgono con lentezza pesante e solenne alle loro posizioni, coronati di fronde e trascinati da motori monumentali. La difesa austriaca, che si delinea in questo bombardamento, tende ad impedire il passaggio dell’Assa.
L’Assa scorre in un burrone così profondo, che la traversata ne è impossibile, salvo in un punto, cioè al gomito del torrente a ponente di Asiago, dove la gola si allarga, sboccando nella Conca. Quando il fumo denso delle granate che cadono su Canove si dissipa, al di là si profilano le rovine del grande ponte sull’Assa, saltato in aria, i cui altissimi piloni tronchi hanno l’apparenza bizzarra di grandi obelischi bianchi eretti sullo sfondo buio del vallone.
Di lì viene a tratti un crepitìo di scaramucce, dominato dal cupo battito di una mitragliatrice.
Da questi indizi si comprende che gli austriaci si dispongono a contrastare fieramente la formazione di una testa di ponte sulla destra dell’Assa. Ma la battaglia qui è ancora all’inizio; è incominciato appena il dialogo formidabile delle artiglierie, che andrà crescendo e sviluppandosi.
L’interesse per questo principio di azione è sopraffatto da quello risvegliato dalle impronte dell’azione finita. Il passato grida più forte del presente. La battaglia vera, la battaglia terribile, che vi commuove, che vi esalta, che vi strappa dei gridi di ammirazione e di orrore, che vi inebria di entusiasmo e vi opprime di angoscia, è una battaglia dalla quale non sale nessun rumore, è una mischia di morti.
Dal Pao al Busibollo, al Magnaboschi, al Lèmerle, lungo la linea che ha subito i colpi più violenti del cuneo austriaco, le montagne porteranno eternamente incisi nelle rocce i segni di una delle più fiere lotte della nostra storia. La gloria italiana ha in queste vette sconvolte un monumento imperituro. Dove l’invasione è stata definitivamente fermata, pare che un cataclisma abbia sovvertito tutto.
La fronte s’era fatta sinuosa per seguire il terreno, saliva, scendeva, per costoni e per vallette, si sprofondava nelle forre e nei burroni, entro l’ombra verde di boschi antichi e folti, si annidava nei cespugli sotto immense
colonnate di pini, si copriva di sassi e di tronchi,
in posizioni assurde ed essenziali, impossibili
ma indispensabili, colpita di fronte, di fianco,
alle spalle, da centinaia di cannoni di ogni
calibro.
Nei punti più esposti gli alberi si sfrondarono al primo bombardamento, poi si schiantarono, della foresta non rimanevano che dei tronconi cincischiati; poi le esplosioni delle granate da 305 e da 280, che arrivavano a otto e dieci per volta, sradicarono i ceppi, frantumarono le rocce, sollevarono i macigni dal loro alveolo; ogni colpo si moltiplicava in eruzioni massacranti di pietre e di legno; poi si aprirono voragini, quello che era sulla terra fu sepolto, le ultime tracce del bosco sparirono per lunghi tratti, i tronchi divelti scomparvero sotto frane di sassi. Non c’era più un filo d’erba, non una fronda, niente altro che della sabbia rossastra e della roccia bianca. Il fumo acre colmava le valli, non ci si vedeva a dieci passi, alle vampate gigantesche e incessanti succedeva un’ombra sinistra, passavano nembi soffocanti di polvere, il frastuono terrificante non aveva requie, e in questo inferno, degli uomini andavano carponi, trascinavano via i loro feriti, ammonticchiavano sassi, lavoravano, scavavano, accumulavano munizioni e granate a mano. Appena il cannone taceva, si precipitavano avanti, in mezzo ai cadaveri, col fucile spianato. Le prime pattuglie nemiche venivano su, sicure di non trovare più nessuno. Una raffica di pallottole le rovesciava. E il bombardamento ricominciava, più intenso.
Non riuscendo a snidare i difensori col cannone, il nemico portò avanti masse e masse, sempre rinnovate, di fanteria. Avanzavano a sbalzi, a ondate. Più se ne ammazzavano e più ve ne erano. Ogni notte nuove divisioni fresche erano portate avanti e scagliate all’assalto, I nostri non avevano riposo. Le loro linee si assottigliavano, e i superstiti non davano indietro, decisi a morire.
Ricambiandosi sempre, le schiere nemiche giunsero a pochi passi dalle trincee sconvolte, e fu una lotta a corpo a corpo, con granate a mano, con la baionetta. Per intere giornate si combatteva a dieci metri. Si arretrava talvolta per non essere sopraffatti dalla marea, ma a palmo a palmo, senza altro appoggio possibile che qualche batteria da montagna sulla quale l’artiglieria nemica tempestava.
Il giorno 16 noìn meno di duecento cannoni austriaci avevano concentrato il loro fuoco sopra lo Zovetto, difeso da una brigata eroica. Lo Zovetto è un cucuzzolo che non ha più alcuna traccia di vegetazione, dilaniato da mostruosi crateri, ingiallito qua e là dal fumo dei picrati che ha lasciato come delle zolfature, e lo scintillìo dei bossoli intorno ai morti dice la tenacia della resistenza. Cadaveri austriaci a mucchi enormi, caduti in pose strane, stringono ancora nella destra annerita delle granate a mano. Si vedono gruppi di nostri morti che hanno tutti lo stesso gesto, caduti nella corsa verso il nemico, fulminati nell’assalto, la baionetta avanti. Si cammina fra granate a mano di ogni forma, italiane e austriache, fra armi di ogni genere sparpagliate dalla bufera della battaglia, fra casse di munizioni italiane e austriache frammiste, fra indumenti dei due eserciti, fra caschi e berretti. È una mischia immane che si perpetua nella immobilità della morte.
Il generale che comandava la posizione è tornato oggi per la prima volta sul posto e si aggira solo, silenzioso. Cerca la tomba di un ufficiale mitragliatore. Ferito una volta al petto, egli non volle lasciare il suo posto. Ferito una seconda volta al ventre rifiutò ancora di ritirarsi: «Posso ancora sparare!» — urlò senza voltarsi. Una granata di grosso calibro lo colpì in pieno lanciando in aria lui e l’arma. La sua mano destra troncata rimase attanagliata al manubrio della mitragliatrice nella posizione di fuoco.
Una volontà eroica, un’abnegazione sublime era in tutti, e insieme una certezza di vincere, un misterioso presentimento del trionfo che li inebriava. Ferito a morte un tenente colonnello non disse che due parole: «La posizione.... la posizione!». Mentre lo portavano via i soldati sul rovescio della posizione gli presentarono le armi, sotto al fuoco, e nella loro schiera che salutava, la morte apriva dei vani.
Durante uno dei piccoli ripiegamenti di poche decine di metri, una compagnia, alla estrema destra, perdè contatto. Difendeva la strada della Casera Magnaboschi, e sparì. Si credette che, tagliata fuori, circondata dal nemico, si fosse arresa. No. È stata ritrovata il giorno 26, quando siamo avanzati. Era rimasta al suo posto. Aveva difeso la sua posizione per due giorni e mezzo. Cioè finché un uomo era rimasto vivo. Perchè la compagnia leggendaria è stata ritrovata morta.
All’ultima sera, un ufficiale superiore entrò nel rifugio dove erano adunati i feriti gravi, gl’incurabili. Qualcuno era morto. Non un lamento lì dentro. Ma alla vista del visitatore, delle voci fioche chiesero: «Teniamo ancora?... Resistiamo sempre?» — «Abbiamo vinto, figliuoli!» — E un mormorio di contentezza passò fra i morenti.
Viene voglia di gettarsi in ginocchio e di baciare questa terra benedetta e questo sangue!