Documenti ed osservazioni riguardanti la politica di Leone X/Introduzione
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Giuseppe De Leva, facendo una lusinghiera comunicazione sul mio libro all’Istituto Veneto1 ed accettandone in gran parte le conclusioni, solleva tuttavia ancora alcuni dubbi sulle intenzioni vere di Leone rispetto alla elezione imperiale del 1519. Alle ragioni già da lui assegnate nella sua Storia di Carlo V e da me contradette, e per le quali cercò dimostrare, che Leone, piuttosto che l’elezione di Francesco I o di qualsiasi altro principe, volle sempre quella di Carlo, egli fa seguire ora con nuovo acume altri dubbi, per i quali fanno mestieri nuovo studio e nuove dilucidazioni. Egli, pur dichiarando, nella serena coscienza sua di storico amante soltanto della verità, di essere «ben lontano dalla insana pretensione di giustificare una congettura messa innanzi trenta anni circa addietro, quando non erano noti i manoscritti Torrigiani», dubita tuttavia, che se io, invece di affermare che Leone non aveva avuta «molta fiducia» nell’elezione di un altro principe che non fosse né Francesco né Carlo, avessi detto che «nessuna fiducia» quegli ebbe in ciò mai, gli avrei «data vinta, la causa». Ma a noi riesce appunto impossibile non riconoscere, che quella fiducia abbia, con più o meno debole vicenda, tenuto l’animo del papa sino al maggio, e ne abbia determinata in gran parte anche la politica. Non solo il barlume più o meno vivo di tale fiducia si mostra evidente in tutte le negoziazioni papali riguardanti la contesa elettorale, ma quella speranza la troviamo ripetutamente e sulle labbra del papa e de’ familiari suoi, insieme al naturale timore che dovesse probabilmente restare delusa (pp. 154-7, 176, 193, 200-3). Ed in realtà il crescere ed il decrescere di tale speranza e di siffatta fiducia nell’animo di Leone, segna e spiega, più che ogni altra causa, le fasi dell’atteggiarsi della politica papale dall’autunno del 1518 all’està del 1519.
Vivente Massimiliano, quasi nulla era la speranza di fare eleggere, contro la volontà decisa del vecchio imperatore, un re de’ Romani che non fosse Carlo; non si sarebbe neanche trovato alcuno, fra i principi tedeschi, che avesse accettata la candidatura: e però la quasi acquiescenza di Leone alla elezione del giovane Asburgo. E tale ragione, anche lasciando da parte l’altra, pur grave, della preoccupazione per la crociata contro i Turchi, è invero più che sufficiente a spiegare il fatto. A che scopo Leone doveva combattere con danno del prestigio suo e della Chiesa contro un avvenimento che pareva inevitabile? La conseguenza necessaria di siffatta politica sarebbe stata quella di procacciarsi l’inimicizia, forse irreconciliabile, d’un imperatore che tutto preannunziava sarebbe stato di tale potenza, quale da più secoli nessuno dei suoi predecessori aveva raggiunta. Che Leone fosse invece persuaso all’acquiescenza «dall’avere sin d’allora calcolato il frutto che poteva trarre in avvenire» dall’alleanza con Carlo, come vorrebbe il De Leva, è cosa che non solo non risulta da dato alcuno di fatto, ma c’impedisce il supporla l’atteggiamento posteriore risolutamente contrario di Leone, quando nessuna circostanza nuova era intervenuta, eccetto la morte di Massimiliano. Seguita questa, la speranza di Leone di poter impedire l’elezione di Carlo si riaccende naturalmente e tanto forte, che egli si fa promotore quasi baldanzoso della candidatura di un altro principe tedesco. Ed io mi permetto di ricordare qui al De Leva, al quale sembra impossibile che Leone ignorasse l’estensione dell’impegno de’ cinque elettori a favore di Carlo, che non solo dal papa ed in Roma, ma dai più anche in Germania si credeva che quegli obblighi, contratti verso Massimiliano e per deferenza personale a questi, non dovessero avere vigore che durante la vita del vecchio imperatore. E però, quando l’ambasciatore di Polonia, come risulta dalla lettera del 30 gennaio, mostra per la prima volta al papa «la copia dell’obbligazione» degli elettori a favore di Carlo, e che appare «molto più importante e gagliarda che ancora non si pensava», è perfettamente naturale che allora la riaccesa fiducia di Leone nella elezione di un terzo si raffreddi. E soltanto non gliela fa perdere del tutto l’espediente della candidatura di Francesco I, sia che questa gli si ripresentasse allo spirito del tutto spontaneamente sia che a fargliela rinascere avesse contribuito anche, fatto che non muta la questione, lo stimolo degli agenti francesi in Roma, come inchina a credere l’illustre professore padovano e come io, nonostante il passo di una lettera del segretario Buondelmonti (p. 153), non ho ragione decisiva per escludere del tutto. Che lo scopo vero e riposto delle istruzioni papali del 23 e 26 gennaio 1519 al cardinale di S. Sisto in Germania, che lo incitavano a spendere ogni opera per favorire l’elezione di un principe tedesco diversa da Carlo, fosse, come, in forma dubitativa, suppone il De Leva, quello di renderne ostensibile la copia al re di Francia, sia per indurlo a firmare subito il trattato pel quale correvano pratiche da mesi, sia perchè Leone avesse, al bisogno, una prova colla quale potere sconfessare pressa Francesco I il trattato segreto che stava per conchiudere con Carlo: mi sembra una di quelle supposizioni estreme, alle quali si può soltanto ricorrere quando il senso chiara e lo scopo diretto d’una manifestazione trovano non solo mancanza assoluta di corrispondenza, ma contradizioni inesplicabili nei fatti o nelle altre dimostrazioni che vi si collegano. Invece gli ordini inviati a S. Sisto hanno il più largo riscontro ne’ fatti e nelle altre manifestazioni papali. Il desiderio d’un terzo candidato, e l’opera per trovarlo e favorirlo sono cose confessate da Leone a più riprese durante e dopo il periodo elettorale: egli le fa sapere chiaramente a Wolsey in risposta alle premure di questo a favore di Carlo; le ripetono i suoi familiari, le riconoscono espressamente gli agenti politici, che sono in Roma, e quei contemporanei, che, come Vettori, Giovio e Guicciardini guardano da vicino la politica papale; ed infine, Leone stesso, mentre fa le viste di sostenere la candidatura di Francesco I, cerca abilmente di continuo di insinuare tal suo riposto desiderio nell’animo di questo, dal primo momento, sino a quando giunge a spiegarglielo chiaramente ed a chiedergli francamente, che, per il successo della comune causa contro Carlo, ritiri la propria candidatura e volga l’opera sua a favore di un altro principe tedesco. Invero le istruzioni del 23 gennaio trovano tale larga e varia corrispondenza di fatti e di manifestazioni, che si deve del tutto escludere la possibilità di poterle «ritenere di natura puramente ostensibile». E della sincerità del loro contenuto è prova anche, se pur ne fosse mestieri, la ingiunzione del 26 gennaio, che le conferma e le rafforza; ingiunzione, la quale non comprendo perchè il De Leva trovi strana. Leone, in un tempo nel quale le comunicazioni con la Germania erano tarde ed incerte, si premuniva accortamente non solo contro qualche possibile abuso o falsificazione della sua parola, che si sarebbe potuto tentare di sorpresa sopra i suoi legati, non solo contro ogni possibile sua debolezza o necessità di duplicità a favore di Carlo, ma anche - ed anzi io credo più di tutto - contro la probabile presentazione ai legati di qualche lettera o sua o della cancelleria papale a Carlo, dell’ottobre o del novembre, quando, come penso d’accordo in ciò col De Leva, Leone si era quasi del tutto acquietato alla elezione del giovine Asburgo2.
Che se, considerando come inesistenti i fatti dianzi accennati, noi per un momento credessimo che Leone non avesse avuto mai la più piccola fiducia nella riuscita d* un terzo candidato, e perciò non schiette le manifestazioni sue a questo scopo, il resto dei fatti ci porrebbe allora nella necessità di dover ritenere come sincero l’aiuto dato alla candidatura di Francesco I dal febbraio al giugno. Limitata la scelta tra Francesco I e Carlo V, io sono bensi della medesima opinione del De Leva, che Leone avrebbe preferito il secondo; ed a p. 162 ho notata, come non sincera, una esplicita dichiarazione di Leone in senso opposto. Ma tanto le ragioni esposte dal De Leva nella sua Storia di Carlo V, quanto le mie, si fondano, per questo punto, sopra gli apprezzamenti, che, ponendo mente alla natura de’ due re, alla forza, alla posizione, alla politica de’ due regni, avrebbero dovuto indurre, secondo ogni buon giudizio, Leone, per l’interesse proprio e della Chiesa, a desiderare la vittoria di Carlo. Ma per larga, profonda e rigorosamente obbiettiva che possa essere l’opinione di uno storico, fondata in tal guisa, essa non può mai assumere un valore pari a quello del fatto, o, quando trovi contradizione in questo, non dee valere mai a sconoscerne l’esistenza: e, contro ogni ragionevole nostro credere, avrebbe pur Leone, o per errore di criterio suo, o perchè a formare questo concorrevano elementi e circostanze a noi rimaste ignote, trovare preferibile, che la corona imperiale venisse sul capo del re di Francia. Certamente - sebbene, per quanto io ricordi, manchi nella storia ogni esempio d’una duplicità di si complicata forma - si potrebbe, data la natura di Leone, immaginare come cosa non affatto impossibile, che tutte le manifestazioni e le opere sue contro Carlo fatte presso amici e nemici, ed alcune anche, come quelle presso gli Svizzeri, mettendo a repentaglio il maggior sostegno dell’indipendenza sua, fossero dirette al triplice scopo: di dare a Francesco I una dimostrazione rumorosa della fede e dell’attaccamento suo nel momento stesso che vi veniva meno; di rendere, grazie alla naturale reazione che l’opera sua suscitava in Germania, più facile la desiderata elezione di Carlo; ed infine, e più che tutto, di costringere questi, con tal viva opposizione, a prenderlo alleato a condizioni vantaggiose. Ma della lontanissima possibilità d’una tale politica noi dovremmo trovare almeno un segno solo nei modi e nel risultato del contegno di Leone verso Carlo prima dell’elezione. Come caratteristica d’una tale politica, accanto alla guerra viva di maneggi contro Carlo, accanto alle minaccie francamente dichiarate a questo, noi dovremmo vedere altresì, da parte del papa, se non pure qualche segreta proposta d’accordo, fatta al momento opportuno, tuttavia qualche accenno di lusinga, l’annodamento di qualche filo, sul quale correre, all’ultimo momento, a cogliere il frutto di si complicata e strana politica: l’alleanza a condizioni di gran vantaggio. Ma non v’è nulla di tutto ciò. Leone non solo si pone apertamente contro Carlo, ma non vuole sentir neanche a parlare delle ragioni di questo; senza nececità pensa altresì a togliere, per parte sua, i mezzi di comunicazione fra loro, e il i febbraio vuole richiamare il nunzio da Spagna, ma poi resta esitante. È vero che alla metà di febbraio, alla notizia che Francesco I ritira la sua candidatura, Leone pensa, per un breve momento, di modificare la sua attitudine ostile contro Carlo. Ed è cosa naturalissima. La candidatura di Francesco I era, nel pensiero del papa, il solo mezzo adatto a combattere, con speranza di successo, all’ultima ora, a favore di un terzo contro Carlo: scomparso quel potente candidato, si ripresentava, e più grave ora per la probabilità d’un accordo tra i due re, la posizione dell’ottobre, l’inevitabilità dell’elezione di Carlo; e, con essa, le ragioni dell’acquiescenza di Leone, Quelle stesse ragioni, che gì’ imporranno più tardi l’accordo del giugno, quando la certezza di tale elezione gli riapparirà chiara e prossima. E per arrivare a tale accordo, non è Leone che va incontro a Carlo; è questi invece che lo chiede. Si potrebbe credere che ciò appunto fosse nello scopo e nelle previsioni del papa, che il nemico, fieramente combattuto, stendesse la mano a lui, chiedendo mercè: e noi dovremmo allora trovare tanto la via quanto il frutto, con i quali Leone avrebbe volto a suo pro questo primo ed aspettato successo. Ma egli conchiude soltanto l’accordo quando non ne può più fare a meno, non quaranta giorni prima, ma alla vigilia dell’elezione, quando un corriere, andando con straordinaria rapidità, può giungere il 24 giugno a Francoforte, appena a tempo, affinchè gli elettori, già adunati da una settimana, eleggessero Carlo non contro la volontà ma con l’assenso del papa. Per impedire una offesa al prestigio suo e della Santa Sede, Leone, più che un accordo aveva invero compiuta una dedizione. Nel trattato del 17 giugno cedeva infatti le armi, con le quali aveva combattuto, liberava Carlo dagli impedimenti; e l’effetto dell’accordo a vantaggio di questo si compieva nel fatto immediatamente. Il papa da parte sua non guadagnava che semplici promesse e di poco conto, alle quali non s’impegnava neanche il re, ma l’ambasciatore, in virtù d’un mandato, che soltanto asseriva d’avere, ma che neppure presentava (documento IV). Se la politica di Leone fosse mai stata, come, per un momento, lasciando da parte i dati positivi di fatto,, ci siamo spinti ad immaginare, diretta a fare eleggere Carlo, costringendolo coll’opposizione ad un trattato vantaggioso, giammai successo avrebbe partorito per chi, con arte finissima, lo avesse predisposto, conseguenze meno liete; e giammai, a conseguirle diverse, vi sarebbe stata, da parte dell’astuto orditore, maggiore trascuranza e, insieme, maggiore stravoltura di mezzi! Avvenuta l’elezione, si potrebbe credere che Leone avesse cercato di conseguire que’ vantaggi dell’alleanza che non aveva saputo o potuto conseguire prima; ma anche qui la politica del papa non risponde, e per un anno ancora, in nulla a siffatta congettura. Egli entra, come non poteva fare a meno, apparentemente in buona relazione con Carlo3; ma dall’altra parte resiste ai consigli di Wolsey per una benevola neutralità verso il nuovo eletto, e si dà invece a tutt’uomo per riunirgli una coalizione contraria, e si collega più strettamente che mai con la Francia. Anche qui si potrebbe rinnovare l’arditissima supposizione, che egli facesse ciò per avere migliori patti da Carlo. Ma contro tale opinione, che non ha per sè alcun dato positivo, stanno le prove più chiare, che allora, più che mai, Leone credeva sinceramente che la salvezza sua e della Chiesa fosse strettamente legata alla fortuna della Francia. Ne è riprova non tanto il trattato del 22 ottobre con Francesco I (documento VI), quanto la istruzione del 21 settembre al vescovo di Pistoia, inviato nella Svizzera (documento V). In quella istruzione la natura ed il tenore de’ consigli è tale che, se non esprimessero il sentimento e la mente vera del papa, questi avrebbe con la più pazza aberrazione ingannato sè stesso, e cercato di creare con l’opera sua medesima più sagace i mezzi della sua rovina. Ivi viene indicata la più fina arte per rendere gli Svizzeri, da nemici, amici della Francia: non solo vi appare esclusa ogni ragione di ostentazione verso chiunque, ma i più sottili avvertimenti sono diretti appunto a far si, che l’opera del papa per l’alleanza tra gli Svizzeri ed il re di Francia giunga al risultato con la minore apparenza possibile rispetto agli unì ed all’altro, poiché altrimenti ne verrebbero diminuiti la sincerità e l’efficacia dell’unione dei due antichi nemici. Ed ancor più: il papa ha ora una tale convinzione piena che, il giorno prossimo o lontano della guerra, egli sarà alleato della Francia, che gli Svizzeri al servizio della sua persona e del suo Stato, egli vuole scelti esclusivamente tra i «gallizzanti», tra quelli che erano, per animo e per tradizione, amici di Francia, escludendone quelli di tendenze favorevoli all’imperatore. Nessuna supposizione, avesse pure la parvenza di qualche fondamento, che qui non ha, potrà mai rendere possibile la credenza, che il papa volesse affidare la difesa di sé stesso e delle cose sue a coloro, che, nel calcolo suo, sarebbero stati già designati come suoi nemici. Io pubblico ora per intiero questo documento, del quale già detti una breve citazione. Ed esso solo varrebbe a mio giudizio, quand’anche non vi fossero tutte quelle altre prove positive e negative alle quali ho qui in parte riaccennato, a dimostrare decisivamente che tutta la politica di Leone prima, e, per un certo tempo, dopo l’elezione, non fu preordinata all’alleanza con Carlo.
Ed io spero che la lettura di questo documento toglierà gli ultimi dubbi al De Leva. Lo storico acutissimo, che, con materiale scarso, scopri quello che per gli altri era rimasto oscuro, che al principio della contesa imperiale Leone non era disfavorevole a Carlo; egli che aveva estesa poi siffatta sua veduta a tutto il periodo posteriore, quando non erano venuti ancor fuori i documenti, che chiaramente la contrastano, credo, riconoscerà ora del tutto, come ha fatto in parte, che tra il primo atto dell’autunno del 1518 e l’ultimo del maggio 1521 vi furono, rispetto alle alleanze, mutamenti reali, vari e profondi nella politica di Leone, come ve ne sarebbero stati quasi certamente anche dopo, se la morte non l’avesse allora colto.
Il De Leva, come la maggior parte degli altri critici della mia opera, ha trovato, che in essa «è ridotta a giusti termini l’influenza esercitata dagli interessi famigliari » nella politica di Leone. Non così però è parso ad altri. Ermanno Baumgarten in una succinta e benevola recensione4, pur riconoscendo volentieri, che egli, nella sua Storia di Carlo V, ha troppo fortemente insistito sull’influenza degli interessi di famiglia nella politica di Leone, crede però, che io erri ancor più gravemente nel senso opposto. Egli nota che l’opinione dei contemporanei era ben diversa dalla mia. Che tale in realtà fosse l’opinione dei più fra i contemporanei è cosa non dubbia. Alle testimonianze già note in tal senso, io stesso ho aggiunte delle nuove; ma sul carattere generale di esse e sul valore loro relativo nei casi particolari ho portata una critica, che ancora non m’è stata dimostrata fallace. Tra tali testimonianze duolmi che io non abbia conosciute, prima della pubblicazione del mio libro, alcune che erano state già messe in luce tempo fa dal prof. Vittorio Cian, in un pregevole scritto a proposito dell’ambasceria di Pietro Bembo da parte di Leone X a Venezia nel 15145. Testimonianze, che congiunte a quelle già note, facevano conchiudere all’egregio scrittore «che l’obbiettivo ultimo di tutte le macchinazioni della politica di papa Leone, era pur sempre quello di accrescere la potenza della sua casa e di assicurare un forte principato ai nipoti Lorenzo e Giuliano». Il Cian, rilevando in una recensione del mio libro6 la trascuranza per parte mia dei documenti da lui pubblicati, crede che il contenuto di questi valga a distruggere alcune delle mie affermazioni, e, sopra tutto, non gli pare che io abbia raggiunto l’intento mio a di dimostrare che il nepotismo non fu che «un movente secondario nella politica di Leone X». Ora io non ho avuto nè alcun intento, nè alcun preconcetto nella mia indagine. È bensì vero, che, contrariamente all’opinione unanimamente accettata, io son giunto alla conclusione che Leone, pur avendo cercato di avvantaggiare e d’ingrandire in più modi il fratello ed il nipote, fu tuttavia nella politica sua ispirato e diretto principalissimamente dagli interessi della Santa Sede e dello Stato della Chiesa, che non sacrificò mai alle ambizioni di famiglia; ma questa conclusione è scaturita naturalmente da una indagine del tutto obbiettiva, nè più nè meno come, quando i fatti fossero stati diversi, ne avrei indotta una opposta. Che anzi, riuscendo i giudizi miei contrari ad altri tanto numerosi ed autorevoli, io ho qua e là, specialmente a pp. 57-64, spinta la mia intuizione ed analisi psicologica a ricercare, dando loro un valore che rigorosissimamente forse non avrei potuto, argomenti di possibile dubbio rispetto alle mie conclusioni, i quali io non riuscivo a trovare nelle manifestazioni di fatto. Nè quando avessi avuti presenti al mio esame anche i documenti pubblicati dal Gian, io avrei potuto, pel contenuto loro, trarre una conclusione diversa. Da questi documenti vengono fuori due fatti. Il primo: quando Leone nella primavera del 1514, preso da gravissimo timore di un’unione tra la Francia, la Spagna e l’imperatore, per causa del progettato matrimonio spagnuolo-francese, si dava a tutt’uomo, per impedire tal fatto, a rialzare l’animo di Luigi XII col promettergli l’aiuto nell’impresa d’Italia e col procacciargli l’alleanza con l’Inghilterra; e quando nel tempo stesso i Veneziani cercavano di sfruttare questo buon momento, rinnovando con ogni lusinga gli sforzi, sino allora vani, di distaccare Leone dall’imperatore e di tirarlo definitivamente a loro ed alla Francia: in queste circostanze Vincenzo Quirini, un nobile veneziano, «divenuto frate camaldolese col nome di frate Pietro, e che aveva saputo conquistarsi l’intimità di Leone e della famiglia Medicea», e che, senza mandato uffciale, pare servisse, quale informatore ed agente politico di fiducia, la Signoria di Venezia, scriveva a questa da Roma l’ultimo di maggio:
Della annata [veneziana] veramente per mare sappia la sublimità vostra che già il magnifico luliano mosso a qualche speranza per il nome che di essa risuona, se incomincia a lassare intendere di volerne fare sopra disegno: et meco liberamente favellando dice volermi aprire quello che desideriano, et che da Nostro Signore non bisogna che io lo intenda, et più oltre scoprendosi con dire le promesse che la Santità Sua ha di continuo dal re de Inghilterra de aiutarlo al regno di Napoli, mi dimostra ogni hora haver l’animo già mezzo volto a simile impresa.
Il Cian nota che il Quirini: «gli ha spesso in quelle lettere l’aria di chi a forza di gridare e di ripetere ad altri cosa, cui non presti gran fede, vorrebbe persuadersene egli stesso». Ed io poi trovo che qualcuna delle cose qui dette o ripetute dal Quirini è con gran probabilità non vera: certamente falsa l’asserzione, riguardante le promesse dell’Inghilterra di aiuti al papa per l’impresa del regno di Napoli. Una lettera di Giulio de’ Medici del 20 aprile ai Vescovi di Winchester e di Lincoln ci prova infatti come il papa, invece di chiedere aiuti per l’impresa di Napoli o di rispondere a graziose offerte a tale scopo del re d’Inghilterra, si sentiva nella necessità di protestare anche presso di questo, come già presso gli Svizzeri, contro le voci che divulgavano in Europa, a proposito di tale impresa, gli ambasciatori spagnuoli, dichiarandole «in tutto aliene dalla verità», e che l’impresa di Napoli egli non l’aveva mai a pensata nè sognata» (Mss. Torrigiani, ediz. Guasti, pp. 47-48). Senza alcun dubbio in quel tempo, in occasione della designata impresa francese in Italia, alla quale fu giuocoforza al papa far le viste di incoraggiare Luigi XII, corsero per la prima volta trattative tra questi e Leone X a proposito del regno di Napoli. Non abbiamo sino ad ora alcun documento diretto che ne parli; soltanto, oltre questi del Quirini, alcuni accenni del Sanuto, probabilmente, sebbene indirettamente, dell’istessa provenienza. Ma dalle proposte che vennero fatte l’anno dopo a Francesco I, che noi conosciamo con precisione, e che si dichiaravano identiche a quelle accettate da Luigi, vedremo, ora che torneremo sulla questione, come si trattasse senza alcun dubbio della semplice rinunzia a favore della Santa Sede dei diritti della corona di Francia sul reame di Napoli da dover far valere alla morte del Cattolico. Ma sia di ciò che vuolsi, dalla lettera del Quirini risulta soltanto, che il progetto della conquista del reame di Napoli per Giuliano, che, come io ho notato (p. 18), fu gridato dai cortigiani all’indomani dell’elezione di Leone, si riaccese un anno dopo, quando apparve prossima la formazione di nuovi aggruppamenti d’alleanza, e che Giuliano s’era, secondo la sua debole natura e volontà, «mezzo volto», e che «se incominciava a lassare intendere» di volervi fare sopra disegno per mezzo della flotta veneziana.
Per iniziativa o spinta di chi si riaccese il disegno, non si vede chiaro dalle parole del Quirini. Ho mostrata falsa la parte assegnata all’Inghilterra; e Giuliano stesso vi appare più premurato che premuroso. All’azione de’ cortigiani, dai quali dovette probabilissimamente partire, anche questa volta, il nuovo primo grido, la lettera del Quirini ci può fare ragionevolmente indurre, che, in questa circostanza, si aggiunse pure la spinta dei Veneziani; i quali, per lusingare e tirare ad essi il papa, risvegliarono, o, molto più probabilmente, riscaldarono, sebbene, di certo, non sinceramente il progetto col miraggio dell’aiuto della flotta veneziana. Il fatto, già conosciuto, e al quale io già accennai, senza poterne determinare con precisione il tempo, d’una proposta veneziana a questo scopo, avrebbe dalla lettera del Quirini una più precisa conferma. Per quel che riguarda l’azione o il pensiero personale del papa - che è ciò che ci preme per la questione - noi non apprendiamo altro, che Giuliano dichiarava al Quirini, che della cosa non avrebbe avuto discorso dal papa, «da N. S. non bisogna che lo intenda». Io ho a p. 57 come cosa «naturale e probabilissima» - per dirla «certa» mancava e manca tutt’ora ogni prova - opinato che, quando Leone avesse avuti ceduti i diritti della corona di Francia sul reame di Napoli, «avrebbe cercato, alla morte del Cattolico, di darne l’investitura, come feudo della Chiesa, a Giuliano», come intorno a lui certamente, e probabilmente in lui ne era il desiderio: soluzione «che gli avrebbe tolte le grandi e continue preoccupazioni per la libertà della Santa Sede e dell’Italia, ed avrebbe soddisfatto il desiderio suo di far grande e potente la propria famiglia, specialmente il fratello». Ma io nel tempo stesso ho dimostrato - ed in ciò consiste e l’importanza della questione storica e la novità de’ miei risultati - che non stava in tale desiderio ed in tale disegno la ragione principale della politica di Leone rispetto al reame di Napoli. A chiedere la rinunzia dei dritti della corona di Francia alla Chiesa, sola forma di domanda che risulti dalle trattative, Leone dichiarava di essere mosso dalla necessità di tutelare l’indipendenza della Santa Sede, e quella che chiamavano «libertà» d’Italia, che sarebbero andate perdute il giorno, che lo stesso re fosse diventato padrone di Napoli e di Milano. E che la ragione addotta costantemente da Leone era, se non la sola, certamente di gran lunga la maggiore di tutte, io, oltre che con argomenti riguardanti i punti particolari, oltre col mostrare che essa rispondeva alla tradizione antica della politica papale, e, più che ai soli bisogni, alla vera necessità politica del tempo, l’ho principalmente provato col mostrare due fatti. Primo: che Leone, per ottenere quella rinunzia dalla Francia, e quando questa non era ancora vincitrice, spinse le offerte all’estremo, proponendo, mentre vivevano ancora Giuliano e Lorenzo, che, di comune accordo tra re e papa, la corona di Napoli fosse data, alla morte di Ferdinando, ad un principe, dal quale la Santa Sede non avesse a temere, designando specialmente il figlio di Federico d’Aragona, nè più nè meno come se il fratello ed il nipote non esistessero. Secondo: che Leone, morti Giuliano e Lorenzo, continuò costantemente, rispetto alla richiesta per Napoli, l’istessa politica verso la Francia, e l’estese anche alla Spagna, quando Carlo ne divenne re; nè più nè meno come se - qualora supponessimo, per poco, vera la ragione che movente di tale politica fosse l’ambizione di famiglia - fratello e nipote vivessero ancora. L’averli Leone posposti entrambi ad altri per la corona di Napoli, quando vivevano, e l’aver egli persistito, quando non esistevano più, nell’istessa condotta di cercare di riavere per la Chiesa tutti i diritti vantati da Francia e da Spagna su Napoli, è cosa che mostra nel modo più evidente che se Giuliano e Lorenzo, ed i disegni che vi si connettevano, ebbero, forse, nelle ragioni della politica papale rispetto a Napoli una parte, questa però non fu di certo la maggiore. Dalla lettera del Quirini non risulta, rispetto al papa, alcun fatto, che contradica a quelli che ho disopra accennati: in nessuna guisa vi si apprende, come vuole il Cian, che le mire di Giuliano «erano in segreto «alimentate ed incoraggiate dal pontefice». Che anzi, se uscendo dal limite costante del modo della mìa indagine e del mio ragionare, volessi dilettarmi, per un momento, del vano giuoco di sottigliezze, potrei spingermi a dire, che si trova anche nelle parole del Quirini una riprova della verità delle mie considerazioni rispetto a Leone; poichè, nei due punti soli, nei quali vi si accenna, nell’uno appare, rispetto a Napoli, non premuroso, ma premurato dall’Inghilterra; nell’altro, come quegli, che dee restare estraneo a tal discorso. Nel resto degli accenni della corrispondenza del Quirini, che ci dà il Cian, non vi è più parola di Napoli: tanto la cosa dovette essere, in verità, oggetto di discorso leggero e passeggero tra Quirini e Giuliano. Senonchè nella recensione del mio libro fatta dal Cian, il fatto prende un aspetto che sarebbe veramente più grave, poichè mostrerebbe l’impresa di Napoli, della quale non si sente più parlare, quasi come un contratto in via di conclusione tra il papa ed i Veneziani. Il Cian, infatti, riannoda al contenuto, di sopra riportato della lettera, un poscritto, nel quale il Quirini annunzia l’invio da parte di Giulio de’ Medici di ducati tremila alla Signoria di Venezia. Io non conosco tutta la corrispondenza del Quirini per poter determinare con precisione lo scopo di quel danaro; ma dagli accenni che offre lo stesso Cian nell’Archivio Veneto, mi sembra potere con ogni sicurezza escludere, che i ducati tremila servissero per impegnare o per incoraggiare la flotta veneziana alla fantastica impresa di Napoli, o semplicemente per assicurarsi a tal fine il favore della repubblica, come parrebbe dalla recensione del Cian. I ducati tremila sembrano invece essere la terza rata di ventimila promessi dal papa stesso, a quanto pare, per aiutare i Veneziani a tener viva la guerra nel Veneto e togliere così la temuta possibilità di pace tra essi e gl’imperiali, come era allora interesse di Leone: ducati ventimila, dei quali erano stati già sborsati, prima della metà di maggio, cinquemilacinquecento, mentre all’ultimo di quel mese appena e nella lettera stessa contenente il poscritto, Quirini annunziava che Giuliano cominciava a pensare alla possibilità di avvalersi della flotta veneziana!
Il secondo fatto che vien fuori dai documenti del Cian, mostrerebbe il papa nel novembre preso dal progetto di fare insignorire Lorenzo, grazie ad un matrimonio con una principessa spagnuola, alla morte del Cattolico di quel reame di Napoli, che nel maggio avrebbe voluto conquistare per Giuliano e nell’aprile dell’anno seguente di nuovo chiedere per questo al re di Francia. Questo facile cambio e scambio, a mesi, tra la candidatura di Giuliano e quella di Lorenzo, specialmente quando si ponga mente alle non celate e talvolta vive rivalità tra i due, rivalità che si estendevano ai cortigiani ed agli amici dell’uno e dell’altro, dovrebbe essere, se non prova, almeno indizio della inconsistenza di tali progetti; e come questi, molto più che un disegno concreto e preciso di politica da parte del papa, continuassero a rappresentare, come nel primo momento, desideri e disegni di cortigiani, che potevano fin trascinare una natura debole e proclive ad ogni compiacenza, come quella di Giuliano, a discorsi e velleità di trattative senza serietà, come a me sembrano quelle tenute col Quirini, Nel caso speciale del preteso disegno per Lorenzo, non si può non rilevare, che l’opposizione che in ogni tempo, nonostante le premure continue da parte di Spagna, Lorenzo fece ad un matrimonio spagnuolo, mostra che a questo non vi poteva essere collegato un si alto progetto di dominio per lui; che, altrimenti, se pure fosse stata insensibile l’ambizione di Lorenzo, ben lo avrebbero costretto ad accettarlo Leone ed, ancor più, la madre Alfonsina Orsini, sitibonda di regno, ed alla quale il figlio piegò sempre, come fanciullo. Ma sono queste osservazioni al tutto accessorie. Alle parole, le quali a Pietro Lando, ambasciatore veneziano, avrebbe detto un amico suo e di Leone, che questi calcolava «che morendo el re di Spagna, che e cum la potentia et favor del parenta de questa Dona el se insignoreria del regno di Napoli» - parole nelle due brevi citazioni che ne dà il Cian non chiare abbastanza - bisogna porre a riscontro le altre, che Leone stesso, al medesimo proposito, disse il giorno seguente al Lando, come risulta dalla lettera di questi del 28 novembre, pubblicata del Cian, sebbene sia stata da lui del tutto trascurata nelle sue osservazioni tanto nell’Archivio Veneto quanto nel Giornale storico. Diceva Leone all’ambasciatore veneto:
Facemo fondamento sopra Italia zoe el Stato vostro et el Duca de Milan, perche quando francesi hauesseno el Stato de Milano, licet ne promettesseno che fussena contenti, hauessamo el Regno de Napoli, tamen non ne attenderiano, Ma uolemo la sua amicitia et el parenta cura loro, azo stiano fuor de Italia: Et seguendo el caso de la morte de Re de Spagna, sei Imperator non uora assentir che habiamo el Regno de Napoli cum el parenta de la cusina del Re che damo a Lorenzino, faremo suscitar lo Infante che e in Spagna, et daremoli da far da quella banda, et vuj da laltra recuperarete Verona qual desideramo.
Io non so se i documenti pubblicati dal Cian siano, come molti del tempo, originalmente senza punteggiatura, o con una scarsissima, alla quale, da taluni, secondo una consuetudine del resto corretta, e che spesso appare anzi necessaria, si supplisce: cosa però che dà qualche volta luogo ad involontari dubbi di senso, quando nelle aggiunte o correzioni si seguono troppo esclusivamente i criteri di punteggiatura moderna. E qualora la punteggiatura dell’ultimo periodo citato non fosse originale, per me il senso delle parole di Leone sarebbe chiarissimo, e logico: esso corrisponderebbe a tutte le manifestazioni papali a proposito del reame di Napoli. Alla morte del Cattolico Leone voleva che la Chiesa rientrasse in tutti i suoi diritti su quel reame per poterne disporre secondo i suoi interessi, o con l’acquiescenza tanto della Francia quanto della Spagna, o coli’ aiuto dell’una contro l’altra; e, per quel che riguardava la Spagna, se Massimiliano avesse pretesa pel nipote Carlo, presunto erede della corona di Spagna, anche la nuova investitura per Napoli, egli, con l’aiuto della parentela spagnuola designata per Lorenzo, avrebbe suscitato l’infante, che era il figlio di Federigo d’Aragona, e che sul reame aveva, più d’altri, diritto. Il senso delle parole «habiamo il regno di Napoli» che Leone adoperava indifferentemente per la Francia e per la Spagna ci è, in modo non dubbio, spiegato non solo dalle trattative di Canossa e dalle lettere di Giulio de’ Medici, che parlano sempre di cessione alla Chiesa, ma anche dal fatto che il discorso sopra riportato di Leone è di risposta ad una osservazione di Landò; il quale, per sconsigliare il papa dall’alleanza spagnuola, gli aveva ricordato, che morendo il Cattolico senza figli, «el ditto regno (Napoli) perveneria alla Chiesa». Ma la punteggiatura qual è nella stampa, può indurre nel dubbio che Leone abbia invece detto: che qualora alla morte del Cattolico, Massimiliano non avesse acconsentito di dare a Lorenzo il regno di Napoli come dote della moglie spagnuola, egli avrebbe suscitato contro Carlo il figlio di Federigo. Ma, per quanto poco, specialmente per la parte che si assegna a Massimiliano, sia logico questo senso, io non voglio insistere nella questione del significato più o meno esatto delle parole di Leone. Che anzi, se invece di Lorenzo, avessi trovato il nome di Giuliano sulle labbra del papa, io non avrei neanche mosso il dubbio, per ragionevole che fosse. Però, se così piace, come ho ammesso, che molto probabilmente Leone avrebbe, quando le circostanze glielo avessero permesso, investito Giuliano del reame di Napoli, non ho alcuna difficoltà a concedere per possibile che Leone, nel novembre, pensasse al regno di Napoli, come ad un appannaggio, che doveva venire a Lorenzo dal matrimonio spagnuolo. Ma quanto più forte si vorrà supporre e mostrare questo desiderio e questa speranza di Leone, tanto più si dovrà riconoscere che la politica di lui non ne fii soggiogata. Con siffatto disegno e con si grande speranza nell’animo, non solo egli non mena innanzi il matrimonio spagnuolo, ma riattacca le trattative con la Francia. Si può fin anche concedere, che nelle prime proposte fatte da Canossa, si nascondesse, sotto la formola della cessione dei dritti della corona di Francia su Napoli alla Chiesa, il disegno determinato di dare il regno a Giuliano, come osservò Francesco I; ma quando, con successive concessioni, il papa arriva prima della guerra, come appare dalla lettera di Giulio de’ Medici (documento II), a proporre la elevazione del figlio di Federigo d’Aragona a re di Napoli, il che avrebbe posto fine a tutte le speranze e a tutti i disegni de’ suoi per quel reame, si deve riconoscere che la sua politica rispetto a Napoli non fu inspirata da ambizione di famiglia. Io non credo che Leone abbia mai pensato a Lorenzo come possibile re di Napoli, bensì io credo che abbia, se non secondato, accarezzato il disegno che si faceva per Giuliano; ma sia per l’uno o per l’altro, o per entrambi, tanto più si deve scorgere l’indipendenza della sua politica da tali desideri, quando per conseguire uà accordo col re di Francia, che avrebbe tolto il pericolo di vedere Milano e Napoli venire nelle mani dello stesso re, egli escogita ed insiste per una soluzione, che non solo non dava sfogo alle ambizioni di casa Medici, ma precludeva loro per sempre la via al trono di Napoli. La lettera di Giulio de’ Medici, che espone con chiarezza le trattative con la Francia rispetto a Napoli, quali io le ho riassunte, si potrebbe credere non sincera, scritta ad arte, per convincere la Signoria di Firenze del torto di Francesco I. Io stesso, esaminando con diffidenza questo documento, ho messo in dubbio quelle cose (p. 45), che non trovavano riscontro nei fatti od in altre testimonianze. Ma per quello che riguarda Napoli, le affermazioni di Giulio trovano la conferma nella proposta, che Giuliano rinnovò poco tempo dopo, il 25 agosto, per mezzo del duca di Savoia a Francesco I (documento III). Il Cian ha negato il valore di questo documento con una argomentazione singolare, che basta solo riportare, per mostrarne tutta la fallacia. «Proprio il figlio di Lorenzo il Magnifico», egli dice, «sarebbe stato tanto ingenuo col re di Francia, ormai sceso in Italia, alla vigilia della battaglia di Marignano, alla vigilia di vedersi sfuggir di mano Parma e Piacenza; tanto ingenuo, dico, da accampare audaci pretenzioni sui due domimi di Napoli e di Milano! Gli è che queste due corone erano diventate per Leone X come l’uva famosa per la volpe della favola; tanto più dacchè Giuliano si poteva considerare ormai CQ|ne scomparso dalla scena politica del mondo», È appena il caso di osservare che Francesco I era bensì sceso in Italia, come già Luigi XII nel 1513; ma egli avrebbe ben potuto provare, tre settimane dopo le proposte di Giuliano, dagli Svizzeri a Marignano quella stessa sconfitta che a Luigi era toccata a Novara; che anzi il prestigio degli Svizzeri era nel 15 15 tale, che erano tenuti quasi per invincibili, ed il risultato della battaglia di Marignano, favorevole ai Francesi, destò una delle più grandi meraviglie del tempo; nè Giuliano si poteva punto considerare scomparso dalla scena del mondo: egli avvertiva solo da pochissimi giorni i sintomi d’una malattia, che nessuno predeva lo avrebbe condotto alla morte dopo otto mesi. Ed infine Leone, nel fatto, non perdette neanche dopo la grande ed inattesa sconfitta di Marignano del tutto quell’animo che Cian vorrebbe mostrare avesse perduto quando non era ancora vinto: rimproverò Lorenzo del subitaneo abbattimento nel quale era caduto, e fu l’ultimo fra tutti, parenti, cortigiani e negoziatori, a riconoscere la necessità della pace con Francesco I. Ma ancor più: le proposte di Giuliano, ben importanti per sè stesse. Io sono ancor maggiormente perchè - come egli dice - qssq riproducono le ultime proposte d’alleanza fatte da Canossa prima della guerra, e sono perciò una conferma luminosa della verità delle cose dette da Giulio de’ Medici. E notiamo - per prevenire anche i dubbi più strani - che non è possibile che Giuliano mandasse al duca di Savoia una copia inesatta dei patti dell’alleanza proposti già al re da Canossa: avrebbe commessa una inconcepibile mistificazione, che sarebbe stata rilevata subito dal re, che conosceva que’ capitoli, mistificazione che avrebbe offeso e alienato il duca di Savoia e che avrebbe distrutta ogni speranza di quell’accordo, che Giuliano cercava. In vero la esattezza dell’esposizione di Giulio de’ Medici, per questa parte, non avrebbe mestieri di prova più decisiva. Ma ne abbiamo ancora una riprova indiretta da parte della Francia. Giuliano e Lorenzo erano morti, quando nel novembre del 1520, volendo Francesco I togliere Napoli agli Spagnuoli, comprese che avrebbe trovato da parte del papa la stessa difficoltà che già nel 1515, e, desiderandolo questa volta, ad ogni costo, amico, ripetè egli stesso le ragioni, riconoscendole giuste, per le quali Leone aveva chiesta la rinunzia dei diritti su Napoli alla Santa Sede; e ripropose ora egli al papa quella transazione, rifiutata nel 1515, di far re di Napoli un terzo (pp. 343-44) e specificava il figlio di Federigo d’Aragona, che però moriva poco appresso.
Come in questa di Napoli, così in tutte le altre contingenze, quando possiamo scoprire l’azione ed il pensiero personale di Leone, noi non li troviamo mai, come quelli di Sisto IV e d’Alessandro VI, sottoposti ai disegni d’ambizione ed ai vantaggi di famiglia. Tali vantaggi cercò senza dubbio - specialmente quelli di danari, che divenivano di giorno in giorno più urgenti ai crescenti dispendii della Corte sua, e di quelle dei suoi - riannodare alla sua po; litica, senza però perturbarla; ma le aspirazioni di acquisti di Stati de’ suoi e de’ cortigiani loro egli non fomentò mai; e quando non gli bastò di moderarle, vi si oppose risolutamente. L’usurpazione di Urbino, io ho acerbamente biasimata (pp. 76-7); ma Urbino fu, per Leone e per Lorenzo, la conseguenza, impreveduta e fortunata, d’una politica sfortunata; non fu già una causa determinante. Quanto al resto però: per Piombino si oppose ostinatamente e duramente alle mene di Lorenzo (p. 20); per Siena, nel primo periodo, respinse le sollecitazioni dei cortigiani (p. 75); pel ducato di Romagna a Lorenzo si negò risolutamente alle preghiere di questi, anche quando il nipote riuscì ad ottenere a ciò il patrocinio di Francesco I (p. 110); resistè a Lorenzo e ad Alfonsina prima, poi ad un partito in Firenze, che successivamente avevano chiesta la trasformazione del governo della città, si da ridurlo a quasi principato Mediceo; per Milano (p. 51) e per Lucca (p. 137), nei soli accenni che troviamo, Leone appare, per lo meno, come quegli che oppone dilazioni alla effettuazione di desiderii e proposte insinuate da altri ai suoi parenti. E per la gran questione di Napoli noi abbiamo testé visto quali fossero il suo vero pensiero ed il suo principale fine. Tutto ciò, molto meno che dalle corrispondenze della cancelleria papale con gli altri principi - nel qual caso si potrebbe anche giungere fino a supporre, che l’opposizione e la moderazione di Leone rappresentassero una condotta di finissima simulazione - viene invece principalmente fuori dalle corrispondenze tra i componenti la famiglia Medici e da quelle dei segretarii ed amici loro, ove l’iniziativa d’un disegno o l’opposizione ad esso, il maggiore o minore desiderio di questo o di quello trovano naturalmente e necessariamente la loro vera e sincera manifestazione. In verità soltanto nella formazione dello Stato di Parma, Piacenza, Modena e Reggio a Giuliano, e nel tener fermo il governo di Firenze nelle mani di Lorenzo, nei modi medesimi, od anche più larghi, coi quali lo aveva tenuto il Magnifico, noi vediamo in Leone chiaro il disegno ed il desiderio che i suoi parenti dominassero. La volontà e l’opera sua di acquisto si manifestano ben più larghi e vivi in lui, quando il fratello ed il nipote sono morti, quando egli si agita chiaramente per lo Stato della Chiesa: allora mira con ogni mezzo ostinatamente a Ferrara; in meno di dieci mesi dopo la morte di Lorenzo, tenta Ferrara, prende Perugia, conquista Fermo ed altri luoghi minori.
Leone amava bensì i suoi; ma non aveva nè la grande immaginazione nè la grande passione, che lo avrebbero potuto spingere alla creazione d’una grande dinastia papale. E di più: perchè ciò potesse avvenire, al tempo di Leone, sarebbero state necessarie in un papa, oltre dette due qualità, anche buona dose d’impreveggenza. La politica dinastica del papato, non era agli inizi: ma datava da mezzo secolo, e non aveva raccolti che disastri. Ad essa, anche un uomo più passionato, più immaginoso, più intraprendente, e meno previdente di Leone non avrebbe potuto mirare con fiducia od illusione, come Sisto IV ed Alessandro VI. La misera o tragica fine dei Riario, dei Della Rovere, dei Borgia, di tutti i principi di sangue papale non era là presente, con la più triste freschezza d’esempi, per ammonire Leone, se mai avesse pensato di dare uno scopo principalmente dinastico alla sua politica, sulla sorte che sarebbe toccata al fratello, al nipote, od ai discendenti loro dopo la morte sua?
Ermanno Baumgarten ha, con verità, osservato contro la mia conclusione, che i contemporanei pensarono diversamente, e che videro nella politica di Leone uno scopo essenzialmente nepotista. Esaminate una per una tali testimonianze, io ho provato il difetto loro di contradizione con i fatti ai quali accennano. Ma l’errore nel quale caddero i contemporanei, veniva determinato altresì da cause generali, e per le quali era ad essi difficilissimo vedere altrimenti. Come per Leone, sul quale dovendo in realtà ricadere, per sè o per i suoi, i buoni o i tristi effetti dell’opera sua e dovendo però volgere il pensiero a prevederne le conseguenze, l’esempio della politica dinastica papale dell’ultimo mezzo secolo, doveva essere, come ho notato, causa di freno, seppur avesse avuto naturale tendenza ad imitarlo: il fatto già lungo ed appena per poco interrotto, di quella politica induceva invece nei semplici spettatori la convinzione, che ormai il cercar Stato ai parenti era una delle funzioni, anzi la maggiore del papato. Io ho (p. 19) rilevata la testimonianza di uno degli osservatori più intelligenti del tempo, Francesco Vettori, che è pur una di quelle più ripetute; e nella quale Leone viene necessariamente predestinato ad una politica nepotista espressamente soltanto dall’esempio de’ suoi predecessori. Ma dell’errore dei contemporanei v’era un’altra ragione generale; la quale Leone, mancandogli la franchezza di parola, la grandezza e l’impetuosità d’azione di Giulio II, non riuscì, come questi, a rendere vana per i giudizi sui fini suoi. Ogni tempo rispecchia una coscienza quasi generale di giudizio, alla quale sfugge o in tutto o in parte ciò che esce dal modo di vedere o di sentire più comune. Come al tempo nostro il razionalismo filosofico ed il romanticismo nella cultura, e lo spettacolo delle grandi lotte per le ricostituzioni nazionali hanno, elevando gli spiriti e la coscienza, prodotto un modo generale di vedere e di giudicare nobilmente, per il quale non scorgiamo negli uomini della storia del nostro tempo che grandi o generosi ideali, e quasi non guardiamo in èssi gli altri moventi umani, pur sempre operanti; cosi, nel principio del secolo decimosesto in Italia, lo spettacolo già lungo e continuo di guerre permanenti e di permanenti intrighi, che non avevano che a scopo interessi ed ambizioni personali o di famiglia, aveva creato tale una coscienza di giudizio generale, che impediva di vedere o riconoscere moventi, che da siffatte ambizioni ed interessi personali si scostassero, anche soltanto in parte. E di ciò è prova massima, ed altamente caratteristica, per quel che riguarda Leone, il giudizio di Francesco Guicciardini, quando esprimeva la sua ingenua e viva meraviglia, che il papa Medici, morti i parenti, continuasse, anzi facesse più viva la politica d’ingrandimento dello Stato. E la maraviglia del grande storico è anche una indiretta confessione dell’errore, nel quale, senza rendersene conto, egli, come gli altri spettatori, erano sino allora stati rispetto al movente principale della politica di Leone. «Conservavasi adunque Italia in pace», dice egli al principio del capitolo v del libro XIII, «per queste cagioni; benchè nella fine di questo medesimo anno il pontefice tentasse d’occupare la città di Ferrara non con armi manifeste ma con Insidie. Perchè se bene si fosse creduto che per la morte di Lorenzo suo nipote, mancando alla casa sua più presto uomini, che Stati, avesse levato il pensiero dalla occupazione di Ferrara, alla quale aveva prima sempre aspirato; non di meno o stimolato dall’odio conceputo contro a quel duca, o dalla cupidità di pareggiare, o almanco approssimarsi quanto più poteva alla gloria di Giulio, non aveva per la morte del fratello e del nipote rimesso parte alcuna di questo ardore: donde che facilmente si può comprendere, che l’ambizione dei sacerdoti non ha maggior fomento che da sè stessa». E la verità sulla politica di Leone è quella che l’evidenza dei fatti faceva, contro il proprio naturale preconcetto, intravedere allo storico profondo, e che è riassunta nelle ultime sue parole. Il fomento principalissimo della politica di Leone fu infatti sempre «l’ambizione sacerdotale», la conservazione della indipendenza e la potenza temporale della Santa Sede. Al qual fine noi possiamo oggi da lungi vedere chiaramente com’egli si sforzasse, con due mezzi, non escogitati di certo dalla mente sua, ma da lui adoperati con sagacia finissima e costante in una delle epoche più difficili della vita del papato: il primo, che gli veniva indicato dalla tradizione antica e costante della politica papale, e che stava nell’impedimento all’affermazione della preponderanza di qualsiasi Stato in Italia, straniero od italiano; il secondo, frutto della mente di Giulio II, e che consisteva nel consolidamento e nell’ingrandimento dello Stato della Chiesa.
- Roma, maggio 1893.
Note
- ↑ Atti del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, to. IV, ser. VII, pp. 748-53.
- ↑ Come osservazione al tutto accessoria io devo aggiungere, che, appena conosciuta a Roma il 21 gennaio la morte di Massimiliano, le sollecitazioni per la firma del trattato con Francesco I cessarono: premurosissima la lettera del 19 gennaio, tacciono invece del tutto, a questo riguardo, le lettere al Bibbiena del 27 e del 30. Del fatto può essere stata causa o qualche lettera del nunzio, che dava per certa e prossima la ratifica da parte di Francesco I, oppure - come parrebbe più probabile dalle poche parole accordate al fatto dell’avvenuta conclusione del trattato nella lettera del 5 febbraio - l’essere il papa e la cancelleria dopo il 21 tutti presi, quasi esclusivamente, dal pensiero della questione elettorale: ma nell’uno e nell’altro caso verrebbe esclusa la ragione sufficiente, per la quale l’istruzione al cardinale di S. Sisto sarebbe stata confezionata per renderla ostensibile a Francesco I ed indurlo alla firma del trattato. Infine, per rispondere ad un altro dubbio del De Leva, risulta dalla lettera del 5 febbraio che il corriere di Francia, apportatore delle lettere del 20 gennaio e del trattato firmato dal re, giunse in Roma soltanto la mattina del 4.
- ↑ Colgo questa occasione per correggere due errori, nei quali, come già altri prima di me, sono incorso, attribuendo a Baldassarre Castiglione tanto la prima missione di Leone a Carlo dopo l'elezione e la relativa lettera, p. 237-9, quanto una seconda lettera da Colonia, dell’ottobre 1520, p. 367. Il professore Cian (Giornale storico della letteratura italiana, 1892, p. 421) ha dimostrato evidentemente l’errore di credere quelle due lettere fattura dell’autore del Cortegiano. Resta ancora del tutto ignoto chi fosse l’inviato da Leone a Carlo subito dopo l’elezione
- ↑ Deutsche Litteraturzeitung, 1893, pp. 13-15.
- ↑ Archivio Veneto, ser. II, vol. XXX-XXXI.
- ↑ Giornale storico della letteratura italiana, 1892, pp. 416-21.
- Testi in cui è citato Papa Leone X
- Testi in cui è citato Giuseppe De Leva
- Testi in cui è citato Francesco I di Francia
- Testi in cui è citato Carlo V d'Asburgo
- Pagine con link a Wikipedia
- Testi in cui è citato Paolo Giovio
- Testi in cui è citato Francesco Guicciardini
- Testi in cui è citato Vittorio Cian
- Testi in cui è citato Pietro Bembo
- Testi in cui è citato Luigi XII di Francia
- Testi in cui è citato Papa Clemente VII
- Testi in cui è citato Giuliano de' Medici, duca di Nemours
- Testi in cui è citato Francesco Vettori
- Testi in cui è citato Francesco Saverio Nitti
- Testi in cui è citato Bernardo Dovizi da Bibbiena
- Testi in cui è citato Baldassarre Castiglione
- Testi in cui è citato il testo Il libro del Cortegiano
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