Ettore Fieramosca/Capitolo X

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Capitolo X

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Capitolo X.


Il lettore avrà senza dubbio indovinato che lo spettro non era altri che il capo squadra Boscherino.

Gli rimane a sapere come la banda de’ venturieri si fosse trovata pronta per turbare la frode ordita da D. Michele. Il fatto stava a questo modo.

D. Litterio aveva una fante bella e fresca, per cagion della quale si potea muover dubbii sull’illibatezza della sua fede coniugale. Questa giovane dando retta ai sospiri quinquagenari del padrone, non era però sorda a quelli d’un ragazzo di stalla che serviva in casa. Per la catena di questo amore, il segreto del podestà, che doveva quella notte andar a cavar un tesoro, venne scendendo fino allo stalliere. Questi aveva amici alcuni uomini della banda di Pietraccio (tale era il nome di quel masnadiere) ed aggiustò le cose in modo che se il tesoro si trovava, venisse almeno in parte nella sua borsa, invece di discendere intero in quella del suo padrone.

Ora innanzi che noi torniamo a D. Michele è necessario che il lettore abbia notizia dei luoghi ove accaddero i fatti che siamo per narrare.

Sulla testa del ponte pel quale si giunse all’isoletta di S. Orsola, era eretta una torre quadrata massiccia, simile a un dipresso a quella che trova sul ponte Lamentano chi da Roma voglia andare in Sabina. Il passo era chiuso da una grossa porta, da una saracinesca che si lasciava cadere al bisogno, e da un ponte levatoio. Si saliva per una scala a chiocciola ai due piani superiori ov’erano alloggiati il comandante ed i soldati, e in cima v’era un terrazzo [p. 124 modifica]circondato da merli, fra i quali si vedevano uscire le bocche di due falconetti.

La badessa del monastero, rivestita dei diritti baronali, vi teneva alla guardia una compagnia di ottanta fanti fra picche ed archibusi, guidata da un tal Martino Schvarzenbach tedesco, soldato di ventura, il quale trovava più comodo lo starsi a grattar la pancia in quella torre ben pagato e meglio pasciuto, che l’andar tribolando la vita sua in campagna ed in guerra, ove avea conosciuto che il diletto di malmenare e svaligiare i popoli, era spesso turbato dalla palla d’un archibugio o della punta di una partigiana. Le sue tre passioni dominanti erano lo star lontano dalle busse, il rubare, ed il bere tanto vin di Puglia quanto ne poteva capire il suo stomaco, che su questo particolare aveva poco da invidiare a una botte.

Queste sue inclinazioni gli si leggevano in viso; le due prime, in un par d’occhi pieni ugualmente d’avidità e di codardia, l’ultima, in un vermiglio vivissimo, che lasciando pallido il resto del volto si concentrava tutto sulle gote e sul naso. Barba rada e del color di quella d’un becco, labbra pavonazze, ed un corpo che sarebbe stato atto a reggere alle fatiche della milizia se gli stravizzi non l’avessero a quarant’anni ridotto floscio e spossato, come avrebbe potuto esserlo a settanta.

L’ufficio di costui si riduceva a chiuder la porta la sera. Gli eserciti che guerreggiavano ne’ contorni non aveano mire ostili contra il monastero, onde non era da guardarsi da loro. Le bande de’ venturieri che scorrevano il paese non avrebbero osato assalire ottanta uomini chiusi in una buona torre con due falconetti. Ma v’era poi un altro motivo che lasciava dormir sonni tranquilli a Martino Schvarzenbach quantunque circondato da costoro. Egli s’era condotto colla badessa per guardare il monastero, ma non si [p. 125 modifica]credeva perciò egualmente obbligato ad esser il custode ed il difensore de’ ducati, dei fiorini, e dell’avere degli abitanti di quel contado o di chi passava per esso. Come però alla scoperta non poteva andare a pescare nelle borse altrui, aveva (per servirci d’una voce moderna) preso un carato nella mercanzia esercitata da Pietraccio, e gli faceva spalla ajutandolo co’ suoi quando l’impresa lo domandava; nascondeva danari, robe e persone eziandio ove fossero tali da poterne sperare una grossa taglia.

Queste operazioni si facevano con tali cautele che le persone offese a tutti avrebbero data la colpa fuorchè a Martino che era soltanto riputato il primo bevitore del paese.

In mano di costui era incappato D. Michele, il quale aveva passata la notte fantasticando senza mai poter indovinare ove fosse. Alla prim’alba sentì tre colpi di artiglieria, quali si usavano sparare ogni mattina dalla rôcca di Barletta; s’ajutò alla meglio, e giunse ad arrampicarsi alla feritoja dalla quale entrava il lume, ma lo spiraglio era coperto in modo dall’edera che non si vedeva per quello altro che un picciol tratto di mare. Soprastato così un poco, venne a passare un battello pieno d’ortaglie, e conobbe quello che lo conduceva per l’ortolano di S. Orsola; allora fu quasi certo di trovarsi nel fondo della torre che ne difendeva l’entrata.

Appena sceso dal luogo della sua scoperta, s’aprì la prigione, e ne fu tratto da due robusti mascalzoni che lo fecero salire nella camera del capitano.

S’era questi alzato di poco e stava di tutto scinto a sedere sulla sponda del suo lettuccio avanti ad una tavola coperta ancora in disordine degli avanzi d’una gozzoviglia. Un rastrello che girava tutt’intorno al muro era guarnito di picche, d’archibugi a forcina, di petti di ferro e d’altre armature. Guardò D. [p. 126 modifica]Michele, che entrava, con un occhio che pareva stentasse a sollevare la palpebra rugosa e cadente che lo copriva, e facendo col tacco d’uno degli stivaletti la battuta sul pavimento, gli disse:

— Devi sapere, Messer tu, chè non so come ti chiami, che chi passa la notte alla mia osteria paga cento fiorini d’oro da dieci lire della zecca di Firenze, o se gli par meglio, di quella di S. Marco. Altrimenti una corda ed un sasso al collo ed un bagno in mare lo salvano dal pagar lo scotto. Che cosa ami meglio?

— Quel che sarà meglio per me non lo sarà per te, rispose D. Michele sostenuto: Jer sera prendeste noi due, ma non eravamo soli nella chiesetta. V’era chi non avete veduto, ed ha visto voi, e ti conosce, ed a quest’ora in Barletta si sanno le vostre ribalderie, e presto il bagno in mare toccherà a te a farlo, e non a me, se pure non trovassi il modo d’impedire a tre o quattrocento Catalani o Stradiotti di buttar giù a calci la porta di questa torre, o potessi indurli ad impiccarti ad un merlo, invece di farti far pace coll’acqua, che, da quel che vedo, assaggeresti per la prima volta.

Quest’idea gli venne suggerita dalla vista di un mezzo barile, che il tedesco si tenea a capo al letto invece di santi e di croce.

La replica in tuono così alto fece rizzar la punta al Conestabile che tirandosi la berretta sugli occhi, disse:

— Se pensi d’aver a fare con un ragazzo, e spaventarmi colle tue bravate, prima t’avverto che non ti credo, poi se anche venissero i tuoi Albanesi o chi diavolo hai detto, ho il modo di non temere nè loro, nè il mare, nè il merlo.... e non so chi mi tiene che non vi ti faccia attaccar per la canna ora proprio. Ma amo ancor meglio il suono de’ tuoi fiorini, che il [p. 127 modifica]gracchiar de’ corvi che verrebbero a beccarti gli occhi. Dunque a noi, veniamo al fatto: qui v’è da scrivere: fai che venga il danaro, poi va col tuo malanno dove ti pare.

D. Michele senz’affrettarsi a rispondere, lo guardava col ghigno di chi non temendo nulla per sè sta infra due se debba prender la cosa in canzone o sul serio. La stizza del capitano stava per mostrarsi, e forse più che con parole, ma venne prima la risposta:

— Conestabile, i fiorini ti piacciono, il vino non ti dispiace, devi essere un buon compagno. Già il buon soldato vuol esser così, birbo, ghiottone, e poca divozione. Ora, chi diavolo t’insegna a far il cattivo? Senti, voglio che siamo amici. È vero che m’avresti a pagar la nottata che m’hai fatto passare; e se non fosse.... basta te la perdono, ed invece voglio farti guadagnare.... Qui si volse guardando i due che l’avean condotto e che ancora lo tenevano per le braccia. Dite, ragazzi, non avete da far niente, che mi state alle coste come i ladroni a nostro Signore? Va, bello mio, disse svincolandosi da uno e dandogli per ischerzo della mano in sul viso; e liberatosi dall’altro nello stesso modo: Va, va anche tu, non serve, mi reggo da me. Andate a tener d’occhio intanto se compar nessuno sulla strada di Barletta. Quanto ci vuole a dir due parole qui a Sua Signoria! Già vedete che non ho arme accanto, e non fo conto d’inghiottirlo a digiuno; diavolo! ci vorrebbe uno stomaco peggio del vostro.

I soldati che non meno di Martino si stupivano di tanta disinvoltura, guardarono in viso al loro padrone per veder che cosa pensasse. Egli accennò di sì col capo, ed uscirono. Ma trovandosi solo con D. Michele stimò prudente l’alzarsi in piedi, e tenersi a portata della sua spada.

— Conestabile! m’hai domandato cento fiorini per [p. 128 modifica]mio riscatto: non credevo di valer tanto poco, e per insegnarti a stimar i pari miei te ne darò dugento! (il Tedesco spalancava gli occhi, e gli veniva l’acqua alla bocca); sì, dugento, e poi questo non sarebbe niente.... Se m’avessi faccia di saper servire con accortezza e fede.... ti vorrei far una sorte da farti maravigliare, eh! ma è inutile; bisognerebbe essere svelto, saper parlare, tacere a tempo, insomma non aver quel viso di pastinaca, e quegli occhi spenti che pajon pappa coll’olio.

Martino al veder tanta sicurezza credeva di sognare, e gli passavan per la mente mille idee di aver forse in suo potere qualche principe o qualche gran personaggio travestito; ma non potendo fissarsi su di nessuna, e mal soffrendo di vedersi poco rispettato nella sua reggia, rispose:

— Ma in nome di Dio, o del diavolo che vi porti, chi siete? che cosa volete? Parlate che sono stufo, e non sono il buffone di nessuno.

— Piano, piano, e colle buone, chè se la mi salta, non vi dico più altro, e peggio per voi. Sappiate dunque....

Un soldato, che entrò, interruppe D. Michele dicendo:

— Conestabile! si vede un polverio sulla strada verso Barletta, paion cavalleggieri, almeno così dice Sandro, che ci vede più di tutti.

Il Tedesco si scosse, guardò il suo prigione, che ridendo maliziosamente disse:

— Io ve l’aveva detto. Ma non abbiate paura. Giudizio! e la finirà bene. Va, disse poi al soldato, e, se v’è nulla di nuovo, avviserai. Dunque, come dicevo, dovete sapere che qui nel monastero v’è una persona tenutavi da tali che non occorre mentovare, la quale amerebbe meglio andar pel mondo a godersela senza aver sempre fra piedi moccoli e croci. Qui si tratta [p. 129 modifica]di lavorar pulito. Se una notte o l’altra venisse una barca con cinque o sei giovanotti a levarla, ed il conestabile sentisse abbajar qualche cane, o qualche voce sottile gridar misericordia (giacchè lo sai, le donne gridano due ore prima che si tocchino) non se ne sturbi, pensi che è stato un sogno, si rivolti dall’altra parte e seguiti a russare, e questo poco servigio gli porterà, come venissero dal cielo, cinquecento zecchini nuovi della zecca di S. Marco, o se vorrà di quella del giglio, e poi, forse una condotta migliore di quella che ha al presente con queste bacchettone. Il povero Martino, che fra tanti vizii aveva pure una buona qualità, quella d’esser fedele a chi lo pagava, assalito da una tale offerta si vide in procinto di perderla. Ma la legge che non vi dev’essere al mondo cosa nè assolutamente buona, nè assolutamente cattiva, lo salvò dal totale naufragio, e rispose coll’intenzione di mostrarsi offeso; tuttavia le sue parole sonavano piuttosto rammarico che collera:

— Martino Schvarzenbach ha servito Milano, Venezia e l’imperatore il tempo delle sue condotte, e non ha mai tradito nessuno. La badessa di S. Orsola l’ha pagato a tutto dicembre del 1503. Se Vostra Signoria è qualche.... che so io.... qualche signore.... oppure fa gente per qualche principe italiano e volete condurmi: bene, discorriamola; vi farò veder la compagnia; son cinquanta picche, e trenta scoppietti tutti dai venti ai quarant’anni, e per gli arnesi vedrete se manca l’ardiglione d’una fibbia. Se restiamo d’accordo, al 1.° di gennajo del 1504 verremo, se vi pare, a dar l’assalto al monastero, e le porteremo via tutte fino alla cuoca. Ma prima di quel tempo, finchè mi resta una carica di polvere, ed una lama di pugnale, nessuno toccherà un capello alle monache nè all’ultima conversa.

— E voi, ser Martino, credete che non sappia qual [p. 130 modifica]è il dovere d’un par vostro? Credete che avrei faccia di proporvi una ribalderia come codesta? Non mi conoscete. La persona di cui si tratta, non è nè monaca nè conversa, ed ha tanto che fare col monastero quanto ci ha che fare il mezzo barile che vi tenete al fiato: Dio vi benedica! e ben si vede che siete un uomo dabbene, e sapete che quando si può andar a bell’agio, è matto chi corre; quando si può dormir al coperto con mezzo bicchier di buon greco, è pazzo chi dorme alla frasca, a stomaco freddo; e chi può guadagnarsi cinquecento fiorini senza una fatica, coll’onor del mondo, e colla grazia di Dio, deve pensare che queste fortune non cascano in bocca ogni giorno come i fichi fiori.... Ora se volete far senno sarem d’accordo, e risolvete, chè questi cavalleggieri non dovrebbero tardar molto.

La virtù di Martino, come quella della maggior parte de’ galantuomini, era capace di transazione, onde rispose:

— Quando non si trattasse di monache, sarebbe un altro discorso.

Mentre D. Michele, pensando se dovesse allora svelar a Martino qual era la donna che intendeva rapire, soprastava alquanto prima di parlare, una mischia insorta all’uscio della camera fra due soldati ed una vecchia interruppe il loro ragionamento.

— C’è il diavolo che ti strangoli, gobba maladetta; c’è chi ci dev’essere, ed il Conestabile ha altro in tasca che dar retta a te.

Così gridava uno di que’ soldati, tentando di impedir l’ingresso ad una vecchia di picciola statura, scrignuta e con due occhi di madreperla orlati di scarlatto. Era più che mezza entrata, ma il soldato la teneva ancora afferrata dove il collo s’attacca al busto tirando la pelle in modo che le torceva la bocca tre dita da quella parte. La vecchia dette nella mano che [p. 131 modifica]la teneva una graffiata con certe ugne d’acciajo, e fu di qualità da farsi tosto lasciar libera, e cadendo come una molla scoccata addosso a D. Michele, al quale s’attenne, scansò un pugno mandatole dietro, che se la coglieva, poveretta lei.

— Piglia su, figlia d’un canonico, diceva volta al soldato che, succhiando il sangue della graffiatura, guardava la vecchia come il mastino guarda il gatto che gli ha pettinato il grifo: piglia su, e se ti ci provi un’altra volta, avrai peggio.

— E tu, brutta strega, riprovati a venir quando son di guardia.... Sandro mio sia benedetto (e queste parole le diceva ripiegando il labbro inferiore indietro sui denti per imitar la voce della vecchia) lasciami entrare in monastero.... appena un momento che faccia motto alla forestiera, che mi dia un po’ di fila per Scannaprete che è ferito, un po’ di polvere per Paciocco che ha la febbre.... Un po’ di canchero (rifece la voce naturale) che ti strozzasse te e chi ti manda! Torna, torna, e ci avrai gusto. Mi possano strappar la lingua dalle canne, come il Valenza, che Dio gli dia bene, la fece strappare al ribaldo del tuo padrone, se non ti mando coll’orazion che ti meriti, strega della notte di San Giovanni.

La vecchia avrebbe avuto materia per rispondere e non infrangere una delle leggi fondamentali del codice femminile, quella d’esser sempre l’ultima a parlare: ma avea fretta di dir cose che importavano, onde volse le reni a Sandro con quell’atto di scherno che si può più immaginare che descrivere.

— Se non ci mettete le mani voi (parlava al Conestabile) vuole esser un bel ballo: su alla macchia è stato l’inferno stanotte. Son tornati gli uomini, che mancava un’ora a giorno. Conducevano quel brutto cristiano che prendeste ier sera.... Vergine! pareva un morto di tre giorni. Ma gli è durata poco la [p. 132 modifica]paura. Pietraccio l’ha sparato come un capretto da latte.

— Come? disser ser Martino e D. Michele, parlando tutt’e due in una volta: Hanno ammazzato il podestà? perchè? dove? come?....

— Che volete che vi dica? Vergine mia benedetta! Pietraccio voleva fargli capire che pagasse non so quanti ducati di taglia: e già, sapete senza lingua come s’ha da far intendere? Quello stava cogli occhi fissi, invetriti, più di là che di qua. Allora il padrone gli scrisse ciò che occorreva sur un foglio, voleva che lo leggesse. Peggio. Pareva la statua di s. Rocco alla cappelletta di Belfiore. Pietraccio allora tre o quattro ceffatoni sul viso, ma di quelli! Non vi fu verso. Alla fine la gli è saltata....... e sapete quando la gli salta!..... Il coltello a soprammano qui alla bocca dello stomaco e giù, giù, giù l’ha scucito fin sotto la cintola (già pel coltello non c’è che dire, bisogna lasciarlo stare; fa vergogna agli uomini vecchi). Insomma che volete? è un ragazzaccio: gliel’ho detto tante volte alla madre: Ghita! il ragazzo s’avvezza troppo fastidioso colle mani.... ma non gli si può metter giudizio. — Queste nuove ed il modo di raccontarle colpirono, quantunque per motivi diversi, i due ascoltatori, sicchè non trovaron parole per rispondere.

Seguitava la vecchia. — Insomma ora finisco e me ne vado, che ancora sono in piedi da ieri. Ci eravamo messi per dormire un’ora; ecco Cocco d’Oro correndo: Su, su presto, il Bargello, la corte!... Ci alziamo: che volete? stavano già sotto Malagrotta e venivano per le poste: noi a gambe su per la montagna. Ora sono tutti chiusi nella grotta di Focognano senza un pane e un sorso d’acqua, e per la macchia saranno da 200 fra birri e soldati; e Dio faccia che qualcuno degli uomini non abbia la mancia prima delle feste. Dunque su, fate presto, cercate la via di [p. 133 modifica]rimediare.... Avranno trovato il podestà ammazzato.... Vergine! che precipizio vuol essere! — E, dice Ghita, di non vi scordare che lassù non c’è da rodere, e perciò subito che potete mandategliene.

Al fine di queste parole vide sulla tavola gli avanzi della cena e, presili con prestezza e senza domandar licenza, si empiè il grembiule di tozzi, di pezzi di carne, di frutta; versò in una zucca che portava a tracolla il vino che restava: bevve quello che non vi potè capire, e forbendosi la bocca col dosso della mano, se n’andò, data una spinta a Sandro per levarselo d’innanzi, senza dire a quei due nè asino nè bestia.

Martino si trovava con troppi affari in una volta, e la sua testa non vi reggeva. Con una mano alla barba e l’altra dietro le reni, camminava per la camera scuotendo il capo e soffiando. La subita mossa delle genti da Barletta l’ammoniva a prestar fede a D. Michele, che l’aveva preveduta tanto sicuramente, e gli facea pensare che fosse realmente quell’uomo d’alto affare che diceva.

Prima di tutto decise d’aggiustarla con lui, onde non lo scoprisse quando capitasser quelli che andavano in traccia degli uccisori del podestà. Così, deposta ogni superbia, e mezzo raccomandandosi, gli disse che l’avesse per cosa sua, promettendogli che l’avrebbe ajutato nella sua impresa.

Appena terminato quest’accordo si sentì lo scalpitar di molti cavalli che entravano pel ponte, ed una voce chiara e forte come una tromba, che chiamò più volte il Conestabile Schvarzenbach! — Scese questi, e trovò che Fieramosca e Fanfulla da Lodi lo aspettavano alla testa di molti cavalleggieri.

Il lettore si ricorderà forse d’aver veduto il secondo annoverato fra i campioni italiani.

Fra quanta gente d’arme contasse l’Italia non v’era l’anima più disperata di costui. Per ogni leggiera [p. 134 modifica]cagione, e senza cagione più spesso metteva la vita a qualunque rischio. Senza pensieri non attendeva che a darsi buon tempo ed al bisogno menar le mani. Agile come un leopardo, tutto nervo, e d’un corpo snello e ben complesso, pareva che la natura, sapendo che in quello doveva abitare un’anima temeraria sino alla pazzia, avesse avuto cura di formarlo in modo che potesse essere atto a resistere alle prove più perigliose. Figlio d’un uomo di Girolamo Riario, s’era trovato fra l’armi fin dall’infanzia, ed era stato al soldo di tutti gli Stati d’Italia, perchè ora per risse, ora per disubbidienze, ora per propria circostanza sempre gli toccava andar in traccia di nuovi padroni. I Fiorentini erano stati gli ultimi, e s’era fuggito da loro per questo fatto.

Stando a capo alle mura di Pisa fu dato un assalto, nel quale, se Paolo Vitelli, capitano per la Repubblica, non avesse fatto sonare a raccolta e rattenuti, perfino colle ferite, i soldati fiorentini che erano pieni d’ardire nel seguire il primo vantaggio, Pisa al certo si prendeva quel giorno (e la condotta del Vitelli tacciata a Firenze di tradimento fu poi, come ognun sa, la cagione della sua morte) Fanfulla sempre alla testa de’ primi era giunto su per una scala ad abbracciar un merlo, rotando la spada s’era fatto largo; già stava sul muro e tanto menava colpi, stoccate e botte da disperato che per poco gli altri avrebbero avuto campo a seguirlo.

In questa si suona a raccolta ed è lasciato solo. Non si poteva dar pace di doversi ritirare, pure scese fremendo, mugghiando per la rabbia fra una tempesta di dardi, sassi, archibugiate che non gli fecero un male al mondo, e sano e salvo tornò al campo correndo come un pazzo e dicendo villania a quanti incontrava. Nel padiglione del capitano erano i commissarj fiorentini col Vitelli a consiglio: saltò Fanfulla [p. 135 modifica]invelenito in mezzo a loro, e chiamandoli traditori, cominciò con un bastone che avea raccolto a scaricar su tutti senza guardar nè a chi, nè come, nè dove, una grandine di legnate e calci e spinte e pugni, e tra che egli era robustissimo, tra che quelli non se l’aspettavano, li mise in tanto scompiglio, che si trovarono in terra malmenati e sottosopra, prima che potessero conoscere chi fosse l’autore di quella bussa.

Dopo una tale impresa, senza dir addio, come si può pensare, saltò a cavallo, ed era già lontano dal campo quando quei capi rimessisi in piedi pensarono a farlo pigliare.

Lasciati così i Fiorentini s’era condotto con Prospero Colonna, ed ora si trovava in Barletta col resto della compagnia.

L’avviso recatovi da Boscherino che il Podestà era stato preso dai venturieri, dato in modo che non cadessero sospetti sopra di lui, avea messo in moto il bargello colla sbirraglia di Barletta, i quali s’erano drizzati verso la montagna. Fieramosca e Fanfulla con alcuni cavalli gli eran venuti seguitando, e, mandata innanzi la corte, s’eran fermati a guardar lo sbocco della valle ov’è posta la chiesetta.

Ricevettero dalle mani de’ birri due prigioni che avean avuto con gran fatica, e li condussero alla torre ove comandava Martino Schvarzenbach.

Quando questi scese sotto il portone, i due sciagurati stavano in mezzo ai soldati aspettando venisse aperta la prigione. L’uno era il capobanda Pietraccio, giovane feroce, di membra e d’aspetto come un selvaggio, con un ciuffo scompigliato di capelli rossicci che gli cadeva sugli occhi, e le braccia nude, lorde ancora del sangue del podestà, strette sul petto da una corda che entrava nelle carni, avea lo sguardo basso e smarrito del lupo colto nel laccio. L’altra era una donna alta di statura, di belle forme; il [p. 136 modifica]travaglio però, l’uso dei delitti, la disperazione in che la metteva il suo stato presente, la facean parere maggior d’anni che non era realmente. Una ferita toccata nel capo mentre si difendeva, le avea tolto di venir quivi altrimenti che sulle braccia di due soldati. La lasciarono giù sul lastrico, ed in quella scossa il rinnovato dolore della ferita le fece aprir gli occhi e mandar un gemito profondo, mentre il sangue sgorgandole dalla fronte le imbrattava il volto ed il petto. Il carcere ov’era stato D. Michele venne aperto, e vi fu gettata con Pietraccio, così legati com’erano.

Sbrigatisi da costoro, i soldati tornarono verso la macchia, se mai vi fosse da raccoglier altri prigioni. Fanfulla salì nella camera del Conestabile, ed Ettore profittò di quel ritaglio di tempo per andare alla foresteria.

Le due donne, che non l’aspettavano a quell’ora, rimasero nel vederlo, e dopo le prime accoglienze udirono le cagioni che l’avean condotto al monastero. Narrando la caccia data ai malandrini, disse loro che insieme col capo era stata presa una donna, la quale, fatta testa all’entrata d’una grotta ov’erano appiattati, avea feriti parecchi birri, finchè da una roncolata sul capo era stata buttata in terra.

Ginevra, commossa dalla sventura di costoro, volle andare a soccorrerli. S’alzò, e prese ciò che stimava opportuno da un suo armadio ove teneva più qualità di polveri e d’unguenti, che eran, come abbiamo veduto, stati tal volta adoperati anche in servigio degli stessi assassini, pregò Fieramosca andasse dal Conestabile per la chiave della prigione.

Si mosse questi, e per la scala a chiocciola salito alla camera di Martino, vi sentiva nell’avvicinarsi all’uscio uno stropicciar di piedi del quale non riusciva a capir la causa. Spinta la porta che era socchiusa, vide Fanfulla nel mezzo con uno spadone a due mani [p. 137 modifica]che avea tolto da un rastrello, giocando con esso come fosse un bastoncino. Si schermiva, facea mulinelli, tirava stoccate, calava fendenti con tanta velocità che la spada si vedeva appena in aria coma una nebbia, e se avesse avuto a difendersi contra un esercito non avrebbe fatto altrimenti. Ettore, che era per entrare, si rattenne sul piè di dietro per non toccar qualche sfregio, e guardava sorridendo questa pazza giostra che l’altro seguitava non accorgendosi di essere veduto. I colpi che ora tirava all’aria, pareva per disgrazia del padrone di casa, che non fossero andati sempre a vuoto. Fosse sbaglio o malizia, uno di essi aveva terminato i lunghi servigi del mezzo barile che giaceva sotto il letto diviso in due parti come una noce, ed il liquido che conteneva s’andava livellando nella parte più bassa del pavimento.

— Il vin santo si svina tardi quest’anno, disse alla fine ridendo Fieramosca: e Fanfulla, voltatosi alla voce, lasciò cadersi ai piedi lo spadone, e si gettò rovescio sul letto con tante risa e tanto schiamazzo che pareva impazzato.

— Che diavolo hai fatto, pazzo da catena? Guardate! guardate! è mezz’ora che siam arrivati, ed ha fatto più danni che un terzo di Catalani in una settimana.... E Martino dov’è?

Fanfulla finalmente si racchetò e disse:

— Era qui poco fa: e’ diceva che lo spadone a due mani non lo sanno adoperare altri che gli Svizzeri e i Tedeschi; ed io gli ho risposto ch’ei diceva il vero, e l’ho pregato m’insegnasse un poco, e provandomi il meglio ch’io sapevo m’è venuta fatta un’intacca al barilozzo (impiccato sia se l’ho fatto apposta); ed egli si è crucciato da maledetto senno. Guarda che uomo bestiale!..... non vuol compatir niente! e lo sapeva pure che noi poveri Italiani non sappiamo tener la spada in mano! Insomma abbiam avute di [p. 138 modifica]sconce parole, e s’è partito giurando e bravando. Com’avresti fatto? Senza curare di pigliarla con uno schermidore a par suo, gli ho mandato un cancher alla lombarda, e gli ho detto: Se volete scender nel prato avanti la torre, vi farò una tacca alla vostra zucca tedesca per mostrarvi che quella del barilozzo è stata per isbaglio.

— E lui che cos’ha risposto?

— Che me gli levassi d’attorno, che l’avevo fradicio.

E finir queste parole, e voltolarsi sul letto ridendo, e mandando per aria ciò che v’era, fu tutta una cosa. Il fatto stava appunto in questi termini; ed il capitano non curandosi d’aver che fare con questo diavolo, dall’altra parte trafitto all’anima per la perdita del suo vino, era salito bestemmiando in tedesco su d’un palcaccio al secondo piano ove s’era nascosto D. Michele. Da quella sua fortezza udendo la relazione di Fanfulla alzava la voce tratto tratto per dirgli villania alla quale questi rispondeva con altrettanta in forma di parentesi pur seguitando il racconto.

Fieramosca che non aveva l’animo a questi scherzi, entrato di mezzo, non senza gran fatica li mise d’accordo. Martino scese, Fanfulla se ne andò ridendo, ed Ettore che anch’esso durava fatica a non ridere, vedendo il Tedesco che contemplava le due parti del suo barile coll’occhio d’un avaro che trovi lo scrigno aperto e vuoto, espose il desiderio di Ginevra d’entrare nella prigione, e con buone parole domandò gli venisse aperta.

Il Conestabile intanto avea rizzati i due pezzi del barilozzo, e con un panno che a modo di spugna andava inzuppando e poi spremendo con diligenza ne’ recipienti, procurava salvar le reliquie della sua sconfitta. Intesa la voglia di Ginevra, diceva brontolando:

— Ecco! gli assassini trovano chi li soccorre, e un povero uomo che se ne sta pe’ fatti suoi, e non [p. 139 modifica]fa male nemmeno al pane, trova i matti che gli mandano a sacco la casa.

— Ser Martino mio avete cento ragioni; ma vedete ch’io non ci ho che far niente.

— Sta a vedere che ci avrò che far io; sono andato io a pregarli che venissero a darsi buon tempo in casa mia!

Fieramosca instava.

— Bene, bene, tornate fra mezz’ora, entrerete in prigione.... Che ci possiate morir tutti, disse fra denti, ma Fieramosca era già a mezza scala, e non lo potè udire.