Ettore Fieramosca/Capitolo XII

Da Wikisource.
Capitolo XII

../Capitolo XI ../Capitolo XIII IncludiIntestazione 30 novembre 2023 100% letteratura

Capitolo XI Capitolo XIII


[p. 150 modifica]

Capitolo XII.


Ritornata la comitiva in Barletta scavalcò alla rôcca. I nuovi ospiti vennero allogati nelle migliori stanze, e, scioltosi il corteggio, ognuno si preparò alle cacce ed alle giostre che dovevano aver luogo nella giornata.

Sulla piazza era stato eretto uno steccato con gradinate e palchi di legname all’intorno, ornati quanto più s’era potuto, ed in certi rimessini appropriati a tal uso si guardavano da più giorni tori, giovenchi e bufali selvaggi destinati allo spettacolo allora tanto gradito agli Italiani, ed al quale non isdegnavano prender parte i primi fra i signori. In questo luogo medesimo, che era sterrato e ben adatto, doveva seguire la giostra; onde già era pieno di popolo in ogni parte, ed i tetti, le finestre, tutti i luoghi elevati si vedevano guerniti di spettatori. I sergenti ed i donzelli con farsetti a diversi colori, spazzata ed innaffiata la piazza, aspettarono l’arrivo di Consalvo.

Egli giunse ben tosto con tutti i suoi avendo alla destra il duca di Nemours ed alla sinistra D. Elvira. Fatto il giro dello steccato, smontò ad un palco più grande e meglio addobbato, ch’era in uno dei lati, e fra gli evviva e le grida che il popolo dona facilmente allo sfoggio delle vesti, all’oro, ed all’altre gale, sederono tutti, e fu dato il segno di lasciare il primo toro.

Il bisbiglio delle turbe, e le contese che in casi simili nascono fra gli spettatori dalla gara d’occupare i migliori posti cessarono all’aprirsi del rimessino. Si lanciò nell’arena un gran toro tutto nero il capo e le parti anteriori, colla groppa d’un bigio scuro: [p. 151 modifica]snodando la coda andò buon pezzo qua e là a salti, finchè, veduto che da quel luogo non era uscita, si fermò aggirando l’occhio sanguigno con sospetto e spargendo colle zampe d'avanti l’arena.

In quel mentre i visi e gli occhi di tutti si volsero verso un angolo della piazza al rumore cagionato dalla rissa di due uomini, della quale non si conosceva la cagione. Per farla nota al lettore ci conviene tornare alle donne di S. Orsola per un momento.

La sera, in cui Fieramosca annunziò loro ch’era stabilito il combattimento contra i Francesi, Ginevra non fu la sola che tremasse all’idea del pericolo cui egli si doveva esporre. Zoraide anch’essa ne rimase atterrita. Una natura altera ed animosa va spesso unita a cuore di difficile accesso; ma se alfine pur vi entra amore, quanta rovina! Essa non conobbe pace, nè riposo, nè sonno da quella sera. Passava i giorni sempre in un sol pensiero, sempre aggirandosi colla mente nelle medesime idee senza poter lasciarle, e neppur materialmente occuparsi di cosa alcuna di seguito; soltanto, ma per brevi momenti, sedeva al telaio lavorando ai ricami del mantello destinato ad Ettore, e, tosto alzandosi, passava le ore o seduta al balcone, e, senza che la sua mente v’avesse parte, veniva svellendo i pampini e le frondi che vi facean ombra, o talvolta usciva sollecita come dovendo far cosa che molto importasse, e poi, quasi dimenticata di sè, andava allentando il passo e si fermava cogli occhi volti al suolo sempre cercando esser sola, e fuggendo più di tutto gli sguardi della sua amica, che ogni momento le pareva dovesse scoprire ciò che più d’ogni altra cosa bramava tener segreto.

Ginevra per parte sua non era meno agitata di lei; e forse i contrasti ch’ella soffriva avevano cagioni anche più potenti e vaste. L’affetto ch’essa provava pel giovane italiano, prodotto e nutrito da una [p. 152 modifica]intrinsichezza antica, e dagli obblighi che gli aveva grandissimi, era fatto ora più intenso dal frangente in cui si trovavano, dall’idea che forse una morte gloriosa l’avrebbe troncato per sempre, e dal virtuoso rimorso (giacchè nulla più de' gravi ostacoli suole accender la mente ed il cuore) che l’ammoniva esser l'obbligo suo tentare ogni via per ritornar col marito, ed allontanarsi da quello che malgrado la loro scambievole virtù, la teneva su l’orlo del precipizio. Si ricordava d’aver promesso a Dio ed alla Santa del monastero di palesare ad Ettore la risoluzione presa di abbandonarlo: trovava scusa di non averlo fatto nel riflettere che il giorno in cui doveva annunziargliela le era venuto dicendo della sfida; ma sentiva pure dentro di sè che questa causa poteva farle perdonare una dilazione, non doveva però mai toglier l’esecuzione del tutto.

Oltre questi pensieri che già abbastanza la travagliavano, le era sorto nella mente un doloroso sospetto sul conto della sua amica. Le donne hanno un senso intimo, direi quasi un istinto, che le guida ad iscoprire l’amore anche quando più si cela nel fondo del cuore. Ginevra s’avvide presto che Zoraide non era più quella di prima. Indovinava anche troppo la cagione del suo cambiamento. Le due amiche passarono così alcuni giorni, ma non era più fra loro quell’amorevole e spensierata famigliarità di prima.

Intanto nel monastero fra l’ortolano Gennaro, le converse e gli uomini di monizione della torre non v’erano altri discorsi che delle feste si dovevan fare in Barletta, e chi v’andava alle volte per sue faccende, sempre tornava raccontando ciò che si preparava colà e che si diceva sulle allegrezze di quel giorno, tantochè venuta quella benedetta mattina, a riserva di coloro che assolutamente non potevano, gli altri se n’andarono sul far del giorno alla città per prender posto, e l’ortolano che, come tutti gli uomini meridionali, [p. 153 modifica]era pazzo per i divertimenti, messosi indosso i migliori panni ed al cappello un bel mazzetto, si disponeva entrare nel suo battello, che appena spuntava l’alba. Zoraide gli si fece incontro al sommo della scala che per pochi scalini scendeva al mare, ed era vestita con più cura che non parevan domandarlo il luogo e l’ora.

— Gennaro, disse: verrei con te a Barletta. Queste poche parole erano state pronunciate con una certa esitazione così nuova per Gennaro, avvezzo ad udirla parlar risoluto e tronco, che rimase un momento guardandola prima di rispondere che era padrona, ed era troppo onore per lui, e solo gli doleva non avere spazzato il battello e messo un panno onde stesse con maggior agio. — Ma ora torno; fo in un momento — disse, e voleva andare per le cose che gli occorrevano; Zoraide gli afferrò un braccio, e l’ortolano si sentì dare tale stretta che la guardò negli occhi, pensava fra sè; è impazzita, o spiritata costei?

La donzella aveva lasciata Ginevra ancor in letto, e non voleva entrare in ispiegazioni circa questa sua gita, che non poteva a meno di non parere strana essendo la prima volta che usciva dal monastero. Le sembrava ogni momento che si tardasse a partire veder comparire la sua amica.

Perciò con poche parole, e con voce di comando più che di preghiera affrettò l’ortolano a scendere, e fu da lui condotta alla città. Costui mentre remigava non ristette mai dal cicalare dicendo che l’avrebbe menata per tutto, che era amico del cameriere di Consalvo, e che nessuno meglio di lui avrebbe potuto trovarle luogo per goder delle feste. Giunsero sulla piazza al castello quando Consalvo e tutti i suoi coi baroni francesi s'avviavano ad incontrar donna Elvira; e le preghiere di Zoraide che non la lasciasse sola non valsero a trattener Gennaro dal seguir la [p. 154 modifica]cavalcata fra la polvere e gli urti della folla. Soltanto la condusse all’osteria di Veleno dicendole non dubitasse che tosto sarebbe tornato.

Trattenuto più che non pensava, osservò la sua promessa un po’ tardi, e quando volle venir con lei alla piazza per prender posto nei palchi, trovò tutto pieno di spettatori, e con un’occhiata s’accorse che non v’era speranza di situar sè e la sua compagna. Ora colle preghiere, ora coi gomiti aprendosi la strada fra il popolo che era affollato anche dietro i palchi, giunse pure a cacciarsi sotto uno di questi presso l’apertura per la quale entravano nell’arena i combattenti: ma da un tal luogo non vedeva altro che sopra il suo capo le gambe spenzolate degli spettatori, e si disperava d’essere stato guida sì poco accorta. Per sua fortuna nel momento che il toro fu lasciato, uscì dell’arena Fanfulla da Lodi, preposto a dirigere quei giuochi, il quale, vista Zoraide che stava molto malcontenta guardandosi intorno, venne ravvisando l’ortolano, e questi gli si raccomandava dicendo:

— Eccellenza! Illustrissima! guardate questa povera signora, si muor di voglia di veder la giostra, e siam giunti tardi....

Zoraide accorgendosi che il giovine cui si dirigeva questa preghiera mostrava in certe sue occhiate fulminanti più che buona volontà di trovarle posto, punzecchiava Gennaro che stesse cheto; ma era tardi; Fanfulla venne a lei, e, presala per mano, la trasse fuori al largo dietro il palco, e con un bastoncello fece far piazza al popolaccio, poi alzati gli occhi guardava dove potesse allogarla.

Sul più alto gradino, nel miglior luogo, seduto molto a suo bell’agio, colle ginocchia aperte e le braccia intrecciate sul petto si trovava per i suoi peccati il Conestabile della torre di S. Orsola, Martino Schvarzenbach. Fanfulla non avrebbe dato [p. 155 modifica]quest’incontro ed in questi termini per mille ducati. Col suo bastoncello poteva giugnere al tallone del tedesco, alto da terra un uomo e mezzo circa: lo percosse leggermente, colui si voltò in giù guardando chi lo voleva. Fanfulla senza scomporsi alzò la mano all’altezza della fronte, e movendo le dita dall’alto al basso con una leggera scossa di capo laterale unita ad un cenno dato coll’occhio e colla bocca gli fece intendere come gli occorresse il suo posto per la donna che conduceva: e l’espressione del suo viso avrebbe fatto saltar la stizza ad un morto. Martino, che essendo in alto si teneva sicuro, memore forse in quel momento del barile guastatogli, fece colle spalle quell’atto d’impazienza che significa: levamiti d’attorno: e si rimise come prima.

— Tedesco! Tedesco! disse allora Fanfulla scuotendo il capo ed alzata la voce, ti farai dare un carico di legnate, e in ogni modo la giostra per oggi fa conto d’averla veduta.

E Martino non si moveva, solo a mezza voce brontolava, chè il suo avversario, benchè lontano, pure lo teneva in sospetto.

Prima fatto che detto saltò Fanfulla su una trave ch’era in traverso, prese di sotto il Conestabile per le gambe, il quale colto all’improvviso non potè ajutarsi, lo fe’ sdrucciolar giù di dove era seduto e lo tirò a sè credendo batterlo in terra, ma il povero Martino era rimasto incastrato in mezzo di due assacce, fra le quali il suo ventre non poteva farsi strada, e gridava: — Misericordia! ajuto! L’altro seguitava a dar tratti, tirate e scosse, e finchè quel povero uomo non fu a terra tutto pesto, e pieno di graffiature, non fu contento. Ciò fatto, e dicendogli con pace: Me ne dispiace al cuore, ma non te lo dicevo io che la giostra l’avevi veduta? fece con diligenza salir Zoraide e Gennaro, e si cacciò tra la folla ridendo delle mille villanie che gli mandava dietro colui, che s’andava racconciando, e [p. 156 modifica]tastandosi se aveva nulla di rotto, raccoglieva il cappello, la spada, i guanti, durando fatica a rimettersi di quella sconfitta.

Zoraide intanto, che dal luogo procurato dalla vittoria di Fanfulla scorgeva ottimamente tutto l’anfiteatro, volse l’occhio in giro e lo fermò sul balcone in faccia ove scorse Ettore che, seduto accanto a D. Elvira fra i primi baroni, l’intratteneva e procurava colla sua cortesia di mostrarsi degno d’esserle destinato cavaliere in quel giorno. La giovane spagnuola di cuor caldo e di mente fervida ed in parte anche leggiera voleva forse attribuire a quelle attenzioni una causa che in lei lusingava del pari l’amor proprio ed il cuore. Il loro dialogo aveva spettatrici due donne che a distanze diverse, e con sentimenti dissimili, pur non ne perdevano un cenno. L’una era Zoraide che, troppo lontana per poter udire i loro ragionamenti, vi prendeva però premura tale e tanto attentamente seguiva ogni lor moto da doversi accorger che la figlia di Consalvo sapeva apprezzare quanto valesse il prode Italiano e non lo guardava colla sola benevolenza della cortesia; non si sentiva di dar giudizio quali fossero i pensieri di Fieramosca, ma un cuore nei termini ove si trovava il suo suol tremare d’un’ombra. L’altra era Vittoria Colonna che per esperienza aveva conosciuto non saper la giovane Elvira abbastanza guardarsi contra gli assalti d’un bel viso e di dolci parole. Sentiva per lei affetto vero e profondo, ed appariva dalla fronte severa e dallo sguardo penetrante della figlia di Fabrizio che vedeva mal volentieri stringersi tanto que’ ragionamenti, e ne temeva le conseguenze.

Quel primo toro entrato nell’arena era stato sul principio abbandonato alla moltitudine; molti erano venuti a combatterlo con varia fortuna, ma senza poterne ottenere vittoria. Da un palco laterale ove coi baroni francesi eran molti Spagnuoli ed Italiani scese [p. 157 modifica]finalmente Diego Garcia, che era da que’ forestieri stato pregato desse saggio di sua destrezza in questo genere di combattimento. L’abilità del matador (ossia uccisore del toro) consiste in Ispagna nel saper cacciargli la spada nella giuntura delle vertebre del collo mentre abbassa il capo per levar sulle corna il suo avversario: in que’ tempi ove il maneggio d’armi pesanti cresceva alle braccia la forza, si soleva tener per miglior colpo lo staccar netto con un fendente il capo del toro, ed a chi accoppiava molta destrezza sovente riusciva.

Paredes entrato nell’arena col suo buon spadone a due mani che teneva sulla spalla sinistra, vestito in giustacuore di bufalo e colla testa scoperta, vide che il toro era già stato ferito e perdeva sangue. Accennò ai donzelli, e disse volerne uno fresco; perciò fu tirato il laccio a quello già combattuto e condotto fuori, ed aperto il rimessino n’uscì un altro maggiore, d’aspetto feroce, che dallo scuro venendo al sole, aizzato ed infierito cominciò a scorrere a slanci l’arena come è costume di questi animali, finchè, visto il suo antagonista, gli si fermò rimpetto; abbassando il capo, mugghiando, con un palmo di lingua fuor della bocca quasi volesse prender campo, s’arretrava, gettandosi l’arena col piè dinanzi sulla groppa e sul collo. La forza di Garcia era somma; sarebbe stato però fidarvisi troppo volerla metter con un toro che aveva la fronte armata di grandissime corna, ed un collo largo e nerboruto da non temer paragone; lo Spagnuolo vide che bisognava operar con cautela. Alzò a due mani lo spadone sulla spalla manca, col piè diritto battè due o tre volte il suolo, gridandogli ah! ah! Il toro abbassate le corna si getta sul suo nemico; questi ne era quasi giunto, allorchè lanciandosi da una parte gli cala sul collo la spada con tanta forza e fortuna, che il capo cade sull’arena, ed il corpo fa ancora uno o due passi prima di stramazzare. [p. 158 modifica]

Uno scoppio generale di grida fe’ plauso a Diego Garcia, che tornò a sedersi fra’ i suoi. I cavalieri francesi non avvezzi a questo genere di spettacolo, vedendo con quanta facilità lo Spagnuolo avesse tagliato quel collo, pensarono fosse cosa molto agevole. E come erano uomini sul fiore dell’età e della forza, e venivan loro benissimo maneggiate l’arme, dicevano: Anche noi faremmo lo stesso. E quello che lo disse più degli altri fu La Motta, il quale, come vedemmo, prigione di Garcia se n’era riscattato: superbo per natura, aveva sempre con lui il dente avvelenato: non che ne fosse stato trattato male, ma perchè gli pareva troppo strano l’aver avuto la peggio, ed il vedersi davanti chi l’aveva fatto stare a segno.

Lodò il colpo di Garcia per non parer invidioso e scortese; ma con quel viso che i Francesi d’oggi chiamano suffisant, a definir il quale gl’Italiani mancano forse di vocabolo adattato, e gli disse stando ritto e pettoruto, e come era suo costume, senza molto voltarsi verso lui: — Bravo D. Diego; ben tagliato, Par N. Dame; poi volto al suo vicino francese disse sorridendo: — Grand meschef a été que le taureau n’eut pas sa cotte de mailles; la rescousse eut été pour lui.

Paredes l’intese, e gli saltò la stizza e disse fra sè Voto1:Voto a Dios, que he de saber si ese perro frances tiene los dientes tan largos como la lengua. Gli. s’avvicinò e gli disse:

— Quanti bei ducati d’oro vi piacerebbe pagare se a me bastasse la vista di tagliar a un toro il collo armato di maglia? e voi non potreste neppur tagliarlo nudo. E anche senza parlar di ducati, che non voglio si creda che Diego Garcia pensi a farsi pagar come un torero, vada solamente l’onore, e vediamo se sapete imitare il mio colpo come lo sapete deridere. [p. 159 modifica]

A La Motta poco piacque una tale disfida, e si morse la lingua d’averla provocata; non già per viltà, che era uomo dabbene ed ardito, ma essendo quella la prima volta che gli accadeva di combattere una tal bestia, non sapeva troppo in qual modo governarsi. Pure non si poteva a meno; in presenza di chi era, conveniva saltar il fosso. Rispose audacemente:

— Per un cavaliere francese non sarebbe vergogna certo rifiutar di provarsi con un toro, ma non sarà mai detto che Gui de La Motta abbia ricusato di far un colpo di spada, sia qual si voglia la causa. Alla prova. — S’alzò borbottando fra denti con istizza, Chien d’Espagnol, si je pouvais te tenir sur dix pieds de bon terrain, au lieu de la bête! ... Aveva diligentemente osservato e benissimo appreso il modo onde a Garcia con tanta fortuna era venuto fatto il bel colpo; giovane, uomo d’arme, e francese, poteva diffidar di sè stesso?

A questa sfida, d’un genere così nuovo, si era alzata con rumore tutta la gioventù; nel balcone di Consalvo si notò la mossa ed il bisbiglio, e presto se ne conobbe la cagione, che in pochi momenti si sparsa in tutto l’anfiteatro ed accolta dalla moltitudine con favore ed allegrezza: è vero bensì che la nuova passando da bocca in bocca avea sofferto strane trasformazioni, tanto più curiose quanto più nascevano fra individui delle ultime classi del popolo. Il punto ov’era Zoraide, essendo di tutto l’anfiteatro il più lontano dal balcone di Consalvo, fu quello ove appunto giunse questa novella maggiormente sfigurata pei due lati nell’istesso tempo. I più lontani cercando sempre di sapere dai più vicini, succedeva un ondeggiare di teste, un volgersi di visi che lasciava al solo aspetto conoscere i progressi che la nuova andava facendo per le gradinate fra gli spettatori. Gennaro da un pezzo era in piedi, allungando il collo ed [p. 160 modifica]aspettando con impazienza il momento di saper qualche cosa; esso, Zoraide, ed i loro vicini avean visto il trambusto nel palco de’ cavalieri e dei capi, poi i primi uscire e spargersi per l’arena; la festa pareva interrotta; non vedevan comparire altro toro e gli uni agli altri si domandavano che cos’è stato? che cosa è accaduto? sempre senza ottener risposta: alla fine da un lato v’è chi comincia a dire: Si vuol combattere la sfida fra Italiani e Francesi, ora in questo steccato. Oh giusto! dice un altro, non vedi che Fieramosca è là seduto inchiodato nel palco, ed a veder come parla con quella giovane, pare che pensi a tutt’altro che alla battaglia. Zoraide l’udì e diede un sospiro. Si volse un terzo dall’altra parte: Dicono che il capitano francese ha sfidato Consalvo, e chi di loro ammazza il toro bandito ch’è venuto da Quarato avrà vinta la guerra e sarà signore del reame. Intanto molti uomini che si davan da fare intorno al rimessino, pareva si preparassero a far uscir fuori un altro toro. Si vedeva da un canto Diego Garcia col suo spadone sulla spalla attorniato da molti che mostravan parlargli tutti insieme e con gran prestezza, come se lo volessero persuadere di qualche cosa, ma sulla sua fronte animosa che appariva al di sopra di tutte l’altre si leggeva anche lontano l’irremovibil proposito di compiere quanto aveva promesso, quantunque il rischio fosse grandissimo. Poco più lungi La Motta aveva intorno i suoi Francesi che lo confortavano a non vituperarli.

Intanto uno fra gli spettatori che sedevano ai gradi più bassi, e si trovava aver finito allora un discorso con Veleno che gli era accosto, disse volgendosi a Gennaro: Dice quest’uomo dabbene che que’ signori laggiù voglion fare a chi vuota un boccal di greco tutto d’un fiato in faccia al toro. Molti risero a questa sciocchezza; ma le risa si quietaron tosto quando si vide che i sergenti guidati da Fanfulla facean [p. 161 modifica]sgombrar la piazza, nella quale rimase solo immobile, e sempre col suo gran spadone in ispalla, il gigante spagnuolo.

Per questo secondo assalto, conoscendo quanto fosse difficile uscirne ad onore, e che malgrado l’erculee sue forze, tagliar un collo di toro rivestito di maglia di ferro era un’impresa almeno molto temeraria, s’era provvisto d’un altro spadone più grave assai del primo, e che usava soltanto quando doveva assaltare o difender trincee; era corso a casa, e fattogli rifare il filo piuttosto tondo, s’era ristorato in fretta divorando ciò che gli era venuto alle mani, e bevendovi su un buon fiasco di vin di Spagna. Per questi apparecchi aveva avuto tempo di avanzo, che non ce ne volle poco, nè pochi sforzi, per fasciare il collo d’un toro con un giaco di maglia, che, aperto davanti, ed infilzate le maniche alle corna, rimase adattato e fermato sotto il collo, cadendogli sulla fronte il collarino. Chi ha visto ai nostri tempi caccie di questi animali sa che si può, qualora sieno ristretti in luogo oscuro, per virtù di buoni canapi che si gettano loro alle corna, tenerli fermi, e farne ciò che si vuole.

Al suono delle trombe e di tutti gli stromenti si fece avanti un re d’armi vestito d’una casacca gialla e rossa, nella quale sul petto e sulla schiena si vedea l’arme di Spagna: accennando col suo bastone fece far silenzio e disse ad alta voce:

Per parte del re cattolico, Ferdinando re di Castiglia, Leone del regno di Granata, Indie occidentali, ec. ec., D. Gonzalo Hernandez, de Cordova Marchese, d’Almenares, commendatore, cavaliere dell’ordine di San Jago, capitano, governatore per S. M. cattolica del regno di qua del Faro, proibisce a tutti qui presenti, sotto pena di due tratti di fune, ed anche maggiore a suo beneplacito, di turbare con voci, gridi, cenni ed in alcun altro modo il combattimento [p. 162 modifica]che sta per farsi contra il toro armato dall’illustrissimo e magnifico cavaliere D. Diego Manrique de Lara conte di Paredes.

Tutte le trombe risposero: e gli spettatori di ogni classe, quali per cortesia conoscendo che da un passo più o meno fatto fare al toro potea dipendere la vita dell’intrepido Spagnuolo, quali per timor della corda, tutti rimasero immobili ed in così alto silenzio, che all’aprirsi del rimessino, il cigolar del chiavistello fu il solo strepito che s’udisse in mezzo a tanta turba da un capo all’altro dell’anfiteatro. Uscì il toro, ma non colla furia degli altri; era di minor mole, corto, traverso, e tutto nero; ma più selvaggio, d’assai: si fermò anch’esso a dieci passi da D. Garcia, e cominciò a guardarlo, sferzarsi colla coda, e gettar in aria l’arena. Il suo avversario colla spada in alto era tutto occhi e ben sapeva che un primo colpo fallito poteva riuscirgli fatale. Si mosse alfin la bestia, adagio i primi passi, poi ad un tratto dando un muglio, si gettò col capo basso addosso a Garcia. Egli credendosi spiccarle il capo come all’altra, si lancia da un lato e cala il colpo con grandissima forza; ma, sia che la spada non cadesse a filo, o che il toro facesse un contrattempo, rimbalzò sulla maglia di ferro, ed il toro gli si rivoltò addosso con tanta furia che, per tenerselo discosto, lo Spagnuolo ebbe appena tempo d’appuntargli la spada alla fronte ov’era difesa dal collarino di maglia. Qui si mostrò tutta la forza di Paredes. Piantato colle gambe aperte una innanzi l’altra, lo spadone tenuto a due mani col pomo al petto e la punta fissa nella fronte del toro, fu potente d’arrestarlo; la lama grossa e forte resse alla prova; ed era tale lo sforzo di Diego Garcia che si vedevano i suoi muscoli nelle gambe e nelle cosce specialmente gonfiarsi e tremare non meno che le vene del collo e della fronte; e la tinta del suo viso divenne rossa, poi quasi [p. 163 modifica]pavonazza, e si morse talmente il labbro inferiore che si tinse il mento di sangue.

Il toro vedendo che gli si chiudeva quella strada all’assalto, s’arretrò, e, preso del campo, gli si lanciò di nuovo addosso con maggior furia. Garcia si sentiva saltar la febbre per vergogna d’aver fallato: in un momento in cui volse l’occhio ai palchi vide, come un baleno, il volto di La Motta composto ad un riso di scherno; e questa vista gli mise addosso un furore tanto smisurato, e tanto gli crebbe le forze, che, alzata la spada quanto potè, la rovesciò sul collo del toro con tal rovina che l’avrebbe tagliato se fosse stato di bronzo. Il colpo in quel disordine non cadde dritto. Tagliò prima un corno netto come un giunco, poi il giaco e le vertebre, e si fermò alla pelle della giogaja, per la quale il capo rimase ancora attaccato al busto che si rovesciò nella polvere.

A questa incredibil prova s’alzò un grido universale di lode tanto romoroso ed istantaneo che parve uno scoppio di tuono. Paredes si lasciò cader lo spadone ai piedi, rimase ansante per pochi momenti, ed il vermiglio del volto si cangiò in un pallore che però non fu lungo. Tosto l’attorniarono i suoi con festa. Chi ammirava lui, chi guardava lo spadone, chi l’ampia ferita, e la nettezza del taglio, ed intanto gli stromenti facean sentire suoni di vittoria.

Lo Spagnuolo era uscito d’impegno: toccava ora a La Motta. Il bel colpo del suo antagonista lo metteva in pensiero; non poteva sperar d’agguagliarlo: e se anche riusciva (cosa molto dubbia) a troncare la testa al toro a collo nudo, sempre avrebbe avuta minor lode, e la sua inesperienza in questo genere di combattimento gli faceva prevedere che neppure saprebbe far tanto. In ogni modo conobbe non avrebbe saputo con onor suo uscir da questo passo, ed il dispetto che ne provava lo cavò di cervello. [p. 164 modifica]

Quando venne lo Spagnuolo a domandargli se volea scender nell’arena, rispose negativamente con ingiuriose parole, e soggiunse che i cavalieri francesi a cavallo e colla lancia in pugno erano i primi del mondo, e come nobili e cavalieri volevano combattere e vincere cavalieri pari loro in giusta guerra, e l’arte di uccider tori la lasciavano ai villani ed ai beccai, onde gli si levasse d’innanzi, nè gli affastidisse più il cervello. A così bestiali parole rispose Diego Garcia con altrettante e maggiori; l’uno e l’altro fecero segno di por mano all’arme: a questa rissa che succedeva nel palco dei cavalieri, si volsero Consalvo, il duca di Nemours, e tutti gli spettatori; e per dirla in breve ne nacque un’altra sfida, colla quale Garcia montato in superbia, con alta e terribil voce chiamò i Francesi, e s’offrì combatterli a cavallo, e mostrar loro che gli Spagnuoli anche in questo modo non tanto gli eguagliavano, ma erano dappiù di loro.

I capitani di Francia e Spagna vedevano con piacere lo spirito marziale mantenersi ed accrescersi nei loro eserciti col mezzo di queste gare, che parevano in quei tempi rinnovare i romanzeschi fatti narrati dai poeti e dai trovatori. Accordarono quindi licenza anche per questa disfida, ed in pochi momenti fu stabilito il numero ed il nome de’ guerrieri e si combattesse dieci contra dieci fra due giorni lungo il lido sulla strada di Bari. Ma posero per condizione che di questa lite più non si facesse parola per quel giorno, onde le feste non ne venissero turbate. I cavalieri delle due parti furono contenti, ne dieder segno stringendosi la mano, e tornaron tutti tranquillamente ai loro luoghi.

Mentre succedevano questi trattati, gli uomini che avean cura della piazza ne toglievano il corpo dell’ultimo toro, e spargendo rena e segatura sul luogo ove era caduto, ne facevano sparire ogni traccia di sangue. [p. 165 modifica]Fanfulla ch’era loro guida ebbe da Consalvo l’ordine di ammannire per la giostra: in pochi minuti fu innalzato in mezzo all’arena un tavolato a guisa d’un muro, ritto da pali fitti in certi buchi già prima preparati a quest’uso. Si stendeva per la piazza quant’era lunga, come l’asse che traversa due fuochi d’un’elissi, e poteva in altezza giungere al petto d’un uomo ordinario. I due estremi non toccavano la circonferenza lasciando sotto i palchi una apertura per tre cavalli di fronte. Secondo questa maniera di giostra, volendosi correr la lancia a ferri spuntati, i due cavalieri si ponevano alle estremità in modo che lo steccato fosse fra loro, e rimanesse alla destra di ognuno: poi urtando il cavallo, correvano, sempre radendolo, e nel passare si ferivano; un tal modo era meno difficile e pericoloso, essendo indicata al cavallo la strada, ed al cavaliere il punto ove troverebbe il suo avversario. In fondo alla piazza dalle due parti furono posate due botti ad un solo fondo, piene di rena, nella quale si fissero lance d’ogni grossezza che i combattenti toglievano nel passare, quando, avendo rotta la loro senza che nessuno dei due fosse abbattuto, voltavano dietro i capi dello steccato, e tornavano ad’incontrarsi, ognuno dal lato ov’era nella corsa antecedente il suo antagonista.

Quando tutto fu all’ordine, venne Fanfulla al piede del palco, ove sedeva D. Elvira, e le disse che stava a lei dare il segno. La figlia di Consalvo gettò nell’arena un suo fazzoletto: nello stesso tempo fu dato nelle trombe ed entrarono a cavallo, armati di lucentissimi arnesi, con tante penne, tanti ricami e tante gale, che era una ricchezza a vedere, i tre Spagnuoli che toglievano a difendere il campo, offrendo tre colpi di lancia e due d’azza a chiunque si facesse avanti.

I campioni erano don Luis de Correa y Xarcio, [p. 166 modifica]D. Inigo Lope de Ayala, e D. Ramon Blasco de Azevedo.

Fattosi avanti l’araldo e, proclamati questi nomi, proibì, come era costume, agli spettatori di parteggiar nè con parole nè con fatti. Gli scudi degli Spagnuoli vennero appiccati sotto il palco di Consalvo co’ loro nomi scritti in lettere d’oro, mentre essi dopo aver fatto il giro della piazza si erano andati a porre in fondo, vicini ad un gran stendardo ove si vedevano le torri ed i leoni di Castiglia e le sbarre d’Aragona, e che, tenuto da un araldo riccamente vestito, s’aggirava sventolando sul suo capo.

Il premio destinato al vincitore era un elmetto riccamente guernito, con una vittoria d’argento per cimiero, che in una mano teneva una palma d’oro, e coll’altra reggeva il pennacchio dell’elmo: opera di cesello di mano di Raffaello del Moro, valente artefice fiorentino. Stava innalzato sulla punta d’una lancia fitta presso l’entrata onde erano venuti i tre baroni spagnuoli.

Bajardo, lo specchio e l’onore del mestier dell’armi, fu il primo a comparire in lizza, cavalcando un bel bajo di Normandia balzano di tre piedi coi crini neri; le belle fattezze del destriere erano, secondo l’uso del tempo, nascoste da una grandissima gualdrappa che lo copriva dalle orecchie alla coda, tinta di un verde chiaro attraversato da sbarre vermiglie, coll’impresa del cavaliere ricamata sulla spalla e sul fianco, e finiva da piede in drappelloni che giungevano al ginocchio del cavallo. Sulla testa, e sulla groppa svolazzavano mazzi di penne de’ medesimi colori, che si vedevano pur ripetuti alla banderuola della lancia, ed al pennacchio dell’elmo. La struttura del cavaliere non aveva in sè nulla di straordinario, ed anzi, per quanto si poteva giudicare sotto l’arnese, non annunziava il vigore ordinario agli armeggiatori di quell’epoca. [p. 167 modifica]Venne avanti, atteggiando il cavallo che, leggermente tentato dallo sprone, e rattenuto dal freno, si raggruppava e procedeva scalpitando, e volgendo or qua or là il collo e la groppa formata in arco, e colla coda ondeggiante sferzava e sollevava l’arena.

Venne a fermarsi rimpetto a donna Elvira, e dopo averla salutata abbassando la lancia, percosse con quella tre colpi sullo scudo di Inigo. Prendendola poi colla sinistra che già reggeva e briglia e scudo, pose mano all’azza che gli pendeva dall’arcione e ne percosse due volte lo scudo a Correa: e ciò volea dire che chiedeva al primo tre colpi di lancia ed al secondo due d’azza. Fatta la qual cosa, tornò all’entrata dell’anfiteatro.

Si trovò Inigo nello stesso tempo al suo luogo dirimpetto ad entrambe colla lancia alla coscia e la punta in aria. Bajardo che sin allora aveva tenuta alzata la visiera mostrando il volto coperto d’estremo pallore, pel quale molto si maravigliava ognuno che volesse o potesse combatter quel giorno, se la fece abbassare e chiudere dal suo scudiere, dicendogli che malgrado la quartana (ed in fatti da quattro mesi lo travagliava) aveva fiducia di non vituperare quel giorno l’armi francesi.

Al terzo squillo di tromba parve che un solo spirito animasse i due guerrieri ed i loro cavalli. Curvarsi sulla lancia, dar di sprone, partir di carriera colla rapidità del volo, furono cose simultanee ed ambi i cavalieri le eseguirono con pari furia e rovina. Inigo mirò all’elmo dell’avversario; colpo sicuro, ma non facile; poi quando gli fu presso, pensò che al cospetto di tale adunanza era meglio tentar cosa che non potesse andargli fallita, e si contentò di rompergli l’asta allo scudo. Il cavalier francese, che era l’uomo forse più destro di quel tempo nel maneggio dell’armi, pose con tanta sicurezza la mira alla visiera [p. 168 modifica]d’Inigo, che se fossero stati fermi non avrebbe potuto colpirlo meglio. L’elmetto mandò faville, l’asta si ruppe a due braccia dal calce, e lo Spagnolo si torse tanto sul lato sinistro ove pure gli era uscita la staffa, che quasi accennò cadere. Così l’onore di questo primo scontro rimase a Bajardo.

Seguitarono i due campioni la corsa per venirsi ad incontrar dall’altro lato; ed Inigo, gettato con istizza il troncone, arraffò nel passare un’altra lancia.

Alla seconda prova riuscirono i colpi eguali, ed Inigo in cuor suo potè forse dubitar che la cortesia del cavalier francese fosse la cagione che non gli permettesse di adoprar la sua maestria interamente. Alla terza corsa questo dubbio divenne certezza. Inigo ruppe la lancia alla vista del suo nemico, e questi gli sfiorò appena la guancia col ferro, e si conobbe che il fallo non era involontario. Sonaron le trombe e gli evviva, e gli araldi proclamarono uguale il valore dei combattenti, che andarono uniti sotto il palco di D. Elvira a farle riverenza; mentre ella gli accoglieva con parole di lode, non n’era avaro Consalvo, nè il duca di Nemours, che diceva ai campioni: Chevaliers c’est bel et bon.

Inigo era di que’ tali che in ogni altra cosa potranno esser vinti, ma non mai in generosità.

Volle perciò far palese la cortesia usatagli da Bajardo: questi colla modestia che sempre è compagna alla virtù, negava risolutamente dicendo di aver fatto il potere. A questa gara di cortesia, disse Consalvo: — Dalle vostre parole, cavalieri, può nascer il dubbio chi di voi oggi abbia meglio corsa la lancia, ciò che però non è dubbio, si è che non sono al mondo i più nobili, i più generosi di voi.

Note

  1. Per Dio, voglio vedere se questo cane francese ha i denti lunghi come la lingua.