Filli di Sciro – Discorsi e appendice/Filli di Sciro/Atto quinto

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Atto quinto

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Filli di Sciro - Atto quarto Discorsi in difesa del doppio amore della sua Celia


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ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Perindo

.

          
Oh sacrilegio! In terra
          l’idolo, a cui ogni mortai s’atterra?
          O del mio gran signor, del re de’ regi,
          o sacra, o diva imago, ecco i’t’inchino,
          a’ piedi tuoi la cima
          del mio capo soggiace.
          Ma te infelice, a cui
          poté cader di man l’idolo altero!
          Morrai, chi che tu sie; né viver deve
          cui tanto ha in ira il ciel, che fin di mano
          gli fa cader la vita.
          Deh chi fu l’empio? e come
          n’avremo indizio? Questo
          cura sarà d’Oronte: egli ha in sua mano
          e la legge e la spada.
          A lui, a lui volando...
          Basta a me ch’egli il sappia.
          Ma qui fia ben ch’i’ tema
          di smarrir il cammino.
          Se pur non erro, io fui
          con Oronte stamane
          in questo luogo appunto.
          Si, si, quell’è ? sentiero
          onde venimmo; quinci

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          ATTO QUINTO
          tornammo, e fu più breve.
          — Oh, oh pastor, la via
          di gir dritto alle tende? —
          SCENA II
          Narete, Clori.
          Nar.Costà dritto, signore! —
          Ma fora ben più dritto
          per voi, barbara gente,
          il cammin de la morte.
          Io sapea ben che tardi
          qui tornerei per Celia.
          E’ non si puٍ cotanto. Io mi consolo
          ch’ell’era in buone mani. Or di costei
          convien prendermi cura.—O figlia, innanzi.
          Clori.O cortese Narete,
          deh lascia omai ch’io torni
          a godermi soletta il mio dolore.
          Nar.Ei non è tal ch’io fidi
          la tua vita in tua mano.
          Io ne vo’ cura: il cielo
          per te, non per altrui a coglier l’erbe
          colà dianzi mi trasse.
          Clori.Ahi, che strana pietade
          è cotesta, o Narete!
          Sappi ch’io son già morta:
          non ho più cor ned alma: e mentre credi
          vietar ch’io mora, omai sol mi divieti
          la tomba, e non la morte.
          Cosi dunque ti giova
          trarti dietro pe’ campi
          cadaveri insepolti?
          Nar.Tu da me nulla impetrerai, se prima

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          no
          FILLI DI SCIRO
          il tuo dolor non mi discopri almeno.
          Clori.Eccolo, oimè!
          Nar.Chi vien? perché t’ascondi?
          SCENA III
          Narete, Niso, Clori.
          Nar.Ve’ ch’egli è Niso. — O Niso,
          e dov’è la tua Celia?
          che divenne d’Aminta? ei non è teco?
          Niso.O mio Narete, oh quanto in si breve ora
          mi rivedi cangiato! È meraviglia
          che tu mi riconosca.
          Non son più Niso, anzi non son più vivo;
          Celia non è più mia:
          Aminta è seco, e vanno
          per trovar Clori, e Clori
          anch’io pur vo cercando. Ah sai tu dove
          ella sia, viva o morta?
          Nar.È viva, e non è lungi.
          Ma tu che parli? donde
          cosi turbato or nuovamente appari?
          Niso.Tosto l’udrai; ma prima
          Clori m’insegna. Ah dunque
          è viva? e non è lungi?
          Clori.(E pur convien ch’io ? miri.
          Oh come dolcemente in quel bel viso
          va l’empio cor larvato!)
          Nar.Eccola. — Clori,
          vien, vieni: è Niso!
          Niso.(Oimè, son morto!)
          Nar.Udisti
          ch’egli, Celia ed Aminta in ogni lato
          van di te ricercando?

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          ATTO QUINTO III
          Vedi com’ il romor de la tua morte
          turba ninfe e pastori.
          Niso.(E si la luce
          di que’ begli occhi, o cieco,
          io vidi e non conobbi ?)
          Clori.O buon Narete,
          non conosci costui.
          Se la mia morte il turba,
          de la mia morte il turba
          diletto, e non pietade.
          Ei fu che mi die morte,
          e vien qui sol per vagheggiarne il colpo.
          Nar.A te costui la morte?
          Niso, non odi? e che vuoi dir costei?
          Niso.(Che fia, lasso, di me?
          potrٍ parlare? ed ella
          sosterrà le mie voci?)
          Nar.(Egli a me non risponde, ed io non odo
          ciٍ che fra sé gorgoglia.)
          Niso.(Or tu mi spira
          a si grand’uopo, Amor; tu mi concedi
          degne del mio dolor sembianze e voci.)
          O Filli, ahi Filli, oimè!
          Nar.Filli costei? o Clori?
          Niso.(Ahi, non posso! I sospiri
          annodan le parole.)
          Nar.(Ella fuor di se stessa
          non pon cura ad altrui). Tu dimmi, o Niso...
          Niso.O Filli, anima mia!
          Nar.(Anima mia?
          E’ si parla d’amore; or me n’avveggio.
          La mia voce v’è roca;
          meraviglia non è s’altri non m’ode.)
          Niso.Errai, misero, errai.
          Nar.(Ma sarٍ pur almeno
          di qualche meraviglia

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          muto riguardatore).
          Niso.Deh non volgere, o Filli,
          in altra parte il volto!
          Forse che in questa guisa,
          negando il tuo bel volto agli occhi miei,
          vuoi punir la mia colpa.
          Ma no: mirami, ascolta. Il tuo bel volto,
          ei fia, se pur noi sai,
          ei fia de Terror mio
          il punitor severo; ei folgorando
          saprà ben far da sé le sue vendette.
          Deh qual più degna pena a le mie colpe
          che tener fissa avanti agli occhi miei
          la beltà ch’ho tradita,
          la beltà ch’ho perduta?
          Errai, misero, errai: e perch’io pianga,
          non creder già ch’io voglia
          chieder mercé col pianto.
          So ben che dal mio sen, dagli occhi miei,
          che per altrui poterٍ
          piangere e sospirare,
          non puٍ lagrima uscir, non puٍ sospiro
          che da te nulla impetri.
          Altro da me non puoi
          gradir, se non ch’io mora, e la mia morte
          per me cheggia perdono.
          Tu, s’ella pur t’è cara,
          non gliel negar: non è ragion che nulla
          a si gradito intercessor si nieghi.
          Io morrٍ: tu perdona (altro non cheggio)
          al cenere insepolto, a l’alma errante.
          Clori.Pastor, s’errasti, il sai;
          sallo Amor, sallo il cielo:
          ei, che puٍ folgorar, ei ti perdoni.
          Io vile pastorella,
          ingannata fanciulla,

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          ATTO QUINTO II3
          abbandonata amante,
          non ho già donde caglia
          del mio sdegno a colui,
          cui del mio amor non calse.
          Niso.Oimè!
          Clori.Ah Tirsi, ah Tirsi!
          ? AR. (Filli dianzi costei, or costui Tirsi?)
          Clori.D’amorosi sospiri
          falseggiatore industre,
          se’ tu che piangi, o Tirsi?
          e tu, tu che m’ancidi,
          se’ tu che per me poi
          brami cotanto di morire? addunque
          non basta al mio tormento
          la tua ’mpietل, s’ancora
          con la pietate incrudelir non tenti?
          Finta pietate, finti
          sospir, ben li conosco;
          finte lagrime, finto
          dolor, finto desire: e pur non posso
          patir, quantunque finto, il tuo dolore:
          de la tua morte solo,
          solo il nome io pavento.
          Taci dunque, e tu vivi,
          ch’hai ben chi per te muora.
          Tu vivi pur, e ’n pace
          goditi lieto i tuoi novelli amori,
          ove se ti die campo
          la mia creduta, e forse
          ancor bramata, morte,
          non vo’ che la mia vita
          le tue colpe n’accusi,
          le tue gioie ne turbi.
          Morrommi: or ti rallegra;
          morrٍ, e priego il cielo
          che ’ncontra te non armi
          G. BoNARثLLi, Filli di Stiro.

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          l’ira vendicatrice,
          che, se tu l’offendesti,
          i’ ho ben in sen per te cotante pene
          che puٍ de le tue colpe
          pagarsi appieno il ciel con le mie pene.
          Che dico mie? Son tue:
          l’ebbi da te: ragione
          è che per te le ’mpieghi.
          SCENA IV
          Melisso, Niso, Clori, Nerete.
          Mel.O Clori (e tremo ancora),
          deh sai tu nulla, o figlia?
          sapetel voi, pastori,
          chi sia quello ’nfelice,
          che gittata ne’ campi
          ha del trace signor l’altiera imago?
          Niso.E perché poi cotanto
          affannato il richiedi?
          Mel.Deh, se tu ? sai, va’ pur, e vola, e digli
          ch’ei fugga, voli, o mora.
          Ma noi andiam, figliuola;
          son qui vicino i traci,
          e più che mai rabbiosi.
          Clori.A che fuggir dai traci, /
          ora che fatto è per me trace Amore? I
          Niso.Ma come dee morir? per qual cagione?
          Mel.Barbara legge il danna, e ciٍ ti basti.
          Andiam, Clori: non sai?
          t’uscí di mente? Andiamo.
          Nar.Ferma, ti priego! Ah dimmi,
          e che nuova sciagura omai n’apporta
          quel barbaro furor, de’ nostri mali

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          ATTO QUINTO
          producitor fecondo?
          Mel.Dirٍl; ma voi deh rimirate intanto
          s’alcun d’essi n’appare.
          Hanno per legge i traci
          che la reale imagine
          del superbo tiranno,
          ovunque ella si veggia, ella s’adori,
          pena la vita a chi per caso od arte
          spregia, come che sia, l’idolo atroce.
          Nar.Iniqua legge: mira
          حse l’alterezza umana
          sa ben alzar le corna, e torreggiante
          cozzar infin col ciel.
          Niso.Segui, pastore.
          Mel.Or giva il capitلn con le sue genti
          per li fanciulli del tributo al tempio,
          ed io colà nascoso
          per la fratta il mirava,
          quand’un de’ suoi, ch’appunto
          venia da questa parte,
          a lui si fé’, dicendo:
          — Mira, signor; —e’n mano
          gli die non so che d’oro:
          altro fra quella siepe
          io non iscersi ; appena
          potei vederne il folgorar de l’oro.
          — Ed ecco, ecco (diss’egli)
          l’imagine real, cui poco dianzi
          in riva d’un torrente, oh sacrilegio!
          ho ritrovata in terra. —
          Gli altri, d’ira fremendo,
          non so se per furore o per usanza
          tutte le vesti allora
          si lacerar d’intorno; il capitano,
          preso colui per man, seco parlando
          con inarcate ciglia,

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          in disparte si trasse.
          Io per girevol calle
          indi parti’mi. E certo
          tardar non ponno... Eccogli! Ahi figlia, andiamo.
          Nar.No, che, partendo voi, ne prenderanno
          qualche ’ndizio di colpa.
          SCENA V
          Oronte, Niso, Clori, Melisso, Narete, Perindo.
          Oron.È certo il cerchio, è desso, io ? riconosco:
          ma pur la legge è chiara
          contra la mano errante,
          e tronco ha da cadere
          il capo di colui
          che l’imagin real gittٍ per terra.
          Niso.(O Filli, or tu vedrai
          se ? mio dolor, se ? mio desire è finto.)
          Oron.Si trovi il reo, si trovi
          di cui sia ? cerchio, e poscia...
          Niso.Signor, egli è trovato,
          e preso a prender viene
          da la tua man le sue dovute pene.
          È mio quel cerchio, ed io
          fui che ’n terra il gittai.
          Questa è la mano errante,
          questo è ? capo dannato: or vegna il ferro
          vendicator de la reale offesa.
          Mel.Oh disperato ardir! Fuggiam noi, Clori,
          fuggiam quinci la morte.
          Clori.Tu fuggí ove ti pare: a me conviene
          per seguir la mia vita
          gir incontro a la morte.
          — Signor, costui per altro

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          va la morte cercando. Il cerchio è mio.
          Ecco, questa è la gola
          ch’ei già molti anni ha cinta,
          e si ne serba ancor freschissime orme.
          È mio quel cerchio, ed io...
          Mel.Ahi, Clori...
          Nar.Oimè!
          Per.Pastori,
          fermatevi, tacete.
          Alcun non sia che ardisca
          mover piede né lingua.
          O ron. Tu segui, ninfa.
          Clori.È mio quel cerchio, ed io
          fui che ’n terra il gittai. Or, se morendo
          puٍ pagarsi il mio fallo, altri noi paghi.
          Ho capo anch’io, che tronco
          saprà cadere e insanguinare il ferro
          vendicator de la reale offesa.
          Niso.Deh taci, tu. — Signore,
          costei d’amor vaneggia: a te non lice
          dar più l’orecchie a’ sogni
          de’ forsennati amanti.
          È vero, ed io noi niego,
          ell’ha parte nel cerchio,
          ma non già ne l’errore.
          Ove e quando gittollo, e chi la vide?
          Io lo gittai pur dianzi, e lo gittai
          colà per quel dirupo
          che ’nfin al rio s’avvalla; or men rimembra.
          Per.È vero; e fu da questo lato, ov’io
          presso a l’acqua il trovai.
          Niso.Filino il vide,
          Filino il semplicetto.
          Ei, che non sa mentir, egli tei dica.
          Clori.Crudel, deh se m’hai tolto
          l’alma e la vita, almeno

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          Ilo FILLI DI SCIRO
          lasciami poi la morte. t
          Oron.Che ti sembra, Perindo?
          Par a me ch’io ravvisi
          in più maturi aspetti
          que’ teneri sembianti.
          Niso.Forse, o Filli, ti duole
          che, reo de la tua morte,
          per altra colpa i’ muora?
          Clori.Forse, o Tirsi, ti duole
          che, per tua man ferita,
          per altra mano i’ muora?
          Per.Odi tenzَn d’amor: certo son questi
          que’ pargoletti amanti.
          Mira con esso loro
          com’egli è fatto grande
          l’Amorin, che fanciullo
          pargoleggiava in Tracia.
          Amor è che gli trae (non te n’avvedi?)
          l’un per l’altro a morire.
          Oron.Or tu, fanciulla,
          dimmi, come ti nomi?
          onde se’? di cui figlia?
          Mel.Clori costei s’appella, ed fo Melisso.
          Ella è mia figlia, ed ambo
          siam de’ campi di Smirna.
          Clori.Clori di Smirna, e figlia
          mi chiamai di Melisso,
          mentre io volea sotto mentite insegne
          fuggir la morte. Omai
          non son più Clori, no, son Filli; e sono
          quella Filli, che ’n Tracia
          fu già nudrita un tempo:
          quella Filli, di cui
          bramٍ cotanto il tuo signor la morte.
          Altro di me non so; ma ciٍ ti basti,
          s’altro da me non vuoi, se non ch’io muora.

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          ATTO QUINTO II9
          Oron.E tu, vecchio bugiardo,
          a me dunque ne vai
          con quest’ardita fronte
          menzognette recando?
          Mel.Mercé, per Dio, mercede!
          Ecco la vita mia,
          signor, ne le tue mani. Arban di Smirna
          costei mi diede in cura, e per iscampo
          di me, di lei, di lui,
          la già celando altrui.
          Oron.Tu m’avviluppi: io non intendo. Dimmi
          più chiaramente come
          venne in tua man costei.
          Mel.Signor, dirollo:
          tu l’ira affrena intanto. Oimè!
          Oron.Pon’ fine
          a’ sospiri, e di’ tosto.
          Mel.Allor che ? re di Smirna assalse armato
          le campagne di Tracia, un di sua gente,
          quell’Arban ch’io dicea, costei bambina,
          e seco un garzoncello,
          fé’ prigioni ad un tempo...
          Niso.Ed ecco...
          Oron.Taci,
          non mi turbar: tu segui.
          Mel.Ai sembianti, a le vesti, ai portamenti
          parver d’alta fortuna:
          ond’ invaghito Arbano
          de la preda gentile,
          teme che’l re nel privi;
          la cela, e si non cura
          un decreto real, ch’ogni soldato
          deggia deporre in man del re quantunque
          fa prigionieri o spoglie.
          Il re di Tracia intanto,
          pien d’ira, minaccioso,

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          I2O
          J-????? DI SCIRO
          i fanciulli richiede,
          non so se per desio de la lor morte.
          Clori.Oh non tei disse Arbano, e mille volte
          * non l’hai tu raffermato? e come dunque
          or qui si d’improvviso
          nascono i dubbi tuoi?
          Per vana tenerezza
          ch’hai tu de la mia vita
          non dèi già porre in forse
          il gran desio c’ha’l re de la mia morte.
          Mel.Arbano il disse, è vero,
          ma forse ad arte il finse.
          Tu ? dèi saper, signore.
          Oron.Io ? so; tu segui.
          Mel.Li chiede il re di Tracia: il re di Smirna
          non sa di lor novella, e pur e’ brama
          di rimandargli in Tracia,
          per addolcir gli sdegni
          de l’offeso nemico
          ed impetrar la desiata pace.
          Grandi quinci propone e premi e pene
          a chi li cela o scuopre.
          Perٍ temendo Arban non il suo furto
          al fin pur s’appalesi,
          là ne’ vicini monti, ov’ a le cacce
          solea venir sovente,
          reca di notte ambo i fanciulli. Quivi
          cangia lor nome e vesti, e vuoi che ignoti
          in boscherecce spoglie
          vivan rustica vita;
          e perché l’un per l’altro
          ^ non sia riconosciuto,
          a me diede costei,
          e ? fanciullo a Dameta,
          abita tor di più lontana parte.
          Ma, perché mal si fida

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          d’innamorato core,
          di fanciullesco ingegno,
          ’ teme che, l’un l’altro cercando, al fine
          sian conosciuti entrambo:
          e perٍ vuoi che i fanciulletti amanti
          credan l’un l’altro estinto. "
          Oron.Ma come poi di Smirna
          se’ tu venuto ad abitar in Sciro?
          Mel.Crebbe il furor de l’armi,
          e, per far la guerra al cielo,
          venne a salire i monti.
          Allora, ahi, quando i’ vidi
          innondar d’ogn’intorno
          turbe d’uomini armati;
          quando vidi ch’errando
          givan per le campagne
          di feroci cavai superbi armenti ;
          quand’udii per le valli
          Eco, fatta guerriera,
          sonar le trombe anch’essa;
          co’ timidi augelletti,
          con le innocenti fere
          diemmi a fuggire, e venni
          qui, dove gli avi miei
          menar la prima etade.
          Venni fuggendo in Sciro.
          Ma dove, oimè ! si puote
          fuggir quel che ? ciel vuole,
          se d’ogn’intorno è’1 cielo?
          Oron.E del garzَn?
          Mel.Di lui
          non ti so dar novella.
          Niso.Se per desio de la sua morte il chiedi,
          signor, non è lontano: ecco tu ? vedi.
          Io son quel Tirsi, cui
          diede Arbano a Dameta,

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          122
          FILLI DI SCIRO
          Clori.
          NlSO.
          Oron.
          Per.
          Oron.
          Mel·
          Oron.
          Niso.
          Clori.
          Niso.
          Clori.
          Niso.
          Clori.
          e con Dameta io vissi,
          finché l’ultimo april tiepido il sole
          rivenne a scior le nevi,
          quand’entro una barchetta
          un rapido torrente
          m’ebbe portato in mare, u’ la fortuna
          fé’ per me vela; e ratto, io non so come,
          fui qui gittato al lido.
          Signore, io mi dileguo;
          il mio dolor m’ancide.
          Ti fia tolto da lui, se non t’affretti,
          l’onor de la mia morte.
          Attendi a me, signor; lascia costei
          almen finch’io sia morto.
          Assai attesi e intesi.
          Veggio che voi bramate
          ambo la morte, ed ambo
          or vi farٍ contenti.
          Oimè, che fia, signor?
          Taci, Perindo.
          Ahi lasso, io vado ! Ah non fia mai che vivo
          la mia morte io rimiri !
          Ma vo’ ch’andiamo al tempio. Ivi conviene
          che ’n più celebre luogo,
          con più solenne pompa
          l’alto voler del gran signor s’adempia.
          Voi mi seguite, andiamo.
          Oh Filli!
          Oh Tirsi!
          Oimè!
          Signor, se vuoi che per tua mano io muora,
          convien che tu m’ancida,
          pria che costei, morendo,
          da me l’anima involi.
          No, no, se tu ferisci

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          costui prima ch’io muora,
          breve farai la pompa: ad un sol colpo
          ambo cadremo estinti.
          Nar.Fiera d’amor contesa, ove la morte
          il vincitore a trionfar conduce !
          SCENA VI
          Narete.
          Ed è pur vero? ed io,
          io non son fatto ancora
          per gelido stupore un tronco, un sasso?
          ancor ho voce, e non istrido al cielo?
          O miseri figliuoli,
          o sfortunati amanti,
          voi ve ne gite al tempio,
          di sacrificio orrendo
          vittime dispietate ed innocenti.
          Amor sel vede, ed egli
          (ohimè, chi ? crederebbe?)
          egli è che porge in mano
          del tiranno furor l’empio coltello.
          Ahi, non bastavan solo i nostri affanni,
          se pellegrini ancora
          non venivan da lungi a far tra noi
          de le sciagure loro
          lagrimevole pompa?
          Ahi lasso, a che più splende
          in questi campi il cielo?
          a che più gira intorno
          a questi lidi il mare?
          Deh per pietà si celi
          fra le tenebre il cielo;
          deh per pietade innondi

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          per questi campi il mare,
          e terra si crudele,
          fatta d’empio dolore orrido albergo,
          sotto l’onde rabbiose
          deh per pietà nasconda.
          SCENA VII
          Ormino, Sireno, Narete.
          Orm.Onde quinci, Siren?
          Sir.Vegno dal tempio;
          ma da quel tempio, Ormino,
          che già fatto è per noi
          teatro di miserie.
          f Io fuggo da quel tempio,
          / da cui fugge ben anco
          per pietà la p.ietade.
          Nar.Fuggí, Siren, dal tempio
          lo spettacolo atroce?
          Ma come n’hai novelle?
          vassi a morte volando? Al tuo partire
          già non potea, cred’io,
          esservi giunto ancora
          con gl’infelici Oronte.
          Sir.Oronte no, ma co’ mal nati figli
          le dolorose madri
          e’ son pur già condotte
          per lo tributo al tempio: oh fiera vista !
          Elle son quivi in un drappello accolte,
          cosi qual si restringe, attorniata
          da fiero predator, timida greggia.
          Stringonsi i figli al petto,
          rimiranli piangendo, e mentre il pianto
          scorre loro nel seno,

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          vanno i bambin suggendo
          da le mamme dolenti
          più lagrime che latte.
          Fa lor corona intorno
          la turba di que’cani:
          vagheggiansi la preda, e ’mpazïenti,
          or ch’a le vele loro
          spiran l’aure seconde,
          bestemmiano lo ’ndugio.
          Orm.Oh tributo inumano!
          oh miseria infinita!
          ad altrui generar i propri figli,
          e convenire a’ padri
          piagnere al nascer lor più ch’ai morire!
          Nar.D’altra miseria i’ parlo.
          È il tributo inumano;
          ma di nuova fierezza,
          e forse anco più cruda,
          esser de’ già quel tempio
          sanguinoso teatro.
          A l’idolo crudele
          d’uno spieiato nume,
          a la sdegnata imago
          del superbo tiranno
          or ora è gito Oronte
          ad immolar duo giovanetti amanti.
          Orm.Oh dèi del cielo! e fien di sangue umano
          i nostri altari indegnamente aspersi?
          Sir.Ah veggio, veggio il tempio
          tutto scuotersi d’ira.
          Non puٍ soffrir cotanto:
          forza è pur ch’e’rovini, e sopra gli empi
          l’alte mura, cadendo,
          del precipizio lor faccian vendetta.
          Orm.Ma quai cagion, quai empio rito muove
          la scelerata spada

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          al sacrificio infame?
          Nar.Lungo fora ? narrarlo; appena ho fiato
          che basti a sospirarne.
          Orm.Deh dimmi almen chi son que’ miserelli.
          Nar.Niso e Clori infelici.
          Orm.Oh fiera sorte!
          Sir.Clori,
          la bella figlia di Melisso?
          Nar.Quella.
          Ma Niso non è Niso,
          e Clori non è Clori,
          né figlia è di Melisso.
          Altr’è la lor fortuna, altr’i lor nomi.
          Orm.Che fortuna, che nomi?
          Nar.Di Niso il nome è Tirsi.
          Orm.Oimè!
          Nar.Di Clori,
          se mi rimembra, è Filli.
          Orm.Oimè, Sireno!
          Sir.Ormino.
          Nar.Che nuova meraviglia?
          Orm.E Tirsi e Filli
          si nomavano ancor que’ nostri figli,
          quei che fanciulli andar già servi al trace.
          Sir.Chi sa che non sien questi? .
          Certo, se pur son vivi,
          son, come questi, e giovanetti e belli.
          Nar.Vostri figli costoro? Eh raffrenate,
          raffrenate, per Dio, timor si folle
          Io me ne rido. Udite: i vostri figli,
          quei che fanciulli andar già servi al trace,
          dovean nel gran serraglio
          fra la turba de’ servi,
          accorciata la chioma,
          tener vita servile, e conosciuti
          da le nudrici appena, allor che questi

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          riccamente vestiti
          ne le tracie campagne
          un soldato di Smirna
          fé’ prigionieri ; e si non son figliuoli
          di poveri pastori,
          ma sono tai che la fortuna loro
          quinci e quindi poté muover ne’ grandi
          cure, sdegni, timor, desire ed armi.
          Sir.Oimè, non più, Narete!
          Orm.Oimè, son dessi !
          Nar.Oimè, com’esser puote?
          SCENA Vili
          Serpilla, Ormino, Sireno, Narete.
          Serp.Che dolorosi omei,
          che importuni lamenti
          van la gioia turbando, onde ridente
          la terra e ? ciel risuona?
          Narete, Ormin, Sireno,
          o di liete campagne
          fortunati pastori,
          o di felici figli
          avventurati padri,
          su, su, fine ai dolori!
          Deh raddolcite omai
          queste voci dogliose,
          rasciugate questi occhi;
          non lagrimate, o lagrimate solo
          di gioia, e non di duolo.
          Udite, udite: a voi d’alte venture
          apportatrice i’ vegno.
          Orm.Deh che fia ciٍ, Siren?
          Sir.Lasso, non veggio

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          onde sperar contento.
          Nar.O per soverchio duolo alma avvilita,
          credi si poco al cielo?
          Ei sa far meraviglie.
          Serp.Itene or ora al tempio; itene, e quivi
          Tirsi vedrete e Filli,
          que’ vostri figli, quelli
          che già perduti, ed ora
          morti forse piangete;
          itene al tempio, e quivi
          vedrete Aminta e Celia,
          quei vostri figli, quelli
          che già d’amor nemici, or per amore
          s’eran condotti a morte.
          Ma che tardo io narrando ad una ad una
          le nostre gioie? Itene al tempio, e quivi,
          tutta quant’ella è grande,
          l’isoletta di Sciro
          fatta vedrete omai lieta e contenta.
          Sono sposi felici
          i disperati amanti,
          e dal tributo orrendo
          ecco venuto il giorno
          (o quattro volte e mille
          felicissimo giorno!)
          | ecco venuto il giorno
          í che Sciro è liberata.
          Sir.O cieli, o dèi!
          Orm.Serpilla,
          oimè, deh taci, e’ mi vien meno il core.
          Sir.E non vuoi dirci come?
          Serp.Nulla vo’ dir: gite voi stessi al tempio.
          Che più badate? Ah che di nostra vita
          troppo son brevi l’ore,
          troppo lunghi gli affanni!
          Perché tardar le gioie?

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          Ite voi stessi al tempio.
          Sir.Andiamo, Ormino, andiamo
          a far di tanto bene anzi la morte
          queste luci beate.
          Orm.Andiam. Ma donde?
          Tu mi scorgi, Sireno: io non so dove
          mover il pie tremante.
          SCENA IX
          Narete, Serpilla.
          Nar.Odi, Serpilla: io tacqui, ed a fatica;
          ma pur tacqui, né volli
          che que’ vecchi dolenti
          il mio dubbiar turbasse.
          Ma pur io non intendo:
          tu spargi in troppa copia
          \sovra un angusto core
          un torrente di gioie
          la stilla a stilla. Dimmi,
          quel Tirsi, quella Filli,
          ch’eran già Niso e Clori,
          quei che pur ora il capitلn di Tracia
          conduceva a la morte,
          che fia di lor? vivranno?
          Serp.Vivranno; e fieno i più felici amanti
          che traesser giammai sospir d’amore.
          Nar.E non è dunque vero
          che per fero desio de la lor morte
          già li chiedesse al re di Smirna il trace?
          Serp.Non so: so ben ch’autore
          d’ogni lor bene è ? trace.
          Nar.E pur Clori il dicea.
          Ma fu certo ingannata
          G. Bonarëlli, Filli di Sciro.

[p. 130 modifica]

          dal predator Arbano, e con ragione
          ne sospicٍ Melisso.
          Colui ad arte il finse, acciٍ, temendo
          de la morte i fanciulli,
          andasser con più cura
          se stessi altrui celando.
          Serp.Egli è ben vero:
          Oronte ancora il dice.
          Nar." Oh com’è vana
          la providenza umana!
          Col timor de la morte
          ha creduto celar quel che ha scoperto
          il desio de la morte.
          Ma per Terror del cerchio
          che fu gittato in terra,
          per l’imagine offesa
          com’ha potuto Oronte
          contra le sacre leggi
          il reo sottrar da morte?
          Serp.A gran periglio
          fu ? caso loro; e morti
          per me li vidi e piansi.
          Di Niso io già cercando,
          e stanca omai là presso
          al tempio mi sedea, quand’una voce
          fu sparsa, io non so donde,
          che frettoloso al tempio
          veniva Oronte, e seco
          traea già condennati
          gli spregiator de la reale imago,
          al cui mesto apparir lieti mostrarsi
          di fiera gioia i traci : indi mandaro
          sol una voce al ciel per mille bocche,
          gridando: — Mora, mora ! —
          Ma quivi tosto un guardo
          girٍ d’intorno imperioso Oronte,

[p. 131 modifica]

          ATTO QUINTO
          a cui tutti ammutirٍ. Indi soggiunse:
          — Udite, o traci, udite:
          l’alte leggi di Tracia han forza solo
          ne lo ’mpero di Tracia,
          contr’a’ servi di Tracia.
          Ma costoro non sono
          servi di Tracia, e Sciro
          non è, come credete,
          non è soggetta a quello impero. Udite
          il decreto real, che qui d’intorno
          al proprio cerchio, in cui
          è l’imagine impressa,
          con figure d’Egitto a sacre note
          iscolpito si legge. — Ad alta voce
          egli ? lesse; ed io ’ntenta
          l’udii, e cosi fiso
          me l’ho stampato al cor, che giurerei
          di saperlo ridir, né d’errar punto.
          Nar.Deh dillo, io te ne priego!
          Serp.Filide di Siren, Tirsi d’Ormino
          sarà noto, dovunque il ciel si vede,
          che amanti amor li fe’, sposi la fede,
          servi il destino: il re gli ha liberati,
          ESSI NON PUR, MA SCIRO, OND’e’ SON NATI.
          Cosi less’egli, e: — Questi (indi riprese,
          Niso e Clori additando)
          questi sono i felici,
          cui tanto poté far benigna stella
          al cielo, al re graditi.
          Son dessi, io li conosco.
          A voi ciٍ basti, o traci. E voi vivete
          (cosi disse, rivolto
          con lieto sguardo ai fortunati amanti),
          voi vivete felici amanti e sposi.
          Riprendansi le madri i figli al seno,
          e vadano cantando

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          132
          FILLI DI SCIRO
          la libertà di Sciro. —
          Nar.Oh fra quante il mar bagna e scalda il sole
          cara, dal ciel diletta,
          fortunata isoletta!
          Non porteran già più per l’onde i venti
          dietro a’ tuoi figli i tuoi sospiri a nuoto.
          Ma Filli e Tirsi allora
          che dissero? che féro?
          Serp.Al primo incontro,
          qual uom ch’adonti ? ’? dubbio core incespi,
          vergognosetti e schivi,
          tratti per man d’Oronte,
          venner ad abbracciarsi,
          e fur i baci in forse.
          Ma ben ripreso ardore
          vicino a l’esca il fuoco,
          strinsersi tal ch’ellera mai non vidi
          si abbarbicata ad olmo.
          Nar.Filli dunque si tosto
          poté lasciar lo sdegno,
          porr’in oblio l’ingiuria
          del nuovo amor di Tirsi,
          ond’egli ardea per Celia?
          Serp.Par che non sappi ancor quai sian le leggi
          del duellar d’amore.
          D’ogn’ingiuria amorosa,
          tratti da solo a solo
          un colpo o due di baci,
          si ponno far le paci.
          Ma, se ben dritto miri,
          non le fé’ Tirsi ingiuria. Ei fu ingannato:
          morta già la credea. Sai ben che ? regno
          amoroso non varca
          i confín de la vita.
          Amor non va fra’ morti :
          la fra quell’ossa ignude,
          quelle membra gelate,

[p. 133 modifica]

          ( il suo foco non arde. ¦
          Oltre che, se pur neo
          v’ebbe Tirsi di colpa, ei n’ha potuto
          lavar la macchia a lagrime correnti.
          Che più? Il poverello,
          pentito de Terror, volea morirne.
          Felice error, di cui si generosa
          ei seppe far l’ammenda!
          Anzi felice errore,
          ond’ha potuto, errando,
          far seco altrui felice !
          Fu ? suo error, se ? rammenti,
          l’amor di Celia; e fu di tanto bene
          fortunata cagion, perocché quindi
          fu conosciuto prima
          Tirsi da Filli, poscia
          Filli da Tirsi, ed ambo alfin da’ traci.
          Nar.Tu di’ ben vero. Mira
          se le vie degli dèi
          sono oscure e ritrose.
          Chi ? crederebbe? In somma }
          è ? cielo un laberinto, in cui si perde
          chiunque va per ispiarne i fati.
          Temo perٍ che quest’amor di Celia,
          ch’è pur fumante ancora,
          non sia per gir turbando,
          se non Tirsi d’ardor, Filli di gelo.
          Non fia cosí leggiere
          spegnere in un momento e quinci e quindi
          amore e gelosia.
          Serp.Deh, che dirai? se Tirsi
          è figliuolo d’Ormino,
          non è fratel di Celia?
          non sarà dunque spento
          l’amor, la gelosia?
          Nar.O mentecatto
          ch’io pur mi son! tante e si nuove cose

[p. 134 modifica]

          tn’han tolto omai di senno.
          Tirsi è fratel di Celia:
          l’amor loro è finito.
          Ma di Celia e d’Aminta
          che diverrà? Già quivi par ch’i’veggia
          dei lor dolori ancora
          non isperato fine.
          Serp.Essi in quel punto
          (mira punto fatale!)
          giunsero al tempio; e Celia,
          allor che, in arrivando,
          vide tutto amoroso
          in braccio a Filli il suo creduto Niso,
          pensa qual si fec’ella!
          Gelata, impallidita, irrigidita
          tutta divenne un sasso.
          Tirsi la vide, e ratto,
          sciolte d’intorno a Filli
          l’avviticchiate braccia,
          corse ver lei dicendo: — O Celia, o cara
          sorella, e non amante,
          io son Tirsi d’Ormin, son tuo fratello!
          Errٍ la nostra fiamma,
          poiché accenderne il core
          dovea natura, e non foco d’amore.
          Amianci or senz’amore; e ’n altra parte
          volgiam le fiamme erranti.
          Costei, ch’io credea morta,
          è sorella d’Aminta, e fu mia sposa
          colà fin da fanciulla.
          Tu, che se’ mia sorella,
          sarai sposa d’Aminta:
          il vostr’amor sei merta,
          non fia chi vel dinieghi. —
          Ciascun v’arrise, ed ella,
          che forse per l’angoscia
          era stordita ancor ned intendea,

[p. 135 modifica]

          poscia che più distinto il ver n’apprese,
          rasserenato il cor, fe’ dolcemente
          isfavillar il viso.
          Nar.E che diss’ella?
          Serp.Tacque, e chinٍ le luci
          vergognosette a terra.
          Ma ben per gli occhi al core
          mandٍ liete e ridenti
          due lagrimette a dire i suoi contenti.
          Nar.O te felice, Aminta!
          o te, Celia, felice!
          o mare, o terra, o cielo,
          o noi tutti felici !
          Ma voi, o Filli, o Tirsi, o sovr’ogni altro
          felicissimi voi, per cui ogni altro
          oggi è tra noi felice!
          Serp.Or poi che tu se’ chiaro, in altra parte
          vo’ gir a seminar le nostre gioie.
          Nar.De’ più intricati nodi,
          che mai ravviluppasse
          la fortuna, girando, ecco ad un colpo, i
          quando parean più stretti,
          ha pur disciolto il cielo. Oh meraviglie!
          A la futura etade
          potran di noi favoleggiar le scene.
          Or cosi per ischerzo
          par che si goda il cielo
          confonder negli abissi
          de’ suoi segreti i semplici mortali.
          Deh voi, che troppo arditi
          co’ vostri umani ingegni
          sperate di veder fin sovra i cieli,
          quinci imparate omai
          che le cose del ciel sol colui vede
          che serra gli occhi e crede.