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Filottete (Sofocle - Romagnoli)/Primo episodio

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Primo episodio

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Sofocle - Filottete (409 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1926)
Primo episodio
Parodo Primo stasimo
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Entra in scena Filottete, zoppicante e gemente.

filottete
O stranieri!
Chi siete voi? Per quale sorte a questa
terra approdaste, inospitale, e priva
di porti? E di che patria e di che stirpe
dirvi dovrei, per giusto appormi? D’Ellade,
dilettissima a me, la foggia parmi
delle vesti; ma udir vorrei la voce.
E non temete il mio selvaggio aspetto,
non esitate sbigottiti: invece,
pietà d’un infelice abbiate, solo,
abbandonato, senza amici: a lui
parlate, se pur qui giungete amici,
favellatemi, su! Voi non potete
negarmi ciò, non io negarlo a voi.
neottolemo
Sappi per prima cosa, ospite, questa:
che siamo Ellèni, se saperlo brami.

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filottete
O carissimo accento! O dolce udire
pure un saluto di quest’uomo, dopo
sí lungo tempo! Che t’adduce, o figlio?
Quale necessità qui ti sospinse?
250qual desiderio? quale a me su tutti
dilettissimo vento? O figlio, parla,
tutto, ch’io l’esser tuo conosca, dimmi.
neottolemo
A Sciro io nacqui, dal mar cinta: navigo
verso la patria: ho nome Neottolemo:
255vanto per padre Achille. Il tutto or sai.
filottete
Figlio di cara terra e di carissimo
padre, pollon del vecchio Licomède1,
che mai t’adduce qui? Da dove navighi?
neottolemo
Da Troia or or la nave mia salpò.
filottete
260Che dici mai? Le navi non salisti
con noi, quando contro Ilio in pria movemmo?
neottolemo
Quell’impresa anche tu partecipasti?

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filottete
Figlio, dunque non sai chi vedi in me?
neottolemo
Come saperlo, se non mai t’ho visto?
filottete
265Né il nome mio, né dei malanni miei
la fama udisti, ond’io sono distrutto?
neottolemo
Io nulla so di quanto dici, sappilo.
filottete
O me troppo infelice, o amaro ai Numi,
che a tal mi sono, e di me fama in patria
270non giunse pur, né in luogo alcun de l’Ellade!
Ma quei ch’empïamente qui m’esposero,
di me ridono, e tacciono; e piú vegeta
sempre il mio morbo, e piú grave diviene.
O figlio, e tu che padre Achille avesti,
275io quegli son di cui tu certo udisti
parlar, che l’armi d’Èrcole possiede,
son Filottete, di Peante il figlio,
che i due sovrani e il re dei Cefallèni2
cosí soletto, turpemente esposero,
280distrutto dal malor, poi che col solco
sanguinolento, l’omicida vipera

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l’ebbe colpito. Col mio morbo, o figlio,
qui soletto m’esposero, e partirono,
il dí che coi navigli v’approdarono
285dalla marina Crise. Allegri, come
videro me dormir, stanco del lungo
ondeggiare dei flutti, entro uno speco,
sciolser le vele, e a me presso lasciarono,
come a un pitocco, pochi cenci, e misera
290provvigïon di cibi. Oh, possa a loro
simil sorte toccare! O figlio mio,
qual pensi tu che il mio risveglio fosse,
quando furon partiti? Le mie lagrime
quali, quali i miei gemiti d’angoscia,
295quando vidi che tutte eran partite
le navi mie, su cui salpato avevo,
e niun compagno presso a me, che aiuto
mi porgesse nel morbo, e m’assistesse,
né, per quanto guardassi, alcun conforto
300ritrovavo per me, tranne il mio cruccio?
Oh, di questo, gran copia avevo, o figlio!
E l’ore all’ore succedeano; e solo
dovevo, sotto questo picciol tetto,
provvedere a me stesso; e quel che al ventre
305era bisogno, lo fornía quest’arco,
a voi colpendo le colombe; e inoltre,
ciò che il dardo colpía, spinto dal nervo,
repevo a raccattarlo, il piede misero
strascicando; e se poi dovevo attingere
310acqua, o l’inverno, quando il gelo effondesi,
fendere legna, allor strisciavo, o misero,
e m’ingegnavo. E poi, fuoco non c’era;
ma, stropicciando silice con silice,
314a stento la scintilla ivi nascosta,

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315fulgea, che salva m’ha finor la vita.
Ché, grazie al fuoco divenuto casa,
tutto lo speco a me procaccia, tranne
il non esser malato. Ora dell’isola
novelle ascolta, o figlio mio. Nocchieri
320mai di buon grado ad essa non s’accostano,
poiché porto non v’è, né dove possano
vender merci, e lucrare, e avere albergo.
Perciò, genti di senno non v’approdano.
Forse, qualcuno a mal suo grado: in lungo
325volger di tempo, anche avvenir può questo.
Quando giungon costoro, mi commiserano,
figlio, a parole; e forse un qualche cibo
v’aggiungon per pietà, forse una veste:
ma niuno vuole poi, quando io lo chieggo,
330salvo trarmi alla patria: e qui, tapino,
già da dieci anni, tra la fame e i guai,
mi struggo, e nutro il mio vorace morbo.
Questo gli Atrídi e il prepotente Ulisse
m’han fatto, o figlio. Deh, vogliano i Superi
335che ciò ch’io soffro essi a lor volta soffrano.
corifeo
Come gli altri che qui giunsero, anch’io,
Filottete, di te provo pietà.
neottolemo
Di tue parole, che son vere, anch’io
posso far fede: anch’io dei tristi Atrídi,
340del furbo Ulisse, esperïenza feci.

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filottete
Ti lamenti anche tu degl’infestissimi
Achivi? Offeso fosti, e n’hai rancore?
neottolemo
Con la mano sfogar possa il mio sdegno,
si che sappia Micene, e sappia Sparta3
345che Sciro4 anch’essa di gagliardi è madre.
filottete
Bene, o figliuolo. E d’onde mai quest’ira
grande, che in cuor nutrendo, a me giungesti?
neottolemo
Sia, ti dirò, sebben dirlo mi pesa,
che smacco ebbi a soffrir, giungendo a Troia.
350Quando a morte il destin condusse Achille...
filottete
Ahimè, non dire piú, prima ch’io sappia
questo: il Pelíde veramente è morto?
neottolemo
Morto. Niun uomo lo colpí; ma un Dio
con le sue frecce: Febo5, a quanto dicono.

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355Nobile chi mori, nobil chi uccise.
Ma incerto son, se prima, o figlio, chiederti
debba il tuo cruccio, o pria pianger l’amico.
neottolemo
Credo che i mali tuoi bastar ti debbano,
senza, o tapino, piangere gli altrui.
filottete
360Tu parli bene. Degli eventi tuoi
torna al racconto, e dimmi in che t’offesero.
neottolemo
Venner sopra una nave ornata a festa
il divo Ulisse e l’aio di mio padre6,
e mi dissero, o falso o ver che fosse,
365che, morto il padre mio, negava il Fato
ch’altri prendesse, se non io, la rocca.
Dettomi ciò, d’uopo non fu di stimoli
a far subito vela: ché pria, brama
del morto mi spingea. di rivederlo
370pria che sepolto fosse; ed io veduto
mai non l’avevo; e la bellezza poi
v’era pur della causa, ov'io, movendo,
Troia espugnassi. Ed il secondo giorno
era ch’io navigavo, e il vento prospero
375all’amaro Sigèo spinto m’aveva.
E, in giro intorno a me, tutto l’esercito

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mi salutava, allor ch’io scesi; e ognuno
in me giurava rivedere Achille
che piú non era: esposto era il suo corpo.
380Io, poiché pianto, o me tapino, l’ebbi,
dopo non lungo tempo, come intendi
bene, agli amici Atrídi mi recai,
l’armi chiedendo di mio padre, e quanto
altro lasciato aveva. Essi, parole
385mi risposero, ahimè, svergognatissime:
«Figlio d’Achille, l’altre cose tutte
che lasciate ha tuo padre, aver tu puoi;
ma l’armi sue già le possiede un altro,
il figlio di Laerte». Io, di rimando,
390súbito in pie’ balzai, nell’ira acerba
che mi vinceva, esacerbato, e dissi:
«O tristi, a un altro, dunque, e non a me
osaste dare l’armi mie, né motto
me ne faceste!» — E Ulisse, che per caso
395era ivi presso, sí disse: «O fanciullo,
questo partito han preso, e fu giustizia:
ché l’armi e il corpo stesso in salvo io posi».
Ond’io súbito, irato, lo battei
con vituperî d’ogni specie, e alcuno
400non ne scordai, perché quegli voleva
l’armi, ch’erano mie, togliermi. Allora,
egli, sebbene tardo all’ira, morso
da ciò ch’io gli dicea, sí mi rispose:
«Non eri dove eravam noi: lungi eri,
405dove esser non dovevi. Ora, quest’armi,
poiché con tanta tracotanza parli,
non avrai teco, veleggiando a Sciro».
Offeso ora io da questi oltraggi turpi,
verso la patria navigo, spogliato

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dei beni miei da Ulisse, dal tristissimo
fra tutti i tristi. E non dò tanto a lui
la colpa, quanto a quelli che comandano;
ché tutta la città, tutto l’esercito
sono di chi li guida; e chi male opera,
tristo diviene pei costumi tristi
dei suoi maestri. Tutto ora hai saputo.
E chi gli Atrídi aborre, ai Numi sempre
caro esser possa, com’è caro a me.

Note

  1. [p. 245 modifica]Pollon del vecchio Licomede, perché Licomede, re di Sciro, era padre di Deidamia, madre di Neottolemo.
  2. [p. 245 modifica]Il re dei Cefalleni è Ulisse.
  3. [p. 245 modifica]Micene, cioè Agamennone; Sparta, cioè Menelao.
  4. [p. 246 modifica]Nell’isola di Sciro era nato Neottolemo.
  5. [p. 246 modifica]Febo Apollo, che diresse la saetta di Paride.
  6. [p. 246 modifica]L’aio di mio padre, cioè Fenice.