Gerusalemme liberata/Canto primo

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Canto primo

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Gerusalemme liberata Canto secondo


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F. PIETRO


ARGOMENTO.

     Manda a Tortosa Dio l’Angelo; u’ poi
Goffredo aduna i Principi Cristiani.
Quivi concordi que’ famosi Eroi
Lui Duce fan degli altri Capitani.
Quinci egli pria vuol rivedere i suoi
Sotto l’insegne; e poi gl’invia ne’ piani
Ch’a Sion vanno: intanto di Giudea
Il Re si turba alla novella rea.


CANTO PRIMO.


Canto l’arme pietose, e ’l Capitano
Che ’l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò col senno e con la mano;
4Molto soffrì nel glorioso acquisto:
E invan l’Inferno a lui s’oppose; e invano
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto:
Chè ’l Ciel gli diè favore, e sotto ai santi
8Segni ridusse i suoi compagni erranti.

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II.


     O Musa, tu, che di caduchi allori
Non circondi la fronte in Elicona,
Ma su nel Cielo infra i beati cori
12Hai di stelle immortali aurea corona;
Tu spira al petto mio celesti ardori,
Tu rischiara il mio canto, e tu perdona
S’intesso fregj al ver, s’adorno in parte
16D’altri diletti, che de’ tuoi le carte.

III.


     Sai che là corre il mondo, ove più versi
Di sue dolcezze il lusinghier Parnaso;
E che ’l vero condito in molli versi,
20I più schivi allettando ha persuaso.
Così all’egro fanciul porgiamo aspersi
Di soavi licor gli orli del vaso:
Succhi amari, ingannato, intanto ei beve,
24E dall’inganno suo vita riceve.

IV.


     Tu magnanimo Alfonso, il qual ritogli
Al furor di fortuna, e guidi in porto
Me peregrino errante, e fra gli scoglj,
28E fra l’onde agitato, e quasi assorto;
Queste mie carte in lieta fronte accogli,
Che quasi in voto a te sacrate i’ porto.
Forse un dì fia, che la presaga penna
32Osi scriver di te quel ch’or n’accenna.

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V.


     È ben ragion, (s’egli averrà ch’n pace
Il buon popol di Cristo unqua si veda,
E con navi e cavalli al fero Trace
36Cerchi ritor la grande ingiusta preda,)
Ch’a te lo scettro in terra o, se ti piace
L’alto imperio de’ mari a te conceda.
Emulo di Goffredo, i nostri carmi
40Intanto ascolta, e t’apparecchia a l’armi.

VI.


     Già ’l sesto anno volgea, ch’n Oriente
Passò il campo Cristiano a l’alta impresa;
E Nicea per assalto, e la potente
44Antiochia con arte avea già presa.
L’avea poscia in battaglia incontra gente
Di Persia innumerabile difesa,
E Tortosa espugnata; indi a la rea
48Stagion diè loco, e ’l novo anno attendea.

VII.


     E ’l fine omai di quel piovoso inverno,
Che fea l’arme cessar, lunge non era;
Quando da l’alto soglio il Padre eterno,
52Ch’è ne la parte più del Ciel sincera,
E quanto è da le stelle al basso inferno,
Tanto è più in su de la stellata spera,
Gli occhi in giù volse, e in un sol punto e in una
56Vista mirò ciò ch’n se il mondo aduna.

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VIII.


     Mirò tutte le cose, ed in Soría
S’affissò poi ne’ Principi Cristiani;
E con quel guardo suo ch’addentro spia
60Nel più secreto lor gli affetti umani,
Vede Goffredo che scacciar desia
Dalla santa Città gli empj Pagani:
E pien di fè, di zelo, ogni mortale
64Gloria, impero, tesor mette in non cale.

IX.


     Ma vede in Baldovin cupido ingegno
Ch’all’umane grandezze intento aspira:
Vede Tancredi aver la vita a sdegno,
68Tanto un suo vano amor l’ange e martira!
E fondar Boemondo al novo regno
Suo d’Antiochia alti principj mira;
E leggi imporre, ed introdur costume,
72Ed arti, e culto di verace nume.

X.


     E cotanto internarsi in tal pensiero,
Ch’altra impresa non par che più rammenti.
Scorge in Rinaldo ed animo guerriero,
76E spirti di riposo impazienti.
Non cupidigia in lui d’oro o d’impero,
Ma d’onor brame immoderate, ardenti.
Scorge che dalla bocca intento pende
80Di Guelfo, e i chiari antichi esempj apprende.

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XI.


     Ma poich’ebbe di questi, e d’altri cori
Scorti gl’intimi sensi il Re del mondo;
Chiama a se da gli angelici splendori
84Gabriel, che ne’ primi era secondo.
È tra Dio, questi, e l’anime migliori
Interprete fedel, nunzio giocondo:
Giù i decreti del Ciel porta, ed al Cielo
88Riporta de’ mortali i preghi, e ’l zelo.

XII.


     Disse al suo nunzio Dio: Goffredo trova,
E in mio nome dì lui; perchè si cessa?
Perchè la guerra omai non si rinnova,
92A liberar Gerusalemme oppressa?
Chiami i Duci a consiglio, e i tardi mova
All’alta impresa: ei capitan fia d’essa.
Io quì l’eleggo, e ’l faran gli altri in terra,
96Già suoi compagni, or suoi ministri in guerra.

XIII.


     Così parlogli; e Gabriel s’accinse
Veloce ad esequir l’imposte cose.
La sua forma invisibil d’aria cinse,
100Ed al senso mortal la sottopose.
Umane membra, aspetto uman si finse,
Ma di celeste maestà il compose.
Tra giovane e fanciullo età confine
104Prese, ed ornò di raggi il biondo crine.

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XIV.


     Ali bianche vestì c’han d’or le cime,
Infaticabilmente agili e preste.
Fende i venti e le nubi, e va sublime
108Sovra la terra, e sovra il mar con queste.
Così vestito, indirizzossi all’ime
Parti del mondo il messaggier celeste:
Pria sul Libano monte ei si ritenne,
112E si librò sull’adeguate penne.

XV.


     E ver le piagge di Tortosa poi
Drizzò, precipitando, il volo in giuso.
Sorgeva il nuovo sol dai lidi Eoi,
116Parte già fuor, ma ’l più nell’onde chiuso:
E porgea mattutini i preghi suoi
Goffredo a Dio, come egli avea per uso;
Quando a paro col sol, ma più lucente,
120L’Angelo gli apparì dall’Oriente.

XVI.


     E gli disse; Goffredo, ecco opportuna
Già la stagion ch’al guerreggiar s’aspetta:
Perchè dunque trapor dimora alcuna
124A liberar Gerusalem soggetta?
Tu i Principi a consiglio omai raguna:
Tu al fin dell’opra i neghittosi affretta.
Dio per lor duce già t’elegge; ed essi
128Sopporran volontarj a te se stessi.

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XVII.


     Dio messaggier mi manda: io ti rivelo
La sua mente in suo nome. Oh quanta spene
Aver d’alta vittoria, oh quanto zelo
132Dell’oste a te commessa or ti conviene!
Tacque; e sparito, rivolò del Cielo
Alle parti più eccelse e più serene.
Resta Goffredo ai detti, allo splendore,
136D’occhj abbagliato, attonito di core.

XVIII.


     Ma poi che si riscuote, e che discorre
Chi venne, chi mandò, chè gli fu detto,
Se già bramava, or tutto arde d’imporre
140Fine alla guerra, ond’egli è duce eletto.
Non che ’l vedersi agli altri in Ciel preporre
D’aura d’ambizion gli gonfi il petto;
Ma il suo voler più nel voler s’infiamma
144Del suo signor, come favilla in fiamma.

XIX.


     Dunque gli Eroi compagni, i quai non lunge
Erano sparsi, a ragunarsi invita.
Lettere a lettre, e messi a messi aggiunge:
148Sempre al consiglio è la preghiera unita.
Ciò ch’alma generosa alletta e punge,
Ciò che può risvegliar virtù sopita,
Tutto par che ritrovi; e in efficace
152Modo l’adorna sì, che sforza e piace.

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XX.


     Vennero i Duci, e gli altri anco seguiro;
E Boemondo sol quì non convenne.
Parte fuor s’attendò, parte nel giro,
156E tra gli alberghi suoi Tortosa tenne.
I grandi dell’esercito s’uniro
(Glorioso senato!) in dì solenne.
Quì il pio Goffredo incominciò tra loro,
160Augusto in volto, ed in sermon sonoro:

XXI.


     Guerrier di Dio, ch’a ristorare i danni
Della sua fede il Re del Cielo elesse:
E securi fra l’arme, e fra gl’inganni
164Della terra e del mar, vi scorse e resse;
Sicch’abbiam tante e tante in sì pochi anni
Ribellanti provincie a lui sommesse:
E fra le genti debellate e dome,
168Stese l’insegne sue vittrici, e ’l nome;

XXII.


     Già non lasciammo i dolci pegni, e ’l nido
Nativo noi (se ’l creder mio non erra)
Nè la vita esponemmo al mare infido,
172Ed a’ periglj di lontana guerra,
Per acquistar di breve suono un grido
Volgare, e posseder barbara terra;
Chè proposto ci avremmo angusto e scarso
176Premio, e in danno dell’alme il sangue sparso.

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XXIII.


     Ma fu de’ pensier nostri ultimo segno
Espugnar di Sion le nobil mura;
E sottrarre i Cristiani al giogo indegno
180Di servitù così spiacente e dura:
Fondando in Palestina un novo regno,
Ov’abbia la pietà sede sicura:
Nè sia chi neghi al peregrin devoto
184D’adorar la gran tomba, e sciorre il voto.
     

XXIV.


     Dunque il fatto sin ora al rischio è molto,
Più che molto al travaglio, all’onor poco,
Nulla al disegno; ove o si fermi, o volto
188Sia l’impeto dell’arme in altro loco.
Che gioverà l’aver d’Europa accolto
Sì grande sforzo, e posto in Asia il foco,
Quando sia poi di sì gran moti il fine,
192Non fabbriche di regni, ma ruine?
     

XXV.


     Non edifica quei che vuol gl’imperi
Su fondamenti fabricar mondani:
Ove ha pochi di patria e fè stranieri,
196Fra gl’infiniti popoli Pagani:
Ove ne’ Greci non convien che speri,
E i favor d’Occidente ha sì lontani;
Ma ben move ruine, ond’egli oppresso,
200Sol construtto un sepolcro abbia a se stesso.

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XXVI.


     Turchi, Persi, Antiochia (illustre suono,
E di nome magnifico e di cose!)
Opre nostre non già; ma del Ciel dono
204Furo, e vittorie in ver maravigliose.
Or, se da noi rivolte, e torte sono
Contra quel fin che ’l donator dispose;
Temo cen privi; e favola alle genti
208Quel sì chiaro rimbombo alfin diventi.

XXVII.


     Ah non sia alcun, per Dio, che sì graditi
Doni in uso sì reo perda, e diffonda.
A quei che sono alti principj orditi,
212Di tutta l’opra il filo, e ’l fin risponda.
Ora che i passi liberi e spediti,
Ora che la stagione abbiam seconda,
Chè non corriamo alla città ch’è meta
216D’ogni nostra vittoria? e chè più ’l vieta?

XXVIII.


     Principi, io vi protesto (i miei protesti
Udrà il mondo presente, udrà il futuro:
L’odono or su nel Ciel anco i celesti)
220Il tempo dell’impresa è già maturo.
Men divien opportun, più che si resti:
Incertissimo fia quel che è sicuro.
Presago son, s’è lento il nostro corso,
224Ch’avrà d’Egitto il Palestin soccorso.

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XXIX.


     Disse: e ai detti seguì breve bisbiglio;
Ma sorse poscia il solitario Piero,
Che, privato, fra’ Principi a consiglio
228Sedea, del gran passaggio autor primiero.
Ciò ch’esorta Goffredo, ed io consiglio:
Nè loco a dubbio v’ha, sì certo è il vero,
E per se noto; ei dimostrollo a lungo,
232Voi l’approvate: io questo sol v’aggiungo:
     

XXX.


     Se ben raccolgo le discordie e l’onte
Quasi a prova da voi fatte e patite,
I ritrosi pareri, e le non pronte,
236E in mezzo all’esequire opre impedite;
Reco ad un’alta originaria fonte
La cagion d’ogni indugio e d’ogni lite:
A quella autorità, che in molti e varj
240D’opinion, quasi librata, è pari.
     

XXXI.


     Ove un sol non impera, onde i giudícj
Pendano poi de’ premj, e delle pene,
Onde sian compartite opre, ed uficj;
244Ivi errante il governo esser conviene.
Deh fate un corpo sol di membri amici:
Fate un capo che gli altri indrizzi e frene:
Date ad un sol lo scettro, e la possanza,
248E sostenga di Re vece, e sembianza.
     

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XXXII.


     Qui tacque il veglio. Or quai pensier, quai petti
Son chiusi a te, sant’aura, e divo ardore?
Inspiri tu dell’Eremita i detti,
252E tu gl’imprimi ai cavalier nel core:
Sgombri gl’inserti, anzi gl’innati affetti
Di sovrastar, di libertà, d’onore:
Sicchè Guglielmo e Guelfo, i più sublimi,
256Chiamar Goffredo per lor Duce i primi.

XXXIII.


     L’approvar gli altri. Esser sue parti denno
Deliberare, e comandare altrui.
Imponga ai vinti legge egli a suo senno:
260Porti la guerra, e quando vuole, e a cui.
Gli altri, già pari, ubbidienti al cenno
Siano or ministri de gl’imperj sui.
Concluso ciò, fama ne vola, e grande
264Per le lingue degli uomini si spande.

XXXIV.


     Ei si mostra ai soldati: e ben lor pare
Degno dell’alto grado ove l’han posto;
E riceve i saluti, e ’l militare
268Applauso, in volto placido e composto.
Poich’alle dimostranze umili e care
D’amor, d’ubbidienza ebbe risposto,
Impon che ’l dì seguente, in un gran campo,
272Tutto si mostri a lui schierato il Campo.

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XXXV.


     Facea nell’Oriente il Sol ritorno,
Sereno e luminoso oltre l’usato;
Quando co’ raggj uscì del novo giorno
276Sotto l’insegne ogni guerriero armato:
E si mostrò quanto potè più adorno
Al pio Buglion, girando il largo prato.
S’era egli fermo, e si vedea davanti
280Passar distinti i cavalieri e i fanti.

XXXVI.


     Mente, degli anni, e dell’obblio nemica,
Delle cose custode, e dispensiera,
Vagliami tua ragion, sicch’io ridica
284Di quel campo ogni Duce, ed ogni schiera:
Suoni e risplenda la lor fama antica,
Fatta dagli anni omai tacita e nera;
Tolto da’ tuoi tesori, orni mia lingua
288Ciò ch’ascolti ogni età, nulla l’estingua.

XXXVII.


     Prima i Franchi mostrarsi: il Duce loro
Ugone esser solea, del Re fratello.
Nell’Isola di Francia eletti foro
292Fra quattro fiumi, ampio paese e bello.
Poscia ch’Ugon morì, de’ Giglj d’oro
Seguì l’usata insegna il fier drappello
Sotto Clotareo capitano egregio,
296A cui, se nulla manca, è il nome regio.

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XXXVIII.


     Mille son di gravissima armatura:
Sono altrettanti i cavalier seguenti,
Di disciplina ai primi, e di natura,
300E d’arme e di sembianza indifferenti;
Normandi tutti, e gli ha Roberto in cura,
Ch’è principe natío di quelle genti.
Poi duo pastor di popoli spiegaro
304Le squadre lor, Guglielmo, ed Ademaro.

XXXIX.


     L’uno e l’altro di lor, che ne’ divini
Uficj già trattò pio ministero,
Sotto l’elmo premendo i lunghi crini,
308Esercita dell’arme or l’uso fero:
Dalla Città d’Orange, e dai confini
Quattrocento guerrier scelse il primiero.
Ma guida quei di Poggio in guerra l’altro,
312Numero egual, nè men nell’arme scaltro.

XL.


     Baldovin poscia in mostra addur si vede
Co’ Bolognesi suoi quei del germano:
Che le sue genti il pio fratel gli cede
316Or ch’ei de’ Capitani è Capitano.
Il conte de’ Carnuti indi succede,
Potente di consiglio, e pro’ di mano.
Van con lui quattrocento: e triplicati
320Conduce Baldovino in sella armati.

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XLI.


     Occupa Guelfo il campo a lor vicino,
Uom che all’alta fortuna agguaglia il merto.
Conta costui per genitor Latino
324Degli avi Estensi un lungo ordine e certo.
Ma German di cognome e di domíno,
Nella gran casa de’ Guelfoni è inserto.
Regge Carintia, e presso l’Istro e ’l Reno
328Ciò che i prischi Suevi e i Reti avieno.

XLII.


     A questo, che retaggio era materno,
Acquisti ei giunse gloriosi e grandi.
Quindi gente traea che prende a scherno
332D’andar contra la morte, ov’ei comandi:
Usa a temprar ne’ caldi alberghi il verno,
E celebrar con lieti inviti i prandi.
Fur cinquemila alla partenza; e appena
336(De’ Persi avanzo) il terzo or quì ne mena.

XLIII.


     Seguia la gente poi candida e bionda,
Che tra i Franchi, e i Germani, e ’l mar si giace,
Ove la Mosa, ed ove il Reno inonda,
340Terra di biade e d’animai ferace:
E gl’Insulani lor, che d’alta sponda
Riparo fansi all’Ocean vorace:
L’Ocean, che non pur le merci e i legni,
344Ma intere inghiotte le cittadi, e i regni.

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XLIV.


     Gli uni e gli altri son mille: e tutti vanno
Sotto un altro Roberto insieme a stuolo.
Maggior alquanto è lo squadron Britanno:
348Guglielmo il regge al Re minor figliuolo.
Sono gl’Inglesi sagittarj, ed hanno
Gente con lor, ch’è più vicina al polo.
Questi dall’alte selve irsuti manda
352La divisa dal mondo ultima Irlanda.

XLV.


     Vien poi Tancredi; e non è alcun fra tanti
(Tranne Rinaldo) o feritor maggiore,
O più bel di maniere e di sembianti,
356O più eccelso ed intrepido di core.
S’alcun’ombra di colpa i suoi gran vanti
Rende men chiari, è sol follia d’amore:
Nato fra l’arme, amor di breve vista,
360Che si nutre d’affanni, e forza acquista.

XLVI.


     È fama che quel dì che glorioso
Fe’ la rotta de’ Persi il popol Franco:
Poichè Tancredi alfin vittorioso
364I fuggitivi di seguir fu stanco;
Cercò di refrigerio, e di riposo
All’arse labbia, al travagliato fianco:
E trasse, ove invitollo al rezzo estivo,
368Cinto di verdi seggj, un fonte vivo.

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XLVII.


     Quivi a lui d’improvviso una donzella,
Tutta, fuor che la fronte, armata apparse.
Era Pagana, e là venuta anch’ella
372Per l’istessa cagion di ristorarse.
Egli mirolla, ed ammirò la bella
Sembianza, e d’essa si compiacque, e n’arse.
Oh maraviglia! Amor ch’appena è nato,
376Già grande vola, e già trionfa armato.

XLVIII.


     Ella d’elmo coprissi, e se non era
Ch’altri quivi arrivar, ben l’assaliva.
Partì dal vinto suo la donna altera,
380Ch’è per necessità sol fuggitiva;
Ma l’immagine sua bella e guerriera
Tale ei serbò nel cor, qual’essa è viva.
E sempre ha nel pensiero e l’atto e ’l loco,
384In che la vide, esca continua al foco.

XLIX.


     E ben nel volto suo la gente accorta
Legger potria: questi arde, e fuor di spene;
Così vien sospiroso, e così porta
388Basse le ciglia, e di mestizia piene.
Gli ottocento a cavallo, a cui fa scorta,
Lasciar le piagge di campagna amene;
Pompa maggior della Natura, e i colli
392Che vagheggia il Tirren fertili e molli.

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L.


     Venian dietro ducento in Grecia nati,
Che son quasi di ferro in tutto scarchi:
Pendon spade ritorte all’un de’ lati:
396Suonano al tergo lor faretre ed archi:
Asciutti hanno i cavalli al corso usati,
Alla fatica invitti, al cibo parchi:
Nell’assalir son pronti, e nel ritrarsi;
400E combatton fuggendo erranti e sparsi.

LI.


     Tazio regge la schiera; e sol fu questi
Che, Greco, accompagnò l’arme Latine.
Oh vergogna, o misfatto! or non avesti
404Tu Grecia quelle guerre a te vicine?
E pur quasi a spettacolo sedesti,
Lenta aspettando de’ grand’atti il fine.
Or se tu sei vil serva, è il tuo servaggio
408(Non ti lagnar) giustizia, e non oltraggio.

LII.


     Squadra d’ordine estrema ecco vien poi,
Ma d’onor prima, e di valore e d’arte.
Son quì gli avventurieri invitti eroi,
412Terror dell’Asia, e folgori di Marte.
Taccia Argo i Mini, e taccia Artù que’ suoi
Erranti, che di sogni empion le carte:
Ch’ogni antica memoria appo costoro
416Perde: or qual duce fia degno di loro?

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LIII.


     Dudon di Consa è il duce; e perchè duro
Fu il giudicar di sangue e di virtute,
Gli altri sopporsi a lui concordi furo,
420Ch’avea più cose fatte, e più vedute.
Ei di virilità grave e maturo
Mostra in fresco vigor chiome canute.
Mostra, quasi d’onor vestigj degni,
424Di non brutte ferite impressi segni.

LIV.


     Eustazio è poi fra’ primi: e i proprj pregj
Illustre il fanno, e più il fratel Buglione.
Gernando v’è, nato di Re Norvegi,
428Che scettri vanta, e titoli, e corone.
Ruggier di Balnavilla infra gli egregj,
La vecchia fama, ed Engerlan ripone.
E celebrati son fra’ più gagliardi
432Un Gentonio, un Rambaldo e duo Gherardi.

LV.


     Son fra lodati Ubaldo anco, e Rosmondo,
Del gran Ducato di Lincastro erede.
Non fia ch’Obizo il Tosco aggravi al fondo
436Chi fa delle memorie avare prede:
Nè i tre fratei Lombardi al chiaro mondo
Involi, Achille, Sforza, e Palamede:
O ’l forte Otton, che conquistò lo scudo,
440In cui dall’angue esce il fanciullo ignudo.

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LVI.


     Nè Guasco, nè Ridolfo addietro lasso:
Nè l’un nè l’altro Guido, ambo famosi.
Non Eberardo, e non Gernier trapasso
444Sotto silenzio ingratamente ascosi.
Ove voi me, di numerar già lasso,
Gildippe, ed Odoardo amanti e sposi
Rapite? o nella guerra anco consorti,
448Non sarete disgiunti, ancor che morti.

LVII.


     Nelle scuole d’Amor che non s’apprende?
Ivi si fe’ costei guerriera ardita.
Va sempre affissa al caro fianco, e pende
452Da un fato solo l’una e l’altra vita.
Colpo ch’ad un sol noccia unqua non scende,
Ma indiviso è il dolor d’ogni ferita.
E spesso è l’un ferito, e l’altro langue:
456E versa l’alma quel, se questa il sangue.

LVIII.


     Ma il fanciullo Rinaldo e sovra questi,
E sovra quanti in mostra eran condutti,
Dolcemente feroce alzar vedresti
460La regal fronte, e in lui mirar sol tutti.
L’età precorse, e la speranza: e presti
Pareano i fior, quando n’usciro i frutti.
Se ’l miri fulminar nell’arme avvolto,
464Marte lo stimi: Amor, se scopre il volto.

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LIX.


     Lui nella riva d’Adige produsse
A Bertoldo Sofia, Sofia la bella
A Bertoldo il possente: e pria che fusse
468Tolto quasi il bambin dalla mammella,
Matilda il volle, e nutricollo, e instrusse
Nell’arti regie; e sempre ei fu con ella,
Sin ch’invaghì la giovinetta mente
472La tromba che s’udia dall’Oriente.

LX.


     Allor (nè pur tre lustri avea finiti)
Fuggì soletto, e corse strade ignote:
Varcò l’Egeo, passò di Grecia i liti,
476Giunse nel campo in region remote.
Nobilissima fuga, e che l’imiti
Ben degna alcun magnanimo nipote.
Tre anni son ch’è in guerra: e intempestiva
480Molle piuma del mento appena usciva.

LXI.


     Passati i cavalieri, in mostra viene
La gente a piedi, ed è Raimondo avanti.
Reggea Tolosa, e scelse infra Pirene,
484E fra Garona, e l’Ocean suoi fanti.
Son quattromila, e ben armati, e bene
Instrutti, usi al disagio, e tolleranti.
Buona è la gente, e non può da più dotta,
488O da più forte guida esser condotta.

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LXII.


     Ma cinquemila Stefano d’Ambuosa
E di Blesse, e di Turs in guerra adduce.
Non è gente robusta o faticosa,
492Sebben tutta di ferro ella riluce.
La terra molle e lieta e dilettosa,
Simili a se gli abitator produce.
Impeto fan nelle battaglie prime;
496Ma di leggier poi langue, e si reprime.

LXIII.


     Alcasto il terzo vien, qual presso a Tebe
Già Capaneo, con minaccioso volto.
Sei mila Elvezj, audace e fiera plebe,
500Dagli Alpini castelli avea raccolto:
Che ’l ferro uso a far solchi, e franger glebe,
In nove forme, e in più degne opre ha volto,
E con la man, che guardò rozzi armenti,
504Par che i Regi sfidar nulla paventi.

LXIV.


     Vedi appresso spiegar l’alto vessillo
Col diadema di Piero, e con le chiavi.
Quì settemila aduna il buon Cammillo
508Pedoni, d’arme rilucenti e gravi:
Lieto, ch’a tanta impresa il ciel sortillo,
Ove rinnovi il prisco onor degli avi:
O mostri almen ch’alla virtù Latina,
512O nulla manca, o sol la disciplina.

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LXV.


     Ma già tutte le squadre eran con bella
Mostra passate, e l’ultima fu questa:
Quando Goffredo i maggior duci appella,
516E la sua mente a lor fa manifesta.
Come appaja diman l’alba novella
Vuo’ che l’oste s’invii leggiera e presta:
Sicch’ella giunga alla città sacrata,
520Quanto è possibil più, meno aspettata.

LXVI.


     Preparatevi dunque ed al viaggio
Ed alla pugna, e alla vittoria ancora.
Questo ardito parlar d’uom così saggio
524Sollecita ciascuno, e l’avvalora.
Tutti d’andar son pronti al novo raggio,
E impazienti in aspettar l’aurora.
Ma ’l provvido Buglion senza ogni tema
528Non è però, benchè nel cor la prema.

LXVII.


     Perch’egli avea certe novelle intese,
Che s’è d’Egitto il Re già posto in via
In verso Gaza, bello e forte arnese
532Da fronteggiare i regni di Soria.
Nè creder può, che l’uomo, a fere imprese
Avvezzo sempre, or lento in ozio stia;
Ma d’averlo, aspettando, aspro nemico,
536Parla al fedel suo messaggiero Enrico:

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LXVIII.


     Sovra una lieve saettía, tragitto
Vuo’ che tu faccia nella Greca terra.
Ivi giunger dovea (così m’ha scritto
540Chi mai per uso in avvisar non erra)
Un giovine regal, d’animo invitto,
Ch’a farsi vien nostro compagno in guerra:
Prence è de’ Dani, e mena un grande stuolo
544Sin dai paesi sottoposti al polo.

LXIX.


     Ma perchè ’l Greco Imperator fallace
Seco forse userà le solite arti,
Per far ch’o torni indietro, o ’l corso audace
548Torca in altre da noi lontane parti;
Tu, nunzio mio, tu, consiglier verace,
In mio nome il disponi a ciò che parti
Nostro e suo bene: e dì che tosto vegna;
552Chè di lui fora ogni tardanza indegna.

LXX.


     Non venir seco tu; ma resta appresso
Al Re de’ Greci a procurar l’ajuto;
Che già più d’una volta a noi promesso,
556È per ragion di patto anco dovuto.
Così parla, e l’informa; e poichè ’l messo
Le lettre ha di credenza, e di saluto;
Toglie, affrettando il suo partir, congedo:
560E tregua fa co’ suoi pensier Goffredo.

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LXXI.


     Il dì seguente, allor ch’aperte sono
Del lucido Oriente al Sol le porte,
Di trombe udissi, e di tamburi un suono,
564Ond’al cammino ogni guerrier s’esorte.
Non è sì grato ai caldi giorni il tuono,
Che speranza di pioggia al mondo apporte,
Come fu caro alle feroci genti
568L’altero suon de’ bellici instrumenti.

LXXII.


     Tosto ciascun, da gran desio compunto,
Veste le membra delle usate spoglie:
E tosto appar di tutte l’arme in punto:
572Tosto sotto i suoi Duci ogn’uom s’accoglie.
E l’ordinato esercito congiunto
Tutte le sue bandiere al vento scioglie;
E nel vessillo imperiale e grande
576La trionfante Croce al ciel si spande.

LXXIII.


     Intanto il Sol, che de’ celesti campi
Va più sempre avanzando, e in alto ascende,
L’armi percote, e ne trae fiamme e lampi
580Tremuli e chiari, onde le viste offende.
L’aria par di faville intorno avvampi,
E quasi d’alto incendio in forma splende;
E co’ feri nitriti il suono accorda
584Del ferro scosso, e le campagne assorda.

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LXXIV.


     Il Capitan, che da’ nemici agguati
Le schiere sue d’assicurar desia,
Molti a cavallo leggiermente armati
588A scoprir il paese intorno invia.
E innanzi i guastatori avea mandati,
Da cui si debba agevolar la via,
E i voti luoghi empire, e spianar gli erti:
592E da cui siano i chiusi passi aperti.

LXXV.


     Non è gente Pagana insieme accolta,
Non muro cinto di profonda fossa,
Non gran torrente, o monte alpestre, o folta
596Selva, che ’l lor viaggio arrestar possa.
Così degli altri fiumi il Re talvolta,
Quando superbo oltra misura ingrossa,
Sovra le sponde ruinoso scorre:
600Nè cosa è mai che gli s’ardisca opporre.

LXXVI.


     Sol di Tripoli il Re, che ’n ben guardate
Mura, genti, tesori, ed arme serra,
Forse le schiere Franche avria tardate;
604Ma non osò di provocarle in guerra.
Lor con messi, e con doni anco placate
Ricettò volontario entro la terra:
E ricevè condizion di pace,
608Siccome imporle al pio Goffredo piace.

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LXXVII.


     Quì del Monte Seir, ch’alto e sovrano
Dall’Oriente alla Cittade è presso,
Gran turba scese di fedeli al piano,
612D’ogni età mescolata, e d’ogni sesso.
Portò suoi doni al vincitor Cristiano:
Godea in mirarlo, e in ragionar con esso:
Stupia dell’armi peregrine: e guida
616Ebbe da lor Goffredo amica e fida.


Gran turba scese di Fedeli al piano,
D’ogni età mescolata, e d’ogni sesso.



LXXVIII.


     Conduce ei sempre alle marittime onde
Vicino il campo per diritte strade;
Sapendo ben che le propinque sponde
620L’amica armata costeggiando rade:
La qual può far che tutto il campo abbonde
De’ necessarj arnesi; e che le biade
Ogn’isola de’ Greci a lui sol mieta:
624E Scio pietrosa gli vendemmi, e Creta.

LXXIX.


     Geme il vicino mar sotto l’incarco
Dell’alte navi, e de’ più levi pini:
Sicchè non s’apre omai sicuro varco
628Nel mar Mediterraneo ai Saracini.
Ch’oltre a quei c’ha Giorgio armati, e Marco
Ne’ Viniziani, e Liguri confini;
Altri Inghilterra, e Francia, ed altri Olanda,
632E la fertil Sicilia altri ne manda.

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LXXX.


     E questi che son tutti insieme uniti
Con saldissimi laccj in un volere,
S’eran carchi, e provvisti in varj liti
636Di ciò ch’è d’uopo alle terrestri schiere:
Le quai trovando liberi e sforniti
I passi de’ nemici alle frontiere;
In corso velocissimo sen vanno
640Là ’ve Cristo soffrì mortale affanno.

LXXXI.


     Ma precorsa è la fama apportatrice
De’ veraci romori, e de’ bugiardi:
Ch’unito è il campo vincitor felice:
644Che già s’è mosso, e che non è chi ’l tardi:
Quante e quai sian le squadre ella ridice:
Narra il nome, e ’l valor de’ più gagliardi:
Narra i lor vanti, e con terribil faccia
648Gli usurpatori di Sion minaccia.

LXXXII.


     E l’aspettar del male è mal peggiore,
Forse, che non parrebbe il mal presente;
Pende ad ogn’aura incerta di romore
652Ogni orecchia sospesa, ed ogni mente:
E un confuso bisbiglio, entro e di fuore,
Trascorre i campi, e la città dolente.
Ma il vecchio Re ne’ già vicin periglj
656Volge nel dubbio cor feri consiglj.

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LXXXIII.


     Aladin detto è il Re, che di quel regno
Novo signor, vive in continua cura.
Uom già crudel; ma ’l suo feroce ingegno
660Pur mitigato avea l’età matura.
Egli, che de’ Latini udì il disegno
C’han d’assalir di sua città le mura,
Giunge al vecchio timor novi sospetti;
664E de’ nemici pave, e de’ soggetti.

LXXXIV.


     Perocchè dentro a una città commisto
Popolo alberga, di contraria fede,
La debil parte e la minore in Cristo,
668La grande e forte in Macometto crede:
Ma quando il Re fe’ di Sion l’acquisto,
E vi cercò di stabilir la sede,
Scemò i publici pesi a’ suoi Pagani;
672Ma più gravonne i miseri Cristiani.

LXXXV.


     Questo pensier, la ferità nativa
Che dagli anni sopita, e fredda langue,
Irritando inasprisce, e la ravviva
676Sì, ch’assetata è più che mai di sangue.
Tal fero torna alla stagione estiva
Quel che parve nel giel piacevol angue:
Così leon domestico riprende
680L’innato suo furor, s’altri l’offende.

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LXXXVI.


     Veggio (dicea) della letizia nova
Veraci segni in questa turba infida.
Il danno universal solo a lei giova:
684Sol nel pianto comun par ch’ella rida.
E forse insidie e tradimenti or cova,
Rivolgendo fra sè come m’uccida:
O come al mio nemico, e suo consorte
688Popolo, occultamente apra le porte.

LXXXVII.


     Ma nol farà; prevenirò questi empj
Disegni loro, e sfogherommi appieno.
Gli ucciderò, faronne acerbi scempj:
692Svenerò i figlj alle lor madri in seno:
Arderò loro alberghi, e insieme i tempj.
Questi i debiti roghi ai morti fieno,
E su quel lor sepolcro, in mezzo ai voti,
696Vittime pria farò de’ Sacerdoti.

LXXXVIII.


     Così l’iniquo fra suo cor ragiona;
Pur non segue pensier sì mal concetto.
Ma s’a quegli innocenti egli perdona,
700È di viltà, non di pietade effetto.
Chè s’un timor a incrudelir lo sprona,
Il ritien più potente altro sospetto:
Troncar le vie d’accordo, e de’ nemici
704Troppo teme irritar l’arme vittrici.

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LXXXIX.


     Tempra dunque il fellon la rabbia insana:
Anzi altrove pur cerca ove la sfoghi;
I rustici edifizj abbatte e spiana,
708E dà in preda alle fiamme i culti luoghi;
Parte alcuna non lascia integra o sana,
Ove il Franco si pasca, ove s’alloghi.
Turba le fonti e i rivi, e le pure onde
712Di veneni mortiferi confonde.
     

XC.


     Spietatamente è cauto: e non obblia
Di rinforzar Gerusalem frattanto.
Da tre lati fortissima era pria:
716Sol verso Borea è men sicura alquanto.
Ma da’ primi sospetti ei le munia
D’alti ripari il suo men forte canto;
E v’accogliea gran quantitade, in fretta,
720Di gente mercenaria e di soggetta.


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