Gli amori pastorali di Dafni e Cloe/Ragionamento secondo
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Traduzione dal greco di Annibale Caro, Sebastiano Ciampi (XVI secolo)
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RAGIONAMENTO SECONDO
Erano già i frutti maturi, e soprastando la vendemmia, ognuno in ogni villa era occupato intorno alle bisogne della ricolta; altri a stagnar tini, altri a conciar botti, ed altri ed altre cose diverse, come a procacciar pennati per tagliare l’uva, a tesser corbe per portarla, a commettere il torcolo per premerla, a far fiaccole per carreggiare il mosto di notte, a preparar graticci, imbuti, bigonci, e simili altri istrumenti. Dafni dunque e la Cloe, lasciate le lor greggi per aiutarsi a vendemmiare, s’accomodavano vicendevolmente dell’opera loro; e Dafni serviva a pigiare ed imbottare; la Cloe a portare il desinare a’ vendemmiatori, e dar lor bere del vin vecchio, a vendemmiare le viti più basse: perciocchè in Lesbo non usavano nè pergole, nè albereti, ma tutte le lor viti si distendevano coi capi a guisa dell’ellera tanto sopra terra, che un bambino, tosto che avesse avuto le braccia fuor delle fasce, vi sarebbe aggiunto, e, come suole avvenire nelle allegrezze di Bacco, e nella natività del vino, vi s’erano raunate per aiutare di molte contadinelle vicine, le quali tutte tosto che Dafni vedevano gli fissavano gli occhi addosso, lo lodavano, e stupivano della sua bellezza, e l’agguagliavano a quella di Bacco; e furonvi di quelle più baldanzose, che lo baciarono; di che Dafni molto si compiaceva, e la Cloe molto se n’attristava. Dall’altro canto quelli che pigiavano, mirando la Cloe sì bella, la rimorchiavano, la motteggiavano, come satiri intorno a qualche Baccante furiosamente addosso le correvano; e l’uno diceva: io vorrei essere montone, e cozzare innanzi a questa pastorella; l’altro soggiungeva: ed io mi torrei d’esser pecora, perch’ella mi mungesse; di che per il contrario la Cloe andava allegra, e contegnosa, e Dafni ne stava tristo e pensoso: pur nondimeno e l’uno e l’altra desiderava, che la vendemmia si finisse per ritornare alle lor solite pasture, amando piuttosto sentire il sonar delle lor fistole, e il belar delle lor greggi, che le confuse voci e gli spiacevoli gridi de’ vendemmiatori. Pochi giorni vi corsero, che le vigne tutte si compirono di vendemmiare, e ’l mosto fu tutto imbottato; laonde non facendo più mestiero dell’opera loro tornarono a menar le greggi al campo; ed oltrammodo allegri n’andarono a visitar le ninfe, presentando loro per primizia della vendemmia a ciascuna statua il suo tralcio con di molti grappoli, e con de’ pampini suvvi, come quelli ch’erano usi di non mai visitarle con le man vote; ed ogni giorno uscendo a pascere le richinavano, tornando da pascere le riverivano, non mai senza qualche offerta o di fiori, o di frutti, o di frondi, o pur d’un qualche saggio di latte; poveri doni veramente, ma da sì pure mani, da sì semplici cori tanto devotamente dedicati, ch’eran sopra ogni pomposo sacrificio accetti, e dagli Dei ben guiderdonati ne furono. Onorate le ninfe, poi si dettero a festeggiare, a rallegrar le greggi, a sciorre i cani, che per tutto il tempo della vendemmia erano stati legati; li quali sciolti, scorrendo, e mugolando, or faceano lor festa, or con le greggi, or tra lor stessi scherzavano, ed essi alcuna volta gli ammettevano a’ becchi, gli attizzavano per qualche piaggia, gli avvezzavano a portare colla bocca, faceano cozzare i montoni, saltar le capre, ballar le pecore, sonavano, cantavano, giocavano, ed ogni boschereccio diletto si prendeano: e mentre così lieti si stavano, eccoti comparir loro avanti un vecchione con un vestito di pelle indosso, con scarponi di corde in piedi, e con una tascaccia a lato di sacco tutto rattoppato; e salutati che gli ebbe, postosi fra l’uno e l’altro a sedere, parlò loro in questa guisa: Fanciulli, io sono il vecchio Fileta, quegli che tante cose ho cantate in lode di queste ninfe, che tante volte ho sonato in onor di questo Pane, quegli che comandavo a tanti armenti di vacche solamente con la musica: vengo a voi per raccontarvi il caso, che m’è incontrato, e per esporvi le cose che io ho udite e vedute. È molto presso di qui un mio giardino di mia man posto, di mia man coltivato, e con ogni mia diligenza guardato; perciocchè da indi in qua che io lasciai per vecchiaia di pascere armenti, posi in quello ogni mia cura a farlo, duro ogni fatica per mantenerlo, ed ogni mio piacere è di goderlomi. Tutti i pomi, tutte l’erbe, tutti i fiori, che in tutti i luoghi, ed in tutte le stagioni si trovano, sono ivi dentro, ciascuno al suo tempo, quanto esser possono coloriti, saporiti, ed odorati. Di primavera è pieno di rose, e di gigli, di giacinti, di viole mammole, e d’ogni sorta di viole a ciocche: di state vi sono de’ papaveri, delle pere, e di quante mele si trovano: di questo tempo uve infinite, fichi di più maniere, melagrane dolci, agre, e di mezzo sapore, e verdure di mortelle freschissime. La mattina in su l’alba vi si raunano di molte schiere d’uccelli, altri a cibarsi ed altri a cantare, perciocchè gli è coperto, ombroso, e da tre fontane rigato; e se dattorno gli fosse tolta la siepe che ’l chiude, parrebbe propriamente un bosco a vederlo. In questo mio giardino entrando io oggi sul mezzo giorno, vidi sotto certi melagrani, e fra certe mortelle un fanciulletto colle mani piene di coccole, e di granate: era bianco come un latte, rosso come un foco, pulito come uno specchio; era ignudo, era solo, giva scorrendo, e vendemmiando tutto il giardino, come se non ci avesse a fare se non egli. Io tosto che ’l vidi, temendo non con quella sua licenza mi guastasse qualche nesto, mi scoscendesse qualche ramo, gli mossi dietro, come per pigliarlo; ma egli mi fuggiva innanzi con una leggerezza, e con una facilità tale, che pareva che davanti mi si dileguasse; e come uno starnotto ora s’inframmetteva per li rosai, ora s’appiattava fra’ papaveri. Io per me ho durato assai volte fatica di pigliare i capretti, mi sono affannato assai volte di giungere i vitelli; ma questa era una fatica ed un affanno d’un’altra sorta: insomma non era possibile nè d’aggiungerlo, nè di pigliarlo; laonde stanco per esser vecchio, come mi vedete, mi appoggiai sopra la mia mazza, e guardando ch’egli non se n’uscisse, lo presi a dimandare: de’ quai sei tu, mal fanciullo? che cerchi tu di qua? donde è questa tua sicurtà di così saccheggiare i giardini altrui? A questo, nulla mi rispose; ma più presso facendomisi, cominciò molto vezzosamente a ridere, ed a tirarmi delle coccole di mortella, le quali secondo che mi percotevano, così mi pareva, che la stizza mi scemassero, tanto che tutto raddolcito cominciai a desiderar di averlo in mano, e di carezzarlo; perchè lusingandolo giurai, che lo lascerei andare per l’orto dovunque gli aggradisse, che gli donerei degli altri pomi, quanti ne volesse, e che gli darei licenza che scotesse tutti gli alberi che v’erano; e se non gli bastava di cogliere fiori con mano, che li mietesse colla falce, purchè una sol volta mi baciasse. Allora di nuovo ridendo d’un riso pieno di fuoco, mandò fuora una voce, che le rondini, i lusignuoli, ed i cigni, sebben fossero vecchi come son io, non l’hanno sì dolce: Fileta, disse egli, a me nulla fatica, e molto diletto sarebbe a baciarti; perciocchè più grato fora a me d’esser baciato, che a te di ringiovenire; ma considera bene, se la grazia che tu chiedi, si conviene agli anni tuoi. Baciato che tu m’avrai, bisognerà che mi segua, e non mi potrai nè seguir, nè giungere, perciocchè la vecchiaia t’aggrava, ed io sono alato, e leggiero, e piuttosto s’aggiungerebbe uno sparviero, piuttosto un’aquila, o qual si sia velocissimo uccello. Io non sono già fanciullo, sebben fanciullo ti paio; ma sono antico di tempo, e ti conobbi per infin quando pascevi presso a’ paduli di Tebe una gran masseria di vacche: io t’ero appresso quando sotto a que’ faggi cantavi per amor di Amarilli; ma tu non mi vedevi, bench’io fossi tuttavia con esso lei: io son quegli, che la ti diedi per isposa: per me n’hai tu sì bella famiglia di figliuoli, che sono oggi tutti sì buoni bifolchi, e sì sperti agricoltori. Allora era io sempre con voi due; ora sono sempre con Dafni e con la Cloe. Questi sono il mio gregge; e poichè la mattina gli ho insieme accozzati me ne vengo a questo tuo giardino, e per esso diportandomi, mi trastullo con questi fiori, piglio piacere di queste piante, lavomi in questi fonti; e di qui viene che i tuoi fiori sono così vigorosi, che i tuoi alberi sono così fruttiferi, perciocchè da’ miei bagni sono annaffiati. Vedi ora s’io t’ho diramate le piante, se t’ho colti i frutti, se t’ho svelte l’erbe, se t’ho calpesti i fiori; guarda se t’ho intorbidito nessuno di questi fonti, ed abbi questa grazia di esser solo fra tutti gli uomini sano e lieto in tua vacchiaja.
Così dicendo, questo fanciullo saltò fra le mortelle come un lusignuolo, e rampicandosi per le frondi, di un ramo in un altro si trovò in cima in un baleno. Allora gli vidi io con questi occhi l’ali in su gli omeri, gli vidi l’arco tra gli omeri e l’ali, vidigli al fianco la faretra, e poscia non vidi più nè queste cose nè lui. Ora s’io non ho messi questi canuti in vano, se invecchiando d’anni non sono ringiovinito di senno, voi siete innamorati, ed Amore ha cura di voi.
Erano stati i giovinetti con gran piacere ad ascoltare la favola di Fileta, che favola tenevano che fosse, piuttosto che cosa avvenuta; ma posciacchè egli si tacque gli domandarono: Che cosa è egli quest’Amore, Fileta? è egli un fanciullo, oppur un uccello? e che potenza è la sua? Onde Fileta di nuovo soggiunse: Amore è Dio, figliuoli miei, giovine, e dilettasi della gioventù: bello, e seguita la bellezza; alato, ed impenna i cori dei suoi seguaci: la sua potenza è tanta, che Giove non può più di lui. Egli comanda agli elementi, comanda alle stelle, comanda agli Dei simili a lui, più che voi non comandate alle vostre pecore, ed alle vostre capre. I fiori sono opera sua, le piante sono sua fabbrica, gli animali, e tutte le cose, che nascono, sono sua fattura: per lui corrono i fiumi, per lui spirano i venti, per lui girano i cieli; ed ogni cosa è piena della sua divinità. Io ho veduto un toro innamorato mugghiar più forte che se fosse trafitto dall’assillo: ho veduto un becco invaghito di una capra, e non si spiccar mai da lei dovunque l’andava. Io, quand’ero giovine, ed innamorato d’Amarilli, non mi ricordavo di mangiare, non mi curavo di bere, non potevo dormire, mi doleva l’anima, mi tremava il cuore, mi si agghiacciava il corpo, gridavo come un tormentato, tacevo come un morto, mi gittavo ne’ fiumi come avvampato, chiamavo Pane in soccorso, perciocchè amava anch’esso la Piti, benedicevo Eco, perchè mi replicava il nome d’Amarilli, rompevo le sampogne, perchè mi conducevano le vacche, e non avevano forza di condurmi Amarilli; perciocchè contra amor nulla vale. Non medicine, non malie, non incanti; insomma son vani tutti altri rimedj, che non siano o baciarsi, od abbracciarsi, o coricarsi ignudi.
Con questa dottrina pose modo Fileta al suo ragionamento; e presi da loro alcuni caci in dono, ed un grasso e già cornuto capretto, fece dipartenza. Restati i pastorelli soli, e non avendo mai se non allora sentito ricordare il nome d’Amore, le menti da quel lor furore alquanto raccolsero, e tornati la notte alle stanze, cominciarono a comparare gli accidenti loro con quelli, ch’avevano uditi da Fileta. Si dolgono gli innamorati, e noi ci dogliamo; di nulla quasi si curano, e noi non ci curiamo; non possono dormire, e noi che facciamo ora se non vegghiare? sono in continua arsura, e il foco è sempre con noi; e' bramano di vedersi, e noi per altro non desideriamo che presto si faccia giorno! E’ potrebbe essere, che questo fosse amore, e che noi fossimo innamorati, e non ce n’avvedessimo; che se non è amore, e noi non siamo innamorati, perchè così ci affligghiamo? che vogliamo noi da noi stessi? Per certo le cose, che Fileta ha dette, son vere; e quel fanciullo del suo giardino apparve ancora a’ nostri padri in sogno quando comandò loro che ne facessero pastori. Ma come piglieremo noi questo fanciullo? È pargoletto, e fuggiranne. Come fuggiremo da lui? Egli ha l’ali, e giungeranne. Ricorreremo alle ninfe, che ne soccorrino? Pane non soccorse già Fileta, quando era innamorato d’Amarilli. Certo bisognerà che noi facciamo i rimedj, ch’egli ci ha detto; che ci baciamo, ci abbracciamo, e ci corichiamo ignudi in terra. Ma come faremo ora che è freddo? E’ sarà bene, che noi ce ne consigliamo un’altra volta seco. Questi furono quella notte i loro pensieri. Il giorno seguente, menando le greggi a pascere, tostochè si videro si corsero a baciare, quel che non avevano ancor fatto; e gittandosi le braccia al collo, s’abbracciarono strettamente: il terzo rimedio non s’ardirono a fare, perciocchè coricarsi ignudi pareva cosa brutta, non solamente alle vergini, ma a’ giovani caprari. L’altra notte dunque, non potendo manco dormire, tornarono di nuovo a riandar le cose ch’avevano fatte, a pentirsi di quelle ch’aveano lasciato di fare. Ci siamo baciati, diceano, e nessuno profitto n’abbiamo cavato; ci siamo abbracciati, ed è quasi il medesimo; per certo che ’l coricarsi debbe esser solamente il rimedio d’Amore: questo bisogna che noi proviamo: in questo sarà di certo qualche cosa di più che nel bacio. E con tali discorsi addormentandosi (come suol avvenire) vedevano sogni amorosi, e sognavano di baciarsi, d’abbracciarsi, e di far la notte quello che non avevano fatto il giorno, cioè di coricarsi insieme ignudi. L’altra mattina adunque si levarono meglio disposti; e frettolosi di baciarsi, con molti fischj sollecitavano di cacciar le greggi al campo; e subito incontrati, sorridendo si corsero a fare accoglienza, prima baciandosi, di poi abbracciandosi; ma di fare il terzo rimedio pur s’indugiarono: perciocchè nè Dafni s’arrischiava di dirlo, nè la Cloe ardiva di cominciare, per insino che a sorte non venne lor fatto. Sedevano un giorno ambedue sopra un tronco di quercia, ed affettuosamente baciandosi, se n’andavano tutti in dolcezza; perchè non sapendo da tal diletto levarsi, ognora più strettamente abbracciandosi, stringendosi, succiandosi, strofinandosi i visi, e premendosi le labbra con le labbra talmente, che nè l’una bocca nè l’altra si vedea, Dafni una volta sprovvistamente, per più stringersela addosso, diede una scossa cotale alla scapestrata, che la Cloe venne alquanto a piegarsi per il lato, ed egli per continuar la soavità del bacio seguendola le si rovesciò sopra. Così caggendo ambedue, tosto che furono in terra, riconosciuta la sembianza del sogno, per non lasciar quell’occasione, avvinchiandosi insieme, stettero per buono spazio coricati; e nulla di più sentendovi, pensando di non aver ancora adempito il fine di quell’amoroso godimento, da capo vi si rimisero; e consumatovi quasi tutto quel giorno invano, sopravvegnendo la sera si distaccarono, e, maledicendo la notte ricondussero le greggi alle lor mandre. Il giorno appresso tornarono al medesimo giuoco; e per avventura avrebbero trovato il vero modo, se non che nacque un tumulto, che tutta quella contrada mise a romore. Uscì di Metinnia, città dell’isola medesima, una brigata di gentiluomini giovini e ricchi, i quali per passar quel tempo della vendemmia in vari luoghi, ed in diversi piaceri, corredata una lor barchetta di tutte cose dilettevoli, e necessarie, e facendola ai loro proprj servi vogare, se n’andavano costeggiando la spiaggia de’ Metellinesi, smontando ora a questa, ed ora a quell’altra villa vicina al mare; perciocchè tutta quella riviera è doviziosa di porti, di edificj, di bagni e di piaceri assai, parte creativi dalla natura, e parte aggiuntivi dall’arte, li quali tutti insieme fanno abitazioni comode e dilettevoli molto; e così navigando, e pigliando porto, dovunque smontavano non facendo nè danno, nè oltraggio a persona, si davano a diverse sorti di piaceri, ora pescando a lenza di sopra un sasso sporto in mare, ora mettendo i cani in terra, e tendendo lungagnole alle lepri, che in quel tempo fuggivano i rumori delle vigne; e talora uccellando, e ponendo lacciuoli all’oche salvatiche, all’anitre, alle gavine, ed altri simili uccelli, talmente che col piacer medesimo il pranzo e la cena si procacciavano; e quando cosa alcuna mancava loro, se ne fornivano per quelle ville, spendendo assai più che le cose non valevano, benchè non faceva lor bisogno se non di pane, di vino, e di alloggiamento. E per esser il tempo autunnale, non si assicurando del mare, e temendo la notte di tempesta, tiravano il legno in terra. Ora avvenne, che un contadino, mentre che vendemmiava avendo bisogno di corda per un lastrone da soppressar la vinaccia, sendo quella che v’era prima tutta logora, se ne scese nascostamente al mare, e trovato il legno senza guardia, ne sciolse il cavo a che stava attaccato, e portandolosi, se ne servì nel suo bisogno. La mattina i giovani Metinnesi cercando, e non si trovando chi involato l’avesse, nè chi l’involator rivelasse, rammaricandosene con quelli, che alloggiati gli avevano, se ne partirono; e poco men di quattro miglia navigando si trovarono a veduta del paese, per onde il Dafni e la Cloe pasturavano: e parendo loro accommodato alla caccia delle lepri, presero spiaggia; e non avendo con che la barca attaccare, fecero una lunga ritortola di vincigli verdi ad uso di fune, e con quella dalla poppa nel lito ad un palo l’accomondarono. Questo fatto, posero i segugj in terra, e le reti a’ passi, dove credevano, che le fere avessero a capitare; ma i cani sbarcati che furono, tosto ch’ebbero per la collina le capre di Dafni vedute, lasciato di cacciare, alla volta loro ne corsero, e con molto squittire cacciandole, e mordendole, in fuga e in spavento le misero; ed al mare la più parte ridottasi, certe delle più licenziose, non trovando nel lito da pascere, rosero tanto la ritortola, con che il legno stava legato, che la tagliarono. In questo mentre si mise vento di terra, e levossi burrasca di mare; perchè subito che ’l legno fu sciolto, risospinto dal vento, e dal maricino, prese dell’alto; di che i Metinnesi avvedutisi, corsero altri alla riva per ricoverare il legno, ed altri si sparsero per i campi per raccorre i cani; e per tutto una grida levarono, che fece d’ogn’intorno raunar gente a soccorrerli: ma nulla giovarono; perciocchè, rinforzando tuttavia di ventare, e di mareggiare, il legno senza mai rattenersi, trascorse tanto a seconda, che uscí lor in tutto di vista. Allora i giovani Metinnesi, vedendosi privi di tante, e sí ricche spoglie, che suso v’erano, si dettero a cercar del guardiano delle capre; e trovando che Dafni era desso, incontra lui si mossero, e bastonandolo, strascinandolo, svaligiandolo, le mani già dentro con un guinzaglio gli legavano, quando egli così battuto, e sforzato, gridando e piangendo si volse a pregare i contadini, che d’intorno gli stavano, che l’aiutassero, e specialmente chiamava in soccorso Lamone, e Driante, i quali venuti, così vecchi come erano, callosi, nerboruti, e bronzini, con le mani terrose, e coi capi rabbuffati 1, ma d’aspetto gravi, e d’anni rispettevoli, a guisa di mezzani tramettendosi, e con buone parole il tumulto fermando, persuasero che saria bene intendere come il caso fosse passato, e donde proceduto, perchè si vedesse da qual delle parti fosse nato lo scandolo; e di comune accordo al parer di Fileta bifolco se ne rimisero, di cui non era in tutto il contado alcuno in quel tempo nè che più vecchio fosse, nè che maggior nome avesse di giusto, nè d’intendente; e fattogli intorno cerchio, primamente i Metinnesi, avendo un bifolco per giudice, porsero brevemente, e chiaramente la loro accusa in questa guisa: Padrecciuolo, noi siamo cacciatori, e per cacciare approdammo a questa spiaggia: lasciammo il nostro legno attaccato nel lito ad un palo con una ritortola; e noi coi nostri cani attendevamo alla caccia, quando le capre di questo reo garzone son calate al mare, hanno rosa la ritortola, e sciolto il legno: voi stessi l’avete veduto scorrere, e dinanzi agli occhi vostri s’è sparito. Ora di quanta roba credete voi che fosse pieno? che vesti pensate, che ci abbiamo perdute? che guarnimento di cani? e quanti danari? Queste cose erano di tanto valore, che con esse tutto questo paese si comprerebbe; per che noi pensiamo che sia ragionevole di menare questo capraro in ricompensa d’esse, per cui difetto si son perdute; sendo officio dei suoi pari pascer per li monti, e non per lo lito, come i marinai. Detto ch’ebbero i Metinnesi, Dafni, comecchè fosse infranto, e guancito tutto, pure in cospetto della Cloe, quasi nessuna stima ne facesse, cosí soggiunse: Io pasco le mie capre bene quanto altro mio pari; e sono miglior capraro, ch’eglino non sono cacciatori; e non fu mai che pure uno solo di questi vicini si rammentassero, che in loro orto entrasse una mia capra, nè che rodesse pure una vite; ma eglino sì che sono mali cacciatori, ed i lor cani malissimo avvezzi: perciocchè, abbaiando, e sbrancandomi tutta la greggia, me l’hanno perseguitata dalla collina per tutto il piano sino al mare, come se fussero lupi. Oh! gli hanno rosa la ritortola. - E come avevano a fare se nella rena, dove l’avevano cacciata, non era nè erba, nè timo, nè corbezzoli, nè altro di che si pascessero? - Il legno è perito - Questo è opera della tempesta più che delle mie capre - Ci avevano su di molte vesti, e di molti danari - E chi crederebbe, altri che uno sciocco, o uno smemorato, che un legno, dove sì ricco carico fosse, avesse per gomina un vinciglio? Così dicendo, e lagrimando, mosse tutta la turba de’ villani a compassione; e Fileta giudice, giurando prima la divinità di Pane, e di tutte le ninfe, sentenziò, che nè Dafni, nè le sue capre in questo caso ingiuriati gli avevano; ma solamente il vento e ’l mare, di cui ad altri giudici si spettava di giudicare. Non s’acquetarono i Metinnesi alla sentenza di Fileta; per che di nuovo, mossi dall’ira, assalirono il giovinetto; e cercando di legarlo, e di menarlo, i villani non potendo più tanta loro insolenza sofferire, armati altri di pali, altri di frombole ed altri di altri villeschi istrumenti, furono lor sopra tutti in un tempo a guisa di storni, o di mulacchie; ed azzuffandosi con essi, primamente trassero lor Dafni dalle mani, che di già combatteva anch’egli coraggiosamente; dipoi tutti insieme facendo testa, a colpi di buone legnate, e di gran petrate, tutti in rotta e in fuga li misero; e seguitandoli, non prima si arrestarono, che oltre a’ monti gli ebbero in altri campi cacciati. Mentre che eglino a’ Metinnesi danno la caccia, la Cloe pianamente condotto il suo Dafni alla grotta delle ninfe, e lavatagli la faccia, che per le molte percosse era tutta livida, e sanguinosa, si trasse dalla tasca del cacio, e della ricotta salata, e dandogli a mangiare, poichè col cibo l’ebbe alquanto confortato, con saporitissimi baci, ed altre dolcissime accoglienze tutto lo riebbe: e questa fu la seconda sciagura del povero Dafni. Ma la faccenda dei Metinnesi non finì però così di leggieri; perciocchè giunti a Metinna pedoni, donde uscirono marinari; tornando cacciati donde si partirono cacciatori; e riportando ferite, invece di fere, fecer subito raunare il consiglio, e con le palme d’olivo innanzi andarono a supplicare, che si dovesse pigliare impresa di vendicarli, non porgendo puntualmente le cose a guisa ch’erano seguite, perchè sapendosi, che oltraggiosamente, e da pastori erano stati incaricati, dubitarono, che in dispregio ed in scherno ne fussero avuti; e solamente dissero che gli uomini di Metellino avevano lor preso il legno, svaligiatili di danari, e trattatili da nimici. Credettero i Metinnesi ai loro giovini per lo riscontro delle ferite; e parendo lor ragionevole di vendicarli, per essere gli ingiuriati figliuoli de’ primi nobili della città, si risolvettero senza altro protesto di romper guerra a’ Metellinesi, e comandarono al lor capitano che con dieci galere assaltasse la spiaggia di Metellino; perciocchè sendo ancora presso al verno, non ardivano d’assicurarsi in mare con maggior armata. Il capitano subito apprestate le galere, ed armatele di combattenti, e di ciurma per amore, il giorno seguente si partì per la riviera de’ Metellinesi, e ponendo in terra, fecero bottino di bestiami, di frumenti, di vini, che poco innanzi s’erano riposti, e presero a man salva di molti, che trovarono o guardiani, o operai d’essa preda; navigarono dipoi dove i due pastorelli pascevano; e dismontando subitamente, predarono ciò che si parò loro innanzi. Dafni in quel punto per avventura non era con le capre, perciocchè stava nella selva a far della frasca, per aver con che sostentar la ’nvernata i capretti: e veggendo su d’alto la correria, e lo scompiglio de’ campi, per paura si ficcò dentro un ceppo d’acero secco, e quivi stette tanto, che ’l romore fosse cessato. La Cloe era restata a guardia delle greggi; ed avendo dietro la caccia se ne fuggí verso la grotta delle ninfe, dove sopraggiunta, piangendo, e raccomandandosi li pregava, e per le ninfe li scongiurava, che avessero compassione di lei e delle bestiuole, ch’ella pasceva. Ma tutto era invano, perciocchè i Metinnesi, schernendo ancora le statue delle ninfe, le greggi e lei, come una capra, o una pecora, innanzi si misero; e talora perchè s’arrestava, e faceva loro indugio, e fatica, le davano tra via delle scudisciate perchè suo malgrado n’andasse. Aveano già le galere piene d’ogni sorta di preda, quando parve loro di non dover più oltre navigare, temendo non la tempesta, o più li nimici gli assalissero; e perchè non spirava vento di ritorno, si rivolsero addietro a forza di remi. Ritirati che si furono, e cessato il romore, Dafni calandosene al campo, dove pascevano, e non vedendo le sue capre, non le pecore, non la guardiana d’esse, ma d’ogni intorno guasto e solitudine, e trovando la sampogna della Cloe per terra, dopo messo un gran mugghio, piangendo, e tapinandosi, or se ne correva al faggio dove solevano stare assisi, or se ne calava al mare se per sorte la vedesse, ed ultimamente venendo alla grotta delle ninfe s’avvide, che ivi la Cloe s’era ricoverata, e che quindi era stata menata; onde per terra gittatosi, così cominciò con le ninfe (come se da loro fossero traditi) a lamentarsi: Di grembo a voi, ninfe, mi è stata rapita la Cloe; e voi l’avete sofferto? Dinanzi agli occhi vostri m’è stata tolta; e voi l’avete potuto vedere? La Cloe vostra, che v’ha di sua mano tante ghirlande tessute, che v’ha tante primizie offerte, che questa sampogna, che sta qui appesa, v’ha dedicata. Oimè! che ’l lupo non mi rapì mai una capra, e li nimici me n’hanno menata tutta la greggia, e toltami la mia compagna, Oimè! che scorticheranno le capre, ed ammazzeranno le pecore, e la mia Cloe da qui innanzi starà sempre rinchiusa nella città. Ora con che faccia andrò io innanzi a mio padre, e mia madre cosí spogliato, così scioperato? che arte sarà ora la mia? chi mi darà più avviamento? donde avrò più che pascere? Io mi starò qui tanto in terra, o ch’io mi muoia, o che vengano un’altra volta i nimici a pigliarmi, e menarmi dove è lei. Cloe mia, senti tu questa passione che sento io? ricorditi tu più di questi campi? di queste ninfe e di me poverello? oppur ti consolano le pecore, e le capre, che son teco prigioni? Così dicendo, per lo molto pianto, e per l’affanno durato, cadde in un sonno profondissimo; e dormendo, tre Ninfe delle medesime della grotta, a guisa di tre gran donne, belle, mezze ignude, succinte, scalze, con le chiome sciolte, ed alle loro statue in tutto simiglianti, in sogno gli si appresentarono; e primieramente della sua sventura dolutesi, la più attempata di loro confortandolo, così gli disse: Dafni, sta di buon animo, e non ti rammaricar di noi, che assai più di te amiamo la Cloe, e più pensier ne tegnamo che tu medesimo. Noi siamo, che per insino da bambina l’abbiamo in custodia avuta: noi quando in questa grotta fu gittata, procurammo di farla nutrire; perciocchè ella non ha che fare con questi campi, nè con le pecore di Driante, come nè anche tu con le capre di Lamone. Quanto a lei, insino ad ora s’è provvisto, ch’ella non vada schiava in Metinna; perciocchè siamo ricorse al Dio Pane, a questo che s’adora di sotto il pino, il quale voi non avete mai pur di fiori, non che d’altro, onorato: noi l’abbiamo pregato, che porga aiuto alla Cloe; perciocchè egli è uso nell’armi più che noi, e molte volte, lasciando le ville, ed i monti, è stato negli eserciti, e provveduto capitano, e coraggioso guerriero: ora per nostre preghiere ne va egli stesso contro a’ Metinnesi acerbo nimico. Imperò non dubitare: levati suso, e fatti vedere a Lamone, ed a Mirtale, che giacciono ancor eglino prostrati in terra, pensandosi che tu sia parte di questa rapina; e noi ti promettiamo, che domani la Cloe sarà di ritorno con le tue capre, e con le sue pecore e che pascerete, canterete, e sonerete insieme come prima. Dell’altre cose, Amor, che cura ne tiene, a suo senno se ne disponga. Ciò vedendo, ed udendo, il giovinetto destandosi, e d’allegrezza e di dolor piangendo, saltò subito in piedi, ed inchinatosi reverentemente alle statue delle Ninfe si votò per lo scampo della Cloe di sacrificar loro una capra, la migliore di tutta la greggia; poscia correndosene al pino, dove era la statua di Pane co’ piedi caprini, con la testa cornuta, dall’una mano con la sampogna, e dall’altra con un becco, che saltava, a lui medesimamente inchinatosi, ed adorandolo, lo pregò per la salvezza della sua Cloe, promettendogli il sacrificio del più barbuto becco ch’avesse: ed appena nel tramontar del sole restando di piangere, e di pregarlo, si mise in collo il suo fastello, e tornandosene alle stanze, consolato Lamone, che piangeva, e d’allegrezza empiutolo, poichè egli ebbe alquanto di cibo gustato, se n’andò per dormire, lagrimando sempre, e pregando di vedere in sogno le Ninfe, e che presto il seguente giorno venisse, nel quale per la promessa delle Ninfe attendeva, che la sua Cloe tornasse. Quella notte per l’aspettar gli parve lunghissima, e per l’affanno, che egli sosteneva, gli fu durissima; ma soprammodo terribile fu ella, e travagliosa all’armata de’ Metinnesi, per li rei segni, e per le molte paure, che in quella gli avvennero; perciocchè ritirato, che si fu il capitano delle galere per uno spazio di dieci miglia, parendogli di dovere alquanto rinfrescare le sue genti stracche e dalle fazioni, e dal remigare, prese una punta, che sporta in mare, ed in forma di luna stendendosi, un cotal golfo facea, che sopra ogni tranquillissimo porto era sicuro. Ivi dentro mettendosi, e surte le galere talmente, che di terra nessuna di esse poteva da’ paesani essere offesa, a guisa che si suole in tempo di pace, diede comiato alle genti, che a lor diletto se n’uscissero per il lito a diporto; ed eglino, avendo abbondanza di grascia, e d’ogni altra cosa per la preda fatta, si dettero a far gran cena, a mangiare, a bere, a giocare, ed a rappresentare come una festa di vittoria. Era già cominciato a rabbuiarsi, ed aveano per la sopravvegnente notte posto fine ai loro piaceri, quando subitamente parve loro, che tutta la terra tremasse, che l’aere lampeggiasse, e che il mare da ogni banda fosse pieno di rumori spaventevoli, e d’un percotimento di remi come se navigasse incontra loro una grandissima armata. Sentivano voci, che davano all’arme, che chiamavano il capitano, che incitavano i combattenti; udivano incioccamenti di arme, investimenti di navi, rammarichi di cadenti; pareva loro di esser feriti, di vedere uomini morti: in somma di trovarsi in una notturna battaglia di mare senza apparir persona che combattesse.
Il giorno che seguì poi fu più spaventoso assai che la notte; perciocchè subito che la luce apparve, si videro le capre, ed i becchi di Dafni tutti con le corna inghirlandate d’ellera e di corimbi; le pecore ed i montoni della Cloe si sentirono urlare come lupi; essa Cloe fu vista con una corona di pino in testa. In mare si fecero cose miracolose; perciocchè tentando di tirar l’ancore, mai non poterono; abbassando i remi per vogare, si rompevano; d’intorno ai legni saltavano delfini, e con tanta tempesta percotevano le catene con la coda, che tutte le scommettevano: su di cima lo scoglio si sentiva un suono di sampogna, sì spiacevole, che non di sampogna, ma di chiarini di mare e di bellicosa tromba sembrava che fosse; e sangue e morte parea che sonando minacciasse. Essi tutti perturbati pigliavano l’arme, e gridavano a’ nimici, che non vedevano; e paurosi desideravano che tornasse la notte, come sperando d’avere in quella qualche tregua a tanto travaglio. Questi prodigi erano bene intesi dagli uomini savi, pensando che le cose, che si vedevano, e sentivano, non potessino procedere se non da Pane, per qualche sdegno contra i naviganti: ma la cagione non sapevano, nè manco la potevano immaginare, non sendo da loro stato predato cosa, che a lui si pensassino che fosse sacra; tanto che in sul mezzo giorno addormentandosi il capitano dell’armata, non senza mistero esso Dio Pane gli apparve in sogno, così dicendo: O scellerati e sopra tutti gli uomini irreverenti e dispietati, e che furor v’ha spinto a tanto ardimento? a dare il guasto alle ville di cui son io il difensore? a molestare i contadini, che sono i miei devoti? a predare gli armenti e le greggi, che sono a mia custodia? avete rapita dagli altari una vergine, di cui Amor vuole, che si facci una favola; e non temeste ciò commettere in cospetto alle Ninfe. Non aveste riguardo a Pane che son quell’io. Ma voi non vedrete già Metinna con queste spoglie: non potrete già fuggire lo spaventoso suono della mia sampogna. Io vi farò tutti affogare, tutti vi farò magnare a’ pesci, se tosto la Cloe, con tutte le sue greggi alle Ninfe non restituite. Levati su dunque, e comanda, che la fanciulla, con le capre, e con le pecore, che predaste con esso lei, incontanente sia posta in terra; che così sarò io guida a te della navigazione, ed a lei della sua via. Spaventato Briasso di così fatto sogno (chè tale era il nome del capitano), saltò subito in piedi, e chiamati a sè tutti i condottieri delle galere, impose loro, che della Cloe tra’ prigioni cercassero, la quale senza molto indugio trovata, e menatagli avanti (perciocchè, secondo il contrassegno della visione s’avvisarono che fosse quella, che sedeva nella capitana incoronata di pino), tosto le diede comiato dicendo: Fanciulla, vattene in terra, e libera te e le tue greggi di servitù, e noi scampa dall’ira del salvatico Dio. Così detto ed ordinato, che nel lito la ponessero, non più tosto si mosse, che si sentì di cima allo scoglio squillare un suono di sampogna, non più battaglievole e pauroso, ma boschereccio ed allegro, qual usano i pastori a condur le greggi alla pastura. Dietro a lei per loro istesse s’inviarono ambedue le torme, calando le pecore il ponte soavemente per tema d’isdrucciolare, e le capre più alla sicura scendendone, come quelle, che più son use d’andar per le balze. Giunte in terra, misero in mezzo la Cloe, e scherzando e belando, come per farle festa, intorno le s’aggiravano. Le capre degli altri caprari, le pecore degli altri pecorari, e le vacche degli altri vaccari, standosi ciascuna nella sua torma, non si mossero mai di sotto coverta; e parendo ciò miracolo a tutti, ed adorando ciascuno la divinità di Pane, apparvero cose più miracolose nell’uno elemento e nell’altro; perciocchè le galere de’ Metinnesi, avanti che l’ancore si togliessero, incontinente navigarono, ed un delfino saltando innanzi alla capitana, le si mostrava innanzi a guisa di piloto. Per terra conducea la Cloe un suono di sampogna dolcissimo, non si veggendo chi la sonasse; di che le pecore e le capre andando insieme e pascendo si dilettavano. Era già l’ora della seconda pastura, quando Dafni d’un’alta vedetta del monte scorgendo di lontano le greggi, e riconoscendo la Cloe, gridando ad alta voce, o Ninfe! o Pane! si mosse correndo verso la pianura; e giunto alla Cloe, abbracciandola, e nelle braccia per allegrezza svenendole, cadde in terra tramortito; ed appena dalla fanciulla con molti baci, e con istretti abbracciamenti fatto rinvenire, come trasecolato guardandola, sotto all’usato faggio si ricondusse. Ivi a seder postosi con esso lei, dopo molte meraviglie, e molte accoglienze, le dimandò in che maniera fosse da tanti nimici scampata; ed ella tutto per ordine divisandogli, gli raccontò l’ellera delle capre, gli urli delle pecore, la ghirlanda del suo capo, il tremor della terra, i lampi dell’aria, lo strepito del mare, i suoni delle sampogne, il bellicoso, e il pacifico, la notte orribile, il giorno spaventoso, ed ultimamente la invisibil guida della musica. Dafni confrontando le fazioni di Pane col sogno delle Ninfe, disse ancor a lei tutto ciò che egli avea veduto e sentito, e come sendo a morte vicino era per conforto delle Ninfe in vita rimaso. Così stati alquanto a consolarsi e rallegrarsi insieme, ordinato di sacrificare agli Dei, Dafni mandò la Cloe ad invitar Driante e Lamone, che venissero con tutti i loro, e con ciò che facea mestiero al sacrificio; ed egli intanto scegliendo la miglior capra di tutta la greggia, ne fece vittima alle Ninfe, ed appesala, e scorticatala, dedicò lor la pelle. In questo mentre comparsi quelli, che la Cloe conduceva, accese il foco, e parte di quella carne lessando, e parte arrostendo, ne porse il saggio alle Ninfe, e sparse loro una gran tazza di mosto; composte poi le mense di frondi, si assisero a magnare, a bere, ed a festeggiare, avendo però sempre gli occhi alle greggi, che il lupo non facesse lor villania, quello che non avevano fatto i nimici: ed in onor delle Ninfe cantarono alcune canzoni le quali erano poesie d’antichi pastori. La notte seguente dormirono alla campagna per il giorno di poi sacrificare a Pane, e la mattina preso un becco, il quale era il più vecchio padre di tutto il branco, di pino incoronato, di sotto al pino lo condussero, ed ivi di vino la fronte spargendogli, cantando tuttavia le lodi del cornuto Dio, lo sacrificarono, l’appesero, lo scorticarono e facendo della sua carne una parte arrostita, e l’altra lessa, lo posero nel prato sopra a foglie d’ellera, e di tassobarbasso, e la pelle con le corna suvvi nel pino appresso alla statua di Pane lo conficcarono, usata offerta dei pastori al pastorale Dio. Gli dieron poi le primizie della carne, gli offersero una maggior tazza di vino, cantò la Cloe, sonò Dafni: e già per il prato a mangiare adagiandosi, eccoti per avventura sopravvenir Fileta bifolco, che portava per offerire a Pane certe sue ghirlandette, e certi grappoli d’uva co’ pampani ancora in su’ tralci. Seco veniva Titiro suo figliuol minore, un fanciullo il quale era bianco e biondo, e scherzava e camminava leggiermente, e saltava come un capretto; e sagliendo ambedue insieme, incoronarono la statua di Pane, ed appesero i tralci con l’uve ai rami del pino; poscia assentatisi ancor eglino, si misero a pranzo con esso loro; e come è solito de’ vecchi, che di natura sono la più parte beoni, riscaldati che furono dal vino, vennero tra loro a diversi ragionamenti de’ tempi passati, e si vantavano chi d’essere stato buon pastore quando era giovine, chi d’essersi salvato molte volte da’ corsari, chi d’essere un grande ammazzator di lupi, chi il primo cantore, e ’l primo toccator di sampogna che fosse da Pane in fuori. Questo vanto così magnifico fu di Fileta, col quale egli destò grandissimo desiderio in tutti di sentirlo; per che Dafni e la Cloe in tutti i modi lo pregarono che facesse lor parte di tanta maestria e che onorasse col suo canto la festa di quel Dio, a cui tanto la sampogna aggradava. Fileta ne fu contento, quantunque molto si scusasse per la vecchiaia di non aver petto abbastanza; e presa la sampogna di Dafni, non prima l’ebbe tastata, che non le parendo della sua grand’arte capace, spacciò subitamente Titiro per la sua alle sue stanze, poco più d’un miglio lontano. Titiro spogliatosi in un tempo del suo tabarretto, si mosse a correr per essa ignudo, che parve un cerbiatto. In questo mentre Lamone, per intrattenerli s’offerse di raccontar loro una favola, che apparò già a vegghia da un caprar di Sicilia, e prese cosí a dire: Questa sampogna, che ora è stromento, non era prima stromento, ma una vergine bella, musica, guardiana di capre, e compagna di Ninfe; colle Ninfe giocava, a lor presso pasceva, e con esse, come oggi suona, allora cantava. Pane un giorno, mentre ch’ella pascendo, giocando, e cantando si stava, sopravvegnendola, tentò di trarla al suo desiderio, promettendole che tutte le sue capre figlierebbono a doppio. Ella schernendo il suo amore, e ritrosamente rispondendogli, disse che non degnava per innamorato uno, che non fosse nè tutto uomo, nè per tutto becco. Mossesi Pane a correrle dietro per isforzarla; ed ella dalla forza, e da lui sottraendosi, si dette a fuggire tanto, che stanca sopra d’un palude giungendo, fra di molti cannicci, di che egli era pieno, s’ascose, e dentro vi sparve. L’orgoglioso Dio, per la stizza tagliando le canne, che davanti le si paravano e non trovando la fanciulla, tostochè seppe la sua disavventura, compose delle tagliate questo stromento, congiungendole insieme con la cera disegualmente per la diseguaglianza del suo amore. Così fu già bella vergine questa che adesso è sonora sampogna. Avea di poco Lamone posto fine al suo favoleggiare, e Fileta lo lodava d’aver con la sua favola porto maggior piacere, che se egli avesse cantato, quando Titiro sopravvenne con la sampogna del padre. Era questa sampogna un grande stromento, e di grosse canne composto, ornata di sopra alla ’nceratura d’una forbita e ben commessa spranga di rame, e tale, che a vederla ognuno avrebbe creduto che fosse quella, che da Pane stesso fu la prima volta fabbricata. Fileta dunque, levatosi in piedi, e nell’antico seggio de’ pastori a seder postosi, tentò primieramente di canna in canna, e di tasto in tasto tutta la sua sampogna, se dentro ben netta fosse, e veggendo che ’l fiato senza alcuno intoppo correva, la ’ntuonò sí forte, e con tanto spirito, che al petto di qualunque robusto giovine si sarebbe disdetto. Risonò tutta la campagna d’intorno, e parve che s’udisse un concerto piuttosto di pifferi, che di canne, poi di mano in mano il tuono scemando, ad una più soave melodia lo ridusse: così variando e discorrendo per tutta l’arte della musica, sonò quando il grande, che si conviene alle vacche, quando l’acuto, che aggrada alle capre, e quando l’allegro, che diletta alle pecore; in somma contraffece con la sua sampogna le voci di tutte le altre sampogne, e stando tutti con grandissimo piacere intenti ad ascoltar l’armonia di Fileta, Driante levatosi di terra, ed impostogli, che una bacchea gli sonasse, si recò primieramente in su la persona, e crollatosi e divincolatosi, e branditosi tutto, incontanente che sentì il primo accento d’essa, spiccata una cavrioletta in aria, si mosse saltando, ed atteggiando una moresca di vendemmiatori, e battendo minutamente ogni minima nota del suono, contraffece quando un tagliator di grappoli, quando un portator di corbe, ora un che pigiasse, ora un che imbottasse, e finalmente un che beasse, e che bevuto, balenando e ’ncespitando cadesse; e così, come ubbriaco cadendo, fece fine, lasciando tutti che ’l videro pieni di meraviglia; perciocchè tutti i suoi moti furono con tanto tempo, con tanta attitudine, e sì naturalmente fatti che a ciascuno parve veramente le viti, il tino, le botti, e che veramente beesse, e veramente fosse ebbro. Mostro ch’ebbe il terzo vecchio anch’egli la sua prodezza, baciò Dafni e la Cloe; ed essi levati suso atteggiarono la favola di Lamone. Dafni imitò Pane, la Cloe contraffece Siringa: questi lusingando pregava, quella schernendo rideva; questi seguendola correva con le punte dell’ugne imitando i piedi caprini, quella fuggendo mostrava paura e lassezza: poscia la Cloe s’ascose nella selva, come Siringa nella palude, e Dafni presa la sampogna di Fileta, quello sì grande stromento, secondo che volle far sembiante d’amarla, di pregarla, o di richiamarla, cosí sonò quando a lamento, quando a lusinghe, e quando a raccolta, sì maestrevolmente toccandola, che Fileta meravigliandosi si levò suso e baciatolo, in dono la gli diede, con patto che a verun altro, ch’a sonare o non lo appareggiasse, o non l’avanzasse, giammai non la desse; ed egli presala, e baciatala, dedicò la sua piccola a Pane. Ridotta che fu la Cloe quasi ad una vera fuga, già notte facendosi, le capre se ne tornarono insieme con le pecore, e Dafni con esso la Cloe, tantochè per insino a notte non si spiccarono l’uno dall’altra; e notte facendosi, per lo seguente giorno si convennero di cacciar la mattina per tempo a pascere; e così fecero: perciocchè appena spuntato il giorno che furono al campo, e visitate primieramente le Ninfe, e di poi Pane, se n’andarono sotto l’usato albero a sedere, a sonare, ed a cantare; poscia si baciarono, s’abbracciarono, si coricarono, e più oltre non sapendo, si levarono, mangiarono, bevvero mescolando il vino col latte. Così riscaldati, e fatti alquanto più arditi, vennero tra loro a ragionamenti, ed a contrasti amorosi, e non si prestando fede di quel che diceano, si condussero a fermarlo con giuramenti; e Dafni venendo al pino giurò per la divinità di Pane, che mai non vivrebbe un giorno senza la Cloe: Cloe menando Dafni alla grotta delle Ninfe, giurò che vivrebbe, e morrebbe insieme con lui. Ma la Cloe semplicetta, come sogliono le fanciulle, nell’uscir dalla grotta s’immaginò di non esser secura abbastanza, se ad altro giuramento non lo stringeva; laonde così gli disse: Dafni, il tuo Pane, è molto femminiero; per che io non mi posso stare securamente a lui. Egli fu innamorato della Piti, amò la Siringa, molesta tutto il giorno le Driadi, non cessa di sollecitar Epimelide. Per questo, se tu non osservassi il tuo giuramento, egli non curerebbe di punirti dello spergiuro, sebben tu andassi a più femmine, che non sono le canne di questa sampogna. Voglio dunque che tu mi giuri per questa tua greggia, e specialmente per quella capra, che fu tua balia, di mai non abbandonar la Cloe, finchè ella amerà te solo, ed a te solo sarà fedele; e se ella mai vien manco a te, ed a queste Ninfe, allora io voglio, che tu la fugga, che l’abbi in odio, e che l’ammazzi come un lupo. Dafni avendo piacere di non aver seco credito, recatosi in mezzo della sua torma, e presa da una mano la capra e dall’altra un becco: Giuro, diss’egli, che io amerò la Cloe mentre ch’ella amerà me; e se mai per altri mi diporrà, che io ammazzerò colui, che mi sarà preposto, e non lei. Di che la Cloe prese allegrezza, credendo come fanciulla, e pastorella ch’ella era, che le capre, e le pecore fossero dei pecorari e dei caprari i propri Dei.
Note
- ↑ Manz. capei rabbuffati.