Grammatica italiana dell'uso moderno/Prefazione
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PREFAZIONE
Da un ceppo molto antico e fecondo germogliò un albero e crebbe rigoglioso e grande in tal modo, da diffondere la sua ombra sull’Occidente d’Europa. Poi, come tutte le umane cose volgono a declinazione, anche quel nobile albero dopo il volger di molti secoli isterilì e divenne arido e secco. Tuttavia dal ceppo medesimo si levava un tronco novello che, partendosi in varii bellissimi rami, tornò ad ombreggiare larga parte del suolo europeo.
Spieghiamo l’enigma. Quel ceppo era la lingua romana, ossia il volgare parlato anticamente dalle popolazioni del territorio di Roma. Il maestoso albero che ne rampollò fu la lingua latina, che in sè ritenne la sostanza più pura ed eletta; e mediante gli scrittori prese una forma determinata e regolare, rigettò quelli elementi che men bene si confacevano colla sua natura, ed alla scuola del greco si ingentilì e si perfezionò. Morto il latino colla caduta dell’Impero Occidentale, lo stesso volgare romano, già diffuso in Italia e in Europa, essendo in varii modi pronunziato e su diversi tronchi innestato, si differenziò vagamente nelle favelle dette romane, francese, provenzale, spagnuola, portoghese, italiana e valacca.1 Come si formassero e si coltivassero per mezzo della letteratura tali favelle, sarebbe lungo a dire. Fra un gruppo di dialetti e vernacoli somiglianti, tutte varietà del volgare detto di sopra, ce ne fu in ciascuna nazione o parte di nazione, uno, che a poco a poco divenne lingua letteraria e trionfò degli altri. Rozzo anch’esso e povero da principio come la civiltà di quei popoli, male determinato e troppo esuberante di forme grammaticali, ricevette dagli scrittori aumento di voci e regole più determinate, per le quali cose valse principalmente l’esempio dell’idioma latino, di quello che, per quanto dicemmo, potea chiamarsi il maggior fratello di queste nuove lingue. Poichè il latino, prima nei libri della Chiesa, poscia nelle opere stesse dei Classici, stava loro a lato, ed era considerato come il fondamento d’ogni coltura.2
In Italia, e non è questo il luogo da dirne le ragioni, fu il parlare toscano, e segnatamente quello di Firenze, che a poco a poco escluse dall’uso letterario gli altri dialetti d’Italia; e divenne esso stesso lingua nazionale italiana. Anch’esso, principalmente sull’esempio del latino, si arricchì e si regolò, coll’opera e coll’autorità degli scrittori, e sopra tutto con quella di Dante Alighieri, che nel libro della Volgare Eloquenza già distingueva l’uso corretto dall’uso plebeo della lingua nascente. Sopra le norme più costantemente seguíte da lui nelle immortali sue opere, e da’ suoi illustri seguaci Petrarca e Boccaccio, si stabilirono i fondamenti della grammatica italiana.
Crebbe dunque la nostra lingua da due fonti principali: l’uso toscano che per la sua stessa vitalità, per l’eccellenza de’ primi scrittori, per la reputazione di Firenze, traeva a seguirlo coloro che non credeano potersi risuscitare l’idioma del Lazio; e d’altro canto il latino, a cui si pose studio sempre maggiore, e che divenne meta e modello degli scrittori a mano a mano che i classici antichi tornavano in onore. Così la lingua italiana ripudiò di quelle flessioni che non si confacevano colla grammatica latina e raddrizzò, fin dove poteva, le declinazioni e le conjugazioni sull’esempio di quell’idioma:3 da esso prese gran numero di voci dotte, di termini astratti, conservandone la forma loro naturale, perchè sottratti al capriccio e all’ignoranza del volgo, a cui soggiacquero le voci primitive già canonizzate dall’uso; e così si emendò e si arricchì.4 Nè però sbandì del tutto le varietà del parlare, o cessò di trarre da esso nuove maniere, costrutti bizzarri e vivaci. Anche la sintassi e il periodo ondeggiarono lungamente fra le due sorgenti; perchè alcuni scrittori gli informarono sul periodo latino; altri preser norma principalmente dall’uso vivo, dettarono come parlavano. Da un lato l’arte un po’ burbanzosa; dall’altro la natura un po’ licenziosa: in pochi il giusto mezzo. Ed anche oggi le due scuole non sono del tutto estinte: l’una che tien l’occhio agli autori che più ritrassero dal latino, l’altra che vuol riprodurre, quanto più fedelmente si può, il volgare di Firenze.
Di questa doppia inclinazione, maggiore sino ab antico nella nostra lingua che nelle altre sorelle, dovea risentirsi e si risentì anche la Grammatica. La storia delle grammatiche italiane fatte in Italia si può forse dividere in tre principali periodi. Il periodo di compilazione, che va dal Fortunio e dal Bembo (1516-1525) fino al Buommattei (1623-1643), con un metodo ancora analitico e incerto, troppo ligio ora al latino, ora al volgare d’una provincia o d’una città. Il secondo periodo, che cominciando col Buommattei giunge al Corticelli (1745), con un metodo più compiuto e sistematico, e poggiato quasi tutto sull’autorità dei Trecentisti toscani. Il terzo periodo che va dal Corticelli fino al Gherardini (1825-47) ed al Mòise (1867-1879); periodo nel quale si è tenuto maggior conto del parlar italiano in generale, e di un più largo numero di scrittori: si sono meglio separate le maniere antiquate da quelle dell’uso vivo; si sono aggiunte nuove osservazioni; si è introdotta una terminologia più semplice e meglio adattata all’indole delle lingue moderne; e si è ragionato più sottilmente, anzi talora troppo sottilmente.
Non potè per altro la nostra lingua conseguire tutta quella certezza e regolarità di forme che si trova in alcune favelle, per esempio nella francese. La più stretta aderenza coll’idioma latino, la sua stessa antichità (perchè l’uso moderno comincia in gran parte dall’Alighieri, cioè dal secolo xiv), le varietà introdotte con pari autorità da grandi scrittori di diverse provincie, le dispute continuate intorno alla sua origine,5 ed il mancare l’Italia di un centro politico, fecero sì, che il supremo criterio di essa venisse riposto dai grammatici negli scrittori, anzichè in un parlare vivente. Donde provenne che per accettare parecchie forme non usate in Toscana, bastasse tante volte il trovarne esempii in iscrittori approvati e, quel che fu peggio, ne’ poeti, l’autorità de’ quali non dovea valere per la prosa; e provenne pure che si dessero come sinonimo due o più forme, senza stabilire nè qual meglio convenisse all’analogia, nè quale fosse conforme all’uso toscano, nè quale ristretta alla poesia.6 E questo inconveniente fu certo tra i motivi che spinsero Alessandro Manzoni a proporre il parlar vivo di Firenze come l’esempio unico dello scriver moderno, parendogli giustamente che, ove questo criterio fosse stato adottato, sarebbero diminuite le discrepanze e le incertezze dei grammatici, e reso più facile a forestieri il parlare e scrivere correttamente.7
Nè si deve tacere d’un altro difetto appuntabile alle nostre grammatiche. Ognun sa oramai quanto gli studii della filologia abbiano, anche nel campo delle lingue romanze e perciò dell’italiana, trasformato i criterii ed il metodo su cui riposavano molte teorie grammaticali; rettificato tante false spiegazioni di cangiamenti di suono per effetto della pronunzia; meglio chiarita l’indole di ciascuna lettera, gli accozzamenti di esse, i dittonghi, e quant’altro si riferisce alla struttura delle parole ed alla loro filiazione e formazione. Ora di questi nuovi studii, la più parte dei nostri moderni grammatici ed i più autorevoli non hanno o potuto o voluto trarne profitto, sia che non li conoscessero, sia che come merce in parte straniera li disprezzassero e ne diffidassero: altri modernissimi (e fra questi ricordo con onore il prof. De Mattio) si sono valsi largamente del metodo scientifico, ma non hanno serbato (o almeno ci pare) tutta quella chiarezza e facilità che ad uso dei non filologi sarebbe stata necessaria, e i loro lavori per una parte ricordano troppo spesso l’organismo del latino e somigliano a grammatiche comparate, per l’altra difettano di una cognizione sicura della viva lingua toscana.
Tali considerazioni mi mossero a tentare, restringendomi per ora alla parte etimologica, una nuova grammatica, della lingua italiana. Essa è intitolata Dell’uso moderno per indicare chiaramente che io mi restringo all’uso più comune dei colti scrittori e parlatori moderni, evitando, più che mi sia siato possibile, le dubbiezze, le incertezze, le ambiguità; nè però mi condanno a legittimare certe forme, parlate si da’ più, ma da quasi tutti gli scrittori fuggite, e che al gusto dei bene educati sanno di errore, ancorchè possano forse un giorno entrare risolutamente nella lingua letteraria; nè mi costringo in modo all’uso vivo, da rinunciare alla ragione ed alla convenienza e talvolta (debbo confessarlo) anche al mio proprio gusto.8 Non è il mio lavoro nè scientifico, nè empirico: non scientifico perchè credetti impossibile fare una grammatica italiana di tal natura, senza il confronto col latino, ed io ho supposto che chi studia questo Manuale non sia obbligato a conoscere quella lingua: neanche si può dire prettamente empirico, perchè, quanto mel permetteva il proposito di non uscire dal campo italiano, ho dato le ragioni linguistiche delle trasformazioni foniche, ampliato e rettificato le teorie sulla formazione e composizione delle parole, trattata con metodo più razionale la metrica, e nell’ordine e disposizione della parte che concerne le flessioni ho sempre tenuto di mira, insieme colla comodità per chi impara, anche la naturale struttura delle forme. Insomma io, mantenendo quasi del tutto la terminologia ora in uso (senza discutere della sua intrinseca esattezza), e mantenendo pure in gran parte l’ordine seguito dagli altri grammatici,9 ho cercato che il presente Manuale, benchè non sempre fedele al linguaggio che usa la filologia, fosse, per quanto si poteva, sorretto da basi scientifiche, servisse ad iniziare a più elevati studii linguistici, e conciliasse la chiarezza colla facilità e colla semplicità. Al quale intento mi sono tornati di grande aiuto i preziosi consigli che, quante volte ne l’ho richiesto, mi ha suggeriti il prof. Napoleone Caix, con quella benignità e larghezza che il vero dotto usa verso chi, costretto ad un laborioso e minuto insegnamento, non può fare, come vorrebbe, studii profondi.
Debbo infine prevenire due obiezioni che potrebbero essermi fatte. Taluni disapproveranno che, in una grammatica dell’uso moderno, io abbia così spesso registrato forme poetiche e, non di rado, alcune pure delle plebee ed erronee, o antiquate. Mi spaccio subito di quest’ultime, facendo notare che i solecismi sono accennati per una buona ragione, cioè perchè si fuggano da chi li adopera parlando o sentendoli parlare ai Toscani medesimi; e che le voci antiquate che ho riportate mi hanno fatto buon giuoco per ispiegare certe mutazioni foniche e linguistiche, senza ricorrere al latino. Restano le forme poetiche. La nostra lingua, cominciando da Dante e venendo fino ai moderni, abbonda di voci e maniere riserbate alla poesia, tantochè si possa dire aver questa quasi un idioma poetico a parte; e ciò primieramente per la ragione della rima (poichè convengo anch’io che molte delle voci poetiche qui registrate non le userei fuor di rima), e in secondo luogo perchè se la lingua stessa della prosa si è conservata come dicemmo, assai conforme all’uso de’ nostri classici, ciò doveva maggiormente accadere per quella della poesia, che è soggetta più della prima all’arbitrio degli scrittori. Io pertanto non poteva rigettare questa parte di lingua che rientra anch’essa nell’uso moderno degli scrittori stessi, se non nel caso che anch’io, seguendo il parere di alcuni critici novellini, la condannassi come un ingombro, una difficoltà, una vana pompa rettorica della quale fosse utile spogliare la nostra poesia. Ma essendochè, anzi, io la reputi un ornamento, una ricchezza, una perfezione; essendochè mi paia un bel pregio del nostro idioma il poter distinguere anche nella forma di molte parole la poesia dalla prosa (pregio comune al greco, al latino e chi sa a quante altre lingue); così io doveva accoglierla e non lasciarmi trascinare anche in questo dalla mania democratica signoreggiante. Un’altra obiezione mi si potrebbe fare rispetto all’accento tonico segnato su tutte le parole dove cade, invece di segnarlo, come altri fanno, soltanto sulle voci tronche, sdrucciole e bisdrucciole. Senza biasimare cotesto metodo anzi stimandolo il migliore e il più adattato per la comune de’ libri, ho voluto negli esempi e nei paradigmi di una grammatica etimologica abbondare negli accenti, affinchè la loro situazione e i cangiamenti cui vanno soggetti nella flessione, si stampasser bene nella mente de’ lettori, intendendo però di non continuare con questo sistema nel trattato della Sintassi, dove lascerò affatto gli accenti non ammessi dall’uso, supponendo che lo studioso ne sia oramai sufficientemente pratico.
E la Sintassi appunto è il necessario compimento che tuttora manca a questo libretto. Avverto però che le più indispensabili regole di essa sono inserite ai luoghi loro, e che al rimanente potrà supplire il Maestro finchè non sia pubblicata quella Sintassi italiana dell’uso moderno alla quale sto lavorando.
Note
- ↑ [p. 31 modifica]Vedi per tutti Federigo Diez, Introduzione alla Grammatica delle Lingue Romane; e Adolfo Bartoli, I primi due Secoli della Letteratura Italiana.
- ↑ [p. 31 modifica]Vedi, Napoleone Caix, Saggio sulla Storia della lingua e de’ dialetti d’Italia, ecc., Parma, 1872. — La formazione degli idiomi letterarii, in ispecie dell’Italiano (Nuova Antologia, Serie I, vol. XXVII, fasc. 9 e 10). Vedi anche Alessandro Manzoni, Sulla lingua italiana scritti varii, Milano, 1868; Vincenzo Pasquini, Della unificazione della lingua in Italia, Firenze, 1869; e le Opere latine di Dante Alighieri annotate dal prof. G. B. Giuliani, Firenze, 1878; pag. 192 e segg.
- ↑ [p. 31 modifica]Si potrebbero citare molti esempii a conferma di queste asserzioni, specialmente nelle declinazioni e conjugazioni. P. es. lòda e lòdo, vèsta, pòrte, tùrpa, gránda, ecc. ecc. lasciarono il posto a lòde, vèste, pòrta, tùrpe e gránde: eremíto, pianéto, interèsso, comùno, vèrmo, confessòro, gióvano e gióvana, dólco, sparirono nell’uso scritto davanti alle vere forme latine o greche, eremita, pianeta, interèsse: comùne, vèrme, confessóre, gióvane, dólce: póme, fùme, lènte (agg. ), ecc. furono cacciati da pómo, fùmo, lènto, ecc. Per la stessa ragione i verbi spogliarono alcune forme come erronee; p. es. pòssano e sim. (indicat. ) invece di pòssono; crédino, finischino e simili per crédano, ecc. amònno, dissono, fénno, ecc. ecc. per amárono, dissero, fecero, ecc. (Vedi il Nannucci, Teorica de’ nomi, ecc. e Analisi critica de’ verbi). La prevalenza de’ quali modi più conformi al latino fu certamente favorita dagli scrittori.
- ↑ [p. 31 modifica]Molte voci latine derivate conservano in italiano la loro forma assai più fedelmente che non facciano le primitive, segno che quelle furono introdotte più tardi dagli scrittori, mentre queste erano già [p. 32 modifica]nell’uso del popolo. Si confrontino, p. es. móglie, mulíebre; chièsa, ecclesiástico; séte, sitibóndo; sélva, silvèstre; fióre, flòrido; ghiáccio, glaciále; ecc. Spesso si è introdotto il solo derivato, mancando affatto la voce primitiva, p. es. pueríle e viríle, mentre non abbiamo nè pùero, nè víro. Spesso una medesima voce latina è passata in italiano sotto due forme, l’una alterata e guasta dal popolo, l’altra vicina al latino, perchè formata dagli scrittori; p. es. piève e plèbe; piùvico antiquato, e pùbblico; chiòstro e cláustro, claustrále; bièco e oblíquo; piègo e plíco; fièvole e flèbile; e tante altre, alcune delle quali puoi vedere in questa Grammatica (Parte I, cap. iii-vi).
- ↑ [p. 32 modifica]Intorno alle lunghe ed accese dispute che fino ab antico si agitarono e tuttora si agitano in Italia sulla natura e il nome della nostra lingua, volendola chi tutta toscana o fiorentina, chi formata dagli scrittori d’ogni parte d’Italia, puoi vedere le opere del Trissino, del Tolomei, del Varchi, del Muzio, e di altri nel sec. xvi; del Cesarotti, del Napione, del Monti, del Perticari, del Biamonti, del Manzoni, del Gelmetti, del Pasquini e di tanti altri ne’ tempi a noi più vicini. La questione fu anche riepilogata, poco fa, dal prof Caix nel vol. III dell’Italia di Carlo Hiilebrandt, pag. 121-154.
- ↑ [p. 32 modifica]Si potrebbero citare molti esempii delle incertezze provenute nella grammatica, dall’aver messo il supremo criterio negli scrittori sì antichi come moderni, senza riconoscere un uso vivo e determinato. Il libro di Daniello Bartoli Il torto e diritto del non si può, che cerca legittimare forme anche plebee, perchè usate da buoni autori, ne fa fede abbastanza. Se ne risentono però anche le grammatiche moderne: ci è stato taluno che voleva rimettere in uso i modi plurali i scògli, de’ stivali (ignoti ai Toscani ed alla grande maggioranza degli scrittori) per la ragione che spesso si trovano ne’ poeti, e che non danno cattivo suono come i singolari corrispondenti. C’è chi ammette, anche in prosa, farèbbono, dirébbono e fino anche fóssino. Alcuni danno per regolare altrui per altri semplicemente, e mettono davanti da o di in riga con davanti a. E quante forme poetiche o eccezionali non si pongono accanto a quelle dell’uso, o tacendone la differenza o solo timidamente accennandola? E quante eccezioni disusate in Toscana, non si danno ancora come legittime, specialmente nei plurali in a di certi nomi, e nelle flessioni de’ verbi? Non dico con questo che tali forme non si possano usar mai, specialmente dove la convenienza nello stile o il bisogno stesso di varietà lo richieggano; ma dico bensì e sostengo che una buona grammatica deve segnare la via maestra, e le deviazioni principali [p. 33 modifica]accennarle come modi poetici od eccezioni. Il che non può farsi senza stabilire un uso parlato e scritto insieme, quale si ha, più intero che altrove, a Firenze.
- ↑ [p. 33 modifica]Non si creda per queste parole, che io non conosca i pericoli a’ quali può condurre una torta applicazione della teoria del Manzoni, come sarebbero quelli di togliere ogni varietà alla nostra lingua, di empierla di forme plebee e scorrette, di spogliarla di tante maniere nobili, gentili, eleganti, di sconoscere insomma l’autorità dei grandi scrittori. Io veggo che lo stesso Manzoni nelle sue opere, e specialmente nella maggiore, ha interpetrato quasi sempre con quella moderazione che si doveva, le proprie teorie; e lo mostra assai bene il prof. D’Ovidio nel suo opuscolo sulla lingua del Manzoni. Dico ancora che altra cosa è lingua e grammatica, ed altro è stile: la prima, come avverte il Bonghi nelle sue Lettere (Perchè la letteratura, ecc.) dev’esser fissa e determinata quanto si può meglio; il secondo dev’esser vario e tutto individuale; e questa varietà può giovarsi anche delle eccezioni grammaticali e de’ modi un po’ antiquati.
- ↑ [p. 33 modifica]Dico questo, perchè in parecchie cose, dove l’uso comune era incerto e la ragione stessa ammetteva diverse opinioni, ho seguito quella via che mi pareva migliore e a cui mi traeva il consiglio di dotti amici; come, per esempio, in certe questioni d’ortografia (l’uso dell’j, il cie e i due ii ne’ plurali), senza farmi schiavo della pronunzia, che contraddice troppo spesso all’origine e formazione delle parole. Dove poi la lingua possiede realmente due forme sinonime, usate ambedue con uguale o quasi uguale frequenza, non ho potuto esimermi dal registrarle anch’io entrambe, senza determinare quale fosse da preferirsi, come p. es. védo e véggo; fo e fáccio; credéva, credévo; visto, vedùto, ecc. E qui debbo esprimere molte grazie al prof. Isidoro Del Lungo, accademico della Crusca, che più volte mi ha dato lume intorno al parlare di Firenze.
- ↑ [p. 33 modifica]Dall’uso de’ moderni grammatici differisco però in una cosa assai importante, cioè nell’avere adottato le detlinazioni de’ nomi, e ciò per la ragione che, quanto a diversità fra singolare e plurale, esse si trovano realmente nella nostra lingua, e che possono riuscire di molta chiarezza e comodità a chi studia questa per passare poi al latino. Ho per altro ripudiato anch’io i casi de’ nomi, perchè di essi manca veramente la lingua italiana.
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