Vai al contenuto

I Marmi/Parte seconda/Ragionamenti arguti/Agnol Tucci, Vittorio e Sarone

Da Wikisource.
Agnol Tucci, Vittorio e Sarone

../Il Gobbo sargiaio, Meo dal Presto e lo Squitti ../../Ragionamento della poesia IncludiIntestazione 27 settembre 2020 75% Da definire

Agnol Tucci, Vittorio e Sarone
Ragionamenti arguti - Il Gobbo sargiaio, Meo dal Presto e lo Squitti Parte seconda - Ragionamento della poesia

[p. 240 modifica]

Agnol Tucci, Vittorio e Barone.

Agnolo. Voi siate molto vendicativo; io per me mi guarderò come dal fuoco, di farvi dispiacere, o sia piccolo o grande, perchè voi non dimenticate mai, secondo che io odo dire.

Vittorio. Se voi non mi dite altri particolari, non vi saprei dir altro, se non che avete torto a dir cosí.

Agnolo. A me è stato detto che ogni minimo dispiacer che vi sia fatto, voi cercate in tutti i modi e per tutte le vie di vendicarvi; e quanto piú v’andate vendicando innanzi, tanto piú desiderate vederne vendetta: questo è un procedere diabolico, da cane e bestiale.

Vittorio. Circa a che cosa avete voi quest’opinione, o sentito ragionare che io mi vendico?

Agnolo. Assai sono i particolari; ma non ho cosí a memoria: io ve ne dirò un solo. Quando uno dice mal di voi, o vi tassa in cosa nessuna, che vi dispiaccia.

Barone. Ancora a me me n’è venuto qualche puzza al naso.

Vittorio. Ciascuno ha libertà di dir ciò che gli piace, ma egli bisogna, che, se egli è uomo di ragione, che favelli da uomo e non da bestia. In questo caso vo’ discorrere alquanto, e poi colpirò. Che ha da fare un altro, che non ni’ appartenga nulla, dell’animo o de’ fatti miei? Voi, verbigrazia, che non siate nè mio padre, nè mio fratello, nè mio parente, nè forse mio amico, che pazzo vi tocca egli a venirmi a riprendere, non sapendo perchè? — Oh! io ho udito dire al tale che tu gli vuoi male. — Dovevate prima domandare a me s’io gli voleva bene: e s’io diceva di no, dimandarmi della cagione; e se l’era giusta, entrar per via ragionevole e cercare l’unione della carità; e non mi venire con un fendente di sí fatta ingiuria a dirmi vendicativo, e favellare come gli spiritati. [p. 241 modifica]

Agnolo. Chi t’ha mosso a odiare il tale N? e chi t’induce a scriver sempre contro di lui?

Vittorio. Qui mi cascò l’ago: io per me non conosco cotestui né so chi egli si sia: guardate ora con chi voi l’avete.

Agnolo. E del tale?

Vittorio. Non ho detto mai male di lui; io ho tolto tutto quello che io ho trovato scritto di suo mano, che egli aveva in vitupero d’altri composto e ho fatto dir la partita in lui, acciò che vegga quanto è il piacere a scriver d’altri e dispiacere a essere scritto di sé.

Agnolo. Questo è un modo nuovo di far vendetta; egli si chiama tôr la spada di mano al nimico e dargli con le sue arme.

Vittorio. Cosí è: vedete s’io son valente! Ma la mia intenzione, acciò che voi sappiate, non è stata d’offenderlo, ma è stata per riprenderlo, acciò che egli s’emendi e che diventi buon cristiano e impari ad amar il prossimo come se medesimo.

Agnolo. Che grand’uffizio di caritá!

Vittorio. Il fatto mio è un piacere, ché almanco io sono o ritto o rovescio, la fo dentro o fuori, non sono un teco meco, o Cesare o nulla. Che vuoi tu che io facci come certi che fanno il fratello con esso teco e t’intaccano la pelle in amore?

Barone. Udite, l’è vera cotesta fantasia: e’ ci son certi che fanno di mali offizii e non par lor fatto.

Vittorio. Udite, e poi vi segnate. Io conosco un certo soppiattone che fa l’amico con esso meco, e talvolta, quando io gli mostro le comedie che io compongo e che io lo prego a dirmene il parer suo, adducendogli molte ragioni, verbigrazia: — Io non veggo nelle mie cose; io ci sono troppo affezionato; ciascuno debbe mostrar le sue composizioni a uno amico che le giudichi; io ho fede in voi, non mancate di dirne il vostro parere; — egli súbito promette di far tutto bene e di vederle e, dove saprá, vedrá, potrá, fará e dirá. Come io mi parto da lui, egli le mette lá in un cantone, e, quando le sono state in preda della spazzatura (e spesso ve ne manca uno straccio e talvolta non si ritrovano), egli ti tiene, con il non aver potuto, d’oggi [p. 242 modifica]in domani, un certo tempo lungo: alla fine egli te le rende senza averle pur guardate; ma prima a quanti praticano con lui, dice: Io ho la tal cosa di Vittorio, io tengo le tal sue composizioni, e senza averle lette le giudica; e dice che le sono una cosaccia, misurando gli altri con la sua misura, e fa proprio come coloro che pigliano un libro in mano a una libraria, che, aprendolo a caso, a caso ne leggano un verso o due, dove per sorte piacerà loro, e comprando il libro lo lodano a ciascuno senza averne veduto piú altrimenti. E ben sapete che non è sí degna opera, che non vi sia qualche parte di composizion dentro che offenda la materia, umore, cervello o pazzia di chi legge; nè sí cattivo scartafaccio, che non abbia in sè qualche poco di non so che, la qual cosa diletta a certi, onde viene spesso lodato il biasimo, e biasimato chi merita lode. Sí che questi tali son certi amici da tre per pajo, come i capponi da Seravalle. Di questi n’ho provati parecchi, et ho trovato all’ultimo che egli è meglio far conto che sien seppelliti vivi, e vivendo morti. Io per me non so esser di questa tacca; quando voglio un’oncia di bene a uno, son forzato a metterci le facultà, la persona e la vita; i disagi, per l’amico mi son agi; la servitú mi diventa libertà; la perdita, guadagno; e brevemente, quando sono amico, non mi ritiro indietro mai a far cosa nessuna per lui, sia di che sorte si vuole, benché la non sia da fare; perchè delle cose giuste e ragionevoli, oneste e del dovere, tu sei sempre obligato a farle per ciascuno: ma io voglio che per via dell’impossibile l’amico conosca che io gli sono amico. S’io fossi stato signore, andavo in precipizio tosto; perchè avrei servito l’amico, senza guardare o lecito o non lecito.

Agnolo. Questa cosa io non la lodo; conciossiachè la non è da Cristiano, nè da uomo da bene; nè fia alcuno che lodi mai cotesto estremo: tutte le cose vogliano peso e misura.

Vittorio. A poco a poco io darò in terra, e vi tirerò dove è il dovere. Non sapete voi che si dice per proverbio: E’ si dà l’ufizio e non la discrezione? Non si tira l’arco tanto, che egli si spezzi; nè si pela la gazza sí fattamente, che la gridi. [p. 243 modifica] In questo si conoscono se coloro ti sono amici, quando ti comandano; perché nel comandare si vede se l’amicizia è tutta per suo proprio utile e onore o per ciascuno insieme: chi è amico reale non passa i termini della modestia. Quando fossi principe e uno mi richiedesse cose che per cagione loro m’avesse a esser tolto lo stato, non lo terrei per amico altrimenti; o, se io avessi dieci ducati in borsa, senza avere il modo ad averne d’altrove, e uno me gli chiedesse, che mi fosse amico, e potesse far di manco e io n’avesse necessitá, gli direi: — Eccotene quattro —; se volesse il resto e s’adirasse per questo, lo cancellerei del mio libro.

Barone. Io comincio a intenderla; voi andate moderando l’insolenzia: un vero amico non fará simili insolenzie né si fatte sfacciataggini.

Vittorio. Oh, se io avessi tenuto uno per amico sei, otto, dieci o quattro anni (questo è un modo di parlare) o, per dir meglio, creduto che mi fosse amico, e io avesse due o tre amici in casa poveretti o figliuoli e mi trovassi senza uno aiuto al mondo né senza una sustanza d’aiutar me e i miei figliuoli, ed egli, con esser solo e potente a sostentarsi, volesse gli fosse dato dieci ducati, non m’aiutando di due, di tre e di mezzi, avrestilo tu per amico?

Agnolo. Non io; l’avrei per un asino.

Vittorio. Se egli n’avesse le centinaia e non ti sovenisse in una tua disgrazia, in una infirmitá, che direste?

Barone. Che fusse un furfante a tutto pasto, un gaglioffo in cremisi.

Vittorio. Se, sapendo alcun secreto tuo, e’ lo palesasse per rovinarti?

Agnolo. Cercherei di mazzarlo, non che levarlo del libro dell’amicizia.

Vittorio. Se si dicesse mal di te e con gli scritti t’apponesse il falso?

Barone. Diavol, portalo via.

Vittorio. Se l’amico lo riprendesse e minacciasse e poi la rimettesse in Dio? [p. 244 modifica]

Barone. Direi che costui è un uomo da bene e crederei di vederne vendetta.

Vittorio. Che vendetta ne crederesti voi vedere?

Barone. «De malis acquisitis non gaudebis tertius heres», la prima cosa.

Vittorio. Poi?

Barone. Il vitupèro che egli voleva fare ad altri, che ne cadesse sopra di lui altretanto.

Vittorio. Sta bene: ècci egli altro?

Barone. E che tutte le cose secrete che egli facesse, si rivelassero, secondo che egli era mancato di fede della parola secreta all’amico.

Vittorio. Agnolo, Barone è per la buona strada.

Agnolo. Ma voi che vendetta fareste a simile amico finto, doppio, falso, bugiardo, traditore, insolente, dappoco, ignorante e tristo? come vendicativo, e, non come cristiano, ma come uomo trasportato dall’ira dell’insolente amico e dal primo impeto della furia umana?

Vittorio. Non sono cosí furioso per rispondervi a parte per parte, perché io veggo che voi volete sapere tutto il mio cuore. La prima cosa, io considererei il benifizio ch’io ho avuto da lui e tèrrei la bilancia: s’io trovassi che delle dieci parte del male egli me n’avesse fatto una di bene, farei né su né giú; chi ha avuto si tenga.

Barone. Voi v’arrecate molto basso; fate ch’io v’abbia per particularitá ad intendere.

Vittorio. Credo che sappiate come io mi diletto di compor comedie.

Agnolo. Bene sta.

Vittorio. Mettiamo che io avessi per amico qualche dottore, fosse come si volesse, o un par di messer Carlo Lenzoni, che è uomo di giudizio, messer Giovan Norchiati o un altro che io avesse opinione che sapesse piú di me se ben non fosse cosí; ma acciò che meglio sappiate o intendiate, imaginatevi che io non facessi professione di componitore, ma di persona che scrivesse per passar tempo e non estimasse le mie cose piú [p. 245 modifica] che io mi facesse la spazzatura, sí come fo ancora, e il Norchiati o altri mi forzasse a tenére copia e le copiasse di man sua, parendogli che le fussino da qual cosa, e, brevemente, mi tirasse a farle stampare e per sorte l’avessin credito?

Agnolo. Buono uffizio è questo.

Vittorio. Se io non facessi altro e me ne facessi beffe del mio poco sapere ed egli s’atribuisse quella lode (guardate che io non vi lievi cotesta pelle di lione che vi siate messa indosso), dicendo a questo e quello: — Io, l’ho fatta quella comedia; egli, non sa nulla —?

Agnolo. È mal fatto. Direi bene: io l’ho aiutato, io l’ho messo su, io gne ne ho trascritte e raffazzonate.

Vittorio. Insin qui la sa di buono, se io e lui, egli e io, la sua eccellenza e la mia riverenza ci dessimo mano un tempo l’uno all’altro: — Scrivi a me, io scrivo a te; — Copiami questo libro; — Fammelo di bello scritto quest’altro tu; — Io ho danari, eccotegli; — Io non ho, dammene. —

Barone. Amicorum omnia son comunia.

Vittorio. Io tócco delle bastonate, io ti lievo dal vitupèro; sta qui, non ci posso vivere; va lá, non ci trovo cosa che faccia per me; muta, stramuta; provati e riprovati; cerca di metterlo inanzi, egli è un bue; fagli far supliche, e’ si caca sotto di paura; mandagli dieci scudi, son gettati via, ché gli stava meglio in compagnia de’ furfantegli e delle meretrici; vestilo di velluto, eccolo un asino a fatto.

Agnolo. Va, trova cotesto bandolo tu! Oimè! che gerghi sono i vostri?

Vittorio. Dice il Petrarca: «Qual maestro verrá e di qual scuole?» «Intendami chi può, ché mi intend’io».

Barone. Favellate da voi solo, adunque, o voi vi risolvete: toccate che vendetta voi fareste a chi v’assassinasse, sotto nome d’amico.

Vittorio. Sempre mi piacque l’andare a bell’agio. Io, vedendo ranugolare di mala sorte, direi: — E’ pioverá, — e pioverebbe: conoscendo costui sí scellerato, direi sempre, sempre, parecchi anni di lungo: — Voi vedrete capitar male [p. 246 modifica] costui; — misurando i suoi portamenti con altri come con meco si fosse portato.

Agnolo. Intendo; come dire: se a me, che gli ho voluto far bene e fatto quanto ho potuto, egli m’ha tradito, che fará egli a un altro che gli fará male?

Vittorio. Voi siate su la pesta; cotesto chiodo bisogna battere.

Barone. Io me lo tôrrei dinanzi.

Vittorio. Meglio fia, dopo cento minacci, lo gastighi una fune.

Agnolo. Ben gli sta.

Barone. Io son piú vendicativo di voi: alla prima, salterei la granata e te lo vitupererei con gli scartabegli o lo farei dipingere con sirene a torno, per il tradimento con trofei di testi secchi e corde, per i meriti di tre legni, con istoriette di Sinone sotto, di caval di Troia e di cittá; poi farei un togato da parte con una lettera in terra che fosse bella e sigillata e una figuretta nuda che gli desse un buon mandiritto, e lo farei stampare e lo publicherei; e poi, per non parere, convertirei il caval di Troia nel caval pegaseo, Sinone in un poeta che avesse delle frasche di lauro in mano, e, quel figurino che gli dava il suo resto, in una fama che l’incoronasse di lauro.

Vittorio. Voi saresti bestia bene; alle capate faresti voi: non sapete voi che duro con duro non fece mai buon muro?

Barone. Anzi, io sarei il duro che la vorrei vincere e lui sarebbe... presso che io non dissi la tenera o ’l pastaccio.

Agnolo. Altra via diversa terrei io, lavorando sempre sotto acqua; e gli verrei sopra all’improvista con certi mandiritti e certi fendenti che direbbe: — Io non l’avrei mai creduto! —

Vittorio. Un altro farebbe forse altrimenti, con essergli tanto tempo nimico per l’avenire quanto egli gli fosse per il passato stato amico, e spoglierebbelo degli onori che gli avesse dato e scorderebbesi i piaceri ricevuti e gli farebbe tanto danno quanto utile gli avesse fatto e tanto male quanto bene.

Barone. Cotesta non puzza e non sa di buono. [p. 247 modifica]

Vittorio. La migliore adunque è la mia, che ho preso per gastigo de’ miei errori tutto il tradimento usatomi e ho giudicato che sia ben fatto d’aver ricevuto una sbrigliata, e da quella pigliare il morso con i denti e dire: io vo’ far conoscere al mondo che costui è uno ignorante, perché farò dell’opere senza i suoi giudizii e migliori e piú belle; lui ne fará delle piú goffe; ergo e’ fia tenuto un pedante giusto giusto e un pedantissimo ignorante.

Agnolo. Questa è piú sicura strada, lasciarlo dir male e far bene, mostrar e far vedere a ciascuno con l’esempio di lui medesimo chi egli è. Al resto, Vittorio.

Vittorio. Non piú di questa razza di amici finti, doppii1: ma egli ce n’è d’un’altra che sono scempi, che adoprano in tutte le cose il «ma»: — Questa opera è bella, ma... Questa figura è ben tirata, ma... Il tale è uomo da bene, ma... Fará una buona riuscita messer tale e quale, ma... — Malanno che Dio ti dia! — si dice agli amici del «ma». Io ne conosco uno che mi ride sul ceffo e mi loda, e sempre ci aggiugne, quando favella con altri e che m’è dietro alle spalle «ma». Ma quando io lo veggo, ogni cosa è ben fatto. — Vittorio fa ben le comedie, ma egli pecca un poco poco nell’invenzione; Piero ha bonissime lettere latine, ma non le sa esprimere; Giovanni è gran musico, ma ha cattiva grazia nel cantare; Martino è un soffiziente scrittore, ma è straccurato e pecca in ortografia; l’opere del Macchiavelli son belle, ma insegnano certe cose che non mi piacciono; le cose dell’Aretino son vive e sopreme, ma, non essendo dottore, come fa egli a farle? le cose del Muzio hanno un bel stile, ma non lo vorrei tutto equale; le cose dell’Alamanni son buone, ma egli ne fa troppe. — O che malanno di giudizio è questo? Sapete chi son poi costoro? Certi aghiacciati che sanno l’a b c, e su quella si sono afissati e hanno posto il tetto, dicendo: — Egli è meglio sapere poco poco, ed essere illustrissimo ed eccellentissimo che saperne assai e farle imperfettamente e non giungere a quel supremo grado. — Ma non [p. 248 modifica] riguardano mai tanto che baste, questi girandolini, conciosia cosa che non posson dar giudizio se non di quel tanto che sanno. Non può, uno che non sa altro che sculpire, giudicare le poesie, né un puro pittore tassar le prose, né un gramatico distendersi nella filosofia come giudice, e manco un mecanico plebeo accusare un signore che governi male: ma si credon, costoro, come sanno fare, verbigrazia, un sonetto, saper comporre un Platone, o, come egli hanno tradotto una leggenda, saperne comporre altretanto. Oh come s’aviluppano eglino! Simil bacherozzoli stanno su quel «ma». Malanno che Dio dia loro!

Barone. La vi va! Pur che mentre voi cavate la fossa per farvi cader altri, che voi non ci saltiate dentro con loro, che come cieco v’accompagnate insieme.

Vittorio. Credi che io mi voglia attribuire il magisterio? Questo è quanto buono io abbia, che io so certo che tutte le cose mie son di poco valore; e lo conosco per questo, perciò che io le fo per dar pasto al mondo, non le fo per esser riputato dotto né eloquente né acquistar fama, credito o riputazione, ma per non mi stare. — Oh! tu potresti far qualche altra cosa di piú profitto. — Io son fra Lorenzone, che la poca fatica gli era una sanitá: lo scrivere baie mi ingrassa, il ridermi di chi dice che le son belle mi diletta e il farmi beffe di simil ciancie m’è un’allegrezza inestimabile. E cosí come io mi rido delle cose mie e che me ne mocco il naso — disse il Panata — cosí dell’altre stupisco; ogni cosa mi par bella, ciascuno mi par che sappia piú di me, reputo ogni ignorante migliore e piú stupendo di me, perché m’imagino che egli si creda tale e a tal fine abbia fatto la sua fatica e che la sia tenuta, da ciascuno che abbia giudizio, come la tengo io. In questo sono un poco arrogante, di credermi di aver giudizio, come gli altri che hanno giudizio in quelle cose medesime che io m’intendo.

Agnolo. Sta bene: so che voi giucate di scrima benissimo. Avete voi altro da dire in difesa vostra, perché v’ho garrito che dite male di chi v’offende?

Vittorio. Ho detto parte di cagione che mi conduce a offendere. [p. 249 modifica]

Barone. D’altra amicizia non si parla stasera adunque?

Vittorio. Se non fosse si tardi, vi mostrerei una certa sorte d’amici inavvertenti che fanno peggio talvolta che i nimici. Oh che amici ignoranti! Con una parola rovinano una famiglia, con un sospetto, imaginato da goffi senza avvertenza, mettono al fondo un amico.

Barone. Son difficili costoro a conoscergli?

Vittorio. Difficilissimi; perché l’inavvertenza è un male che nasce da scempiezza e credulitá di credersi d’esser sagace, astuto e conoscere il pelo nell’uovo.

Agnolo. Io fuggirei di pigliar si fatte amistá.

Vittorio. Il piú difficil passo che sia al mondo e la piú fallace dottrina che s’impari è il credersi d’esser dotto nello squadrare le brigate: tal pare una mucia che è un serpente velenoso, un altro pare Orlando ed è una pecora. Chi fa professione di sapere piú che non sa, crede che l’uno e l’altro finga o che vadino alla reale né sa discernere l’esito del lor procedere, perché i fatti del mondo son piú diversi che le foglie e piú volubili e ciascuna azione tien del camaleonte: il proverbio che dice: «E’ si va per piú strade a Roma», è perfetto.

Barone. Io non mi fiderei mai d’uomo.

Vittorio. Bisogna andare a sotterrarsi, chi fa cotesto pensiero: noi siamo al mondo e bisogna viverci come porta l’uso del mondo: di questo sturatevene gli orecchi, ché l’è cosí e cosí ha da andare, mentre che egli sta in piedi; e chi piú ci vive è l’ingannato: basta, che non c’è uovo che non guazzi.

Agnolo. Dio mi guardi adunque d’amici inavvertenti.

Vittorio. Da’ doppi ancóra, da’ bilingui, da’ tristi.

Barone. Credo che bisogni gettare il ghiaccio tondo e dire: «Dio ci liberi dal male», come dice il Paternostro, e non ci lasci ancor noi far male ad altri.

Vittorio. Il meglio fia certo pregarlo che ci cavi del cuore i cattivi pensieri e che ancóra agli altri gli cancelli.

Agnolo. Amen.

  1. Anco questa è una tirata contro il Domenichi [Ed.].