Ifigenia in Aulide (Euripide - Romagnoli)/Introduzione

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Introduzione

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Euripide - Ifigenia in Aulide (403 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1929)
Introduzione
Ifigenia in Aulide (Euripide - Romagnoli) Personaggi
Questo testo fa parte della raccolta I poeti greci tradotti da Ettore Romagnoli
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Da una didascalia di Aristotele, e da una annotazione antica a Le Rane di Aristofane, apprendiamo che l’Ifigenia in Aulide fu messa in scena dopo la morte d’Euripide, dal suo figliuolo. Naturalmente, questa circostanza ha provocato i sospetti e l’operosità dei critici e tutte le singolarità e le stranezze, reali o presunte, della tragedia, furono dichiarate interpolazioni, condannate ed espunte. Io credo che possiamo attenerci alle conclusioni di Enrico Weil, che qui, come in quasi ogni altro punto della letteratura greca, fa davvero testo, perché alla dottrina filologica, vastissima e profonda, congiunge un fine gusto letterario, e, ciò che importa anche di piú, una gran dose di buon senso. «Pur facendo le nostre riserve — dice il Weil — per le interpolazioni, le lacune, le alterazioni di ogni specie, dalle quali nessuna opera d’Euripide va interamente immune, io credo che noi leggiamo oggi questo dramma quale lo lessero Aristotele, Ennio, insomma tutti gli antichi»1. Facciamo nostre le parole dell’insigne filologo, e con tale spirito procediamo all’analisi della tragedia. [p. 78 modifica]

L’Ifigenia appartiene dunque all’ultimissimo periodo dell'attività d’Euripide. È, in qualche modo, sorella de Le Baccanti.

Però, mentre Le Baccanti rievocano in qualche modo, e nello spirito e nella forma, la primitiva tragedia eschilea, l’Ifigenia afferma invece e compendia, in contrapposizione quasi simbolica con l'arte di Eschilo, i nuovi risultati della continua avventurosa ricerca d'Euripide nel campo del dramma.

E per questa Ifigenia possiamo istituire un confronto non solo generico, bensí specifico. Perché è bensí vero che della Ifigenia di Eschilo non rimangono piú altro che frammenti insignificanti; ma nel primo canto innanzi all’ara dell’Agamennone ne possediamo una lunga eco, che ne è quasi un riassunto (dall'antistrofe III al principio dell’antistrofe VI). — Calcante annunzia ad Agamennone e a Menelao la volontà d’Artemide. All'orrida notizia, i due fratelli, percossi da un uguale dolore, battono il suolo con lo scettro, né riescono a frenare il pianto. Però, svanito presto un primo momento d’esitazione, Agamennone si risolve ad immolare la figlia. Questa prega, supplica, piange, inutilmente. Lancia allora imprecazioni; e per impedirglielo la imbavagliano. Cosí è sgozzata sull’altare, come una capra. E il racconto si conclude, come, secondo ogni probabilità, si sarà conclusa, coralmente, la tragedia, con un misterioso mormorato presagio:

Gli effetti ignoro e taccio;
ma di Calcante mai
l'arti non furono írrite.

Dunque, una fedele esposizione del mito, essenzialmente lineare. E tutti i momenti dell’azione, semplici, nitidi, schietti, [p. 79 modifica]vere mònadi drammatiche. O, se si preferisce, fusti che unici e diritti si levano dal terreno della leggenda, senza aprirsi in rami.

Ma se osserviamo l’Ifigenia in Aulide di Euripide, vediamo che, súbito al pie’ di ciascun fusto, son germogliati uno o piú polloni.

Agamennone non ha il coraggio di far conoscere a tutti la sua orribile decisione, e per far venire la figliuola ad Aulide inventa lo stratagemma delle infinte nozze con Achille.

Menelao non partecipa, come in Eschilo, lo strazio del fratello, ma, con un duro egoismo, vuole che la fanciulla sia uccisa. Onde l’appostamento del servo inviato da Agamennone a Clitemnestra, e il sequestro della lettera.

In séguito a tale contrattempo, Clitemnestra arriva al campo senza esser prevenuta. E Agamennone che si appiglia di nuovo al partito d’immolare la figlia, seguiterebbe a mantenerla nell’ignoranza.

Se non che, arriva per sollecitare Agamennone alla partenza, Achille, che non sa nulla dello stratagemma delle nozze, e s’imbatte in Clitemnestra. Il colloquio fa nascere in entrambi sospetti, che però sarebbero destinati a rimanere indeterminati, se non sopravvenisse il vecchio servo di Agamennone e di Clitemnestra, che svela ad entrambi l’orribile segreto.

Il giovane eroe promette di salvar la fanciulla. E manterrebbe. E quando sappiamo che Ulisse a capo d’una schiera d’armati si appresta a venire a strappar la fanciulla alla madre, attendiamo un fiero cozzo dei due eroi; se non che, Ifigenia si rassegna, e si offre volonterosa al sacrificio.

E al sacrificio muove. Ma quando gli spettatori la credono oramai morta, sopraggiunge l’araldo, e annuncia che è stata miracolosamente salvata dalla Dea, ed è verisimilmente ascesa fra i Celesti.

Cosí, dunque, sopra tutti i momenti del mito il poeta ha [p. 80 modifica]liberamente lavorato di fantasia, modificandoli in maniera che ciascuno di essi sopravvenisse a mutare uno stato di cose creato dal precedente. Colpi di scena, insomma. E la materia drammatica liberamente elaborata in modo che lo spettatore passi di sorpresa in sorpresa. E non giova dire che ad ogni modo gli spettatori già conoscevano l’esito del dramma. È questa appunto una prerogativa della poesia drammatica, e, un po', di tutta la poesia, di illudere i cuori, sinché non giunge, sia pure per la millesima volta, l’esito fatale, che veramente tronca ogni adito alla speranza.

Abbiamo a suo luogo accennato al carattere eminentemente statico della psicologia dei personaggi di Eschilo. E abbiamo visto come, a mano a mano, attraverso gli stessi ultimi drammi di Eschilo, e poi in tutti quelli di Sofocle, a questa immobilità subentri una mobilità sempre maggiore.

Ma in nessuno dei drammi greci sopravvissuti è cosí evidente come in questa Ifigenia.

Agamennone, al primo udire il responso di Calcante, dà ordine di sciogliere l’esercito. Poi, per le pressioni di Menelao, si decide al sacrificio, ed escogita il tranello delle finte nozze con Achille. Poi muta ancora avviso, e vuole salvarla. Ma, ancora, un cumulo di riflessioni pratiche lo inducono a tornare alla prima empia decisione.

Piú che risoluto appare Menelao a lasciar sacrificare la nipote, purché il proprio onore sia salvo, e l’Ellade vendicata. Ma quando vede le lagrime che sgorgano dagli occhi del fratello, s’intenerisce, rinuncia a tutto, e gli parla con somma amorevolezza.

Achille è profondamente commosso dalla misera sorte di Ifigenia, e insieme indignato perché Agamennone s’è ser[p. 81 modifica]vito a sua insaputa del suo nome. Ma poi, ad onta di qualche blanda protesta, fa tacere e pietà e indignazione. E non si riesce a distruggere l’impressione che su questo mutamento abbiano un po’ influito la sedizione dell’esercito acheo, la defezione dei Mirmidoni. Ma entrambe queste circostanze, e, quasi direi, anche la remissività d’Ifigenia, avrebbero piú che mai eccitato, piú che mai indotto a perseverare nella sua magnanima decisione l’Achille d’Omero, o, ancor piú, un Achille riconcepito da Eschilo.

Ma questa inflessibile durezza è ben lontana dai personaggi dell'Ifigenia: per essi potrebbe anzi valere come motto il verso dantesco:

Trasmutabile son per tutte guise.

E nessun dubbio che questa mutabilità importi uno stemperamento del carattere tragico; ma importa insieme un incremento d’umanità, e rende possibili effetti patetici che toccano profondamente i cuori. Dice Agamennone: «Mi vergogno di piangere, e poi mi vergogno di non piangere». Ed è espressione indimenticabile. Dice Menelao:

                         allor ch’io vidi
il pianto che dagli occhi a te sgorgava
sentii pietà, versai lagrime anch’io,
e ciò che ho detto lo rinnego.

Diminuzione di tragicità? È stato detto, massime dai critici francesi. Ma tanto maggiore ne riesce l’umanità (critici ultramoderni, scacciatela dalla porta, rientra dalla finestra). E la figura, antipatica, o, per lo meno, anodina, di Menelao, quasi ne riesce simpatica; homo sum nihil humani a me alienum puto. [p. 82 modifica]

Ed eccoci giunti a quasi contrapporre la tragicità alla umanità.

E in certo modo, è cosí. La tragicità è infatti qualche cosa tra il ferino e il divino, che ci colpisce e ci stordisce piú che non ci commuova. E, innanzi tutto, bisogna guardarsi molto bene dall’identificarla, come fanno molti critici accademici, e, massime, i francesi, con l’eroismo, o, addirittura e peggio, con la solennità decorosa.

Pigliamo un esempio concreto, la pittura già ricordata di Ifigenia nell’Agamennone:

Gli appelli al padre e le preghiere, nulla
mossero i prenci, né l’età virginea.
Ordine il padre die’ che la fanciulla
su l’altare i ministri a mo’ di capra,
dopo la prece, arditamente levino,
prona, nei pepli avvinta. E a ché non s’apra
la bocca bella, e l’improperio scagli
contro i suoi lari, con la muta furia
la frenin dei bavagli.
Al suolo essa le crocee
vesti gittò: dal guardo
su ciascuno di quei che l’immolavano
vibrò, di pianto evocatore, un dardo,
bella come dipinta immagine, ansia
di parlar.

D’eroico, non c’è proprio nulla. È una povera e debole fanciulla, che sino all’ultimo lotta e si dibatte per non morire, e infine, resa muta dal bavaglio, ancora implora con gli occhi. [p. 83 modifica]

Analizziamo a fondo la nostra impressione. È profondissima, quasi insostenibile. Eppure, non è propriamente umana. Quella fanciulla debole, e insieme tremendamente riluttante, e, infine, priva di favella, ha evocata nel nostro spirito — e il poeta stesso l’ha suggerita — l’immagine d’una povera agnella condotta al macello. Non la figlia del possente monarca, neppure la fanciulla achea, figlia d’intrepidi, e quasi neanche piú, direi, una figlia di uomini: bensí una povera creatura col solo attributo della vita, ridotta al semplice istinto: simbolo, quasi, della terribile invincibile ribellione d’ogni creatura vivente dinanzi al buio della morte. Nel piú profondo del nostro spirito, confusa e tanto piú perturbatrice, viene evocata la coscienza della fraternità dell’uomo con tutti gli esseri della creazione, vien fatto appello ad una solidarietà meno precisa, ma piú profonda e misteriosa, meno umana e piú universale. Siamo imbevuti dell’oscuro e amarissimo senso che dopo tanti secoli doveva esser definito doglia mondiale. È un di meno ed è anche un di piú. È la tragicità d’Eschilo. È la pura tragicità.

Ma di quali altri sviluppi, di che effetti patetici non è suscettibile la mutabilità sofoclea, portata da Euripide, massime in questa Ifigenia, alle ultime conseguenze! Ne è luculento esempio la figura di Ifigenia.

La giovinetta, quasi ancora bambina, uscita appena dal tepido sicuro asilo della casa patema, che batte ancora le alucce sotto l’ala materna, piena la mente solo d’immagini di amore, di tenerezza, d’infantilità, si trova sbalzata d’un tratto, dal destino tremendo, senza pietà e senza logica, a un disumano cimento di morte. La mano soave e possente del padre, nella quale credeva d’avere un sicurissimo baluardo contro tutto e contro tutti, eccola ad un tratto armata d’un pugnale, rivolta contro la sua gola. E la madre non può nulla; e tutto d’intorno suono d’armi e voci senza pietà. Il cuore le manca, [p. 84 modifica]cade ai ginocchi del padre, e dal suo labbro sgorgano le piú commoventi parole che mai il terrore abbia strappato a creatura umana. Assai discorsi commoventi si possono trovare nel teatro d’Euripide, ma questo li supera tutti, e supera quanto c'è di simile nel teatro greco e in ogni teatro: basterebbe da solo a far dell’Ifigenia un capolavoro, basterebbe da solo alla gloria d’Euripide.

Ma Agamennone risponde con fredde parole. Sembra che la tetra calma dei venti e del mare abbia con malefico sortilegio paralizzato il suo cuore di padre.

E questa Ifigenia d’Euripide non è la creatura puramente istintiva d’Eschilo. Ha una mente lucida, sceveratrice. E poiché Agamènnone le favella il freddo linguaggio della ragione, le cade dagli occhi ogni benda; e in lui non vede piú il padre, che si adora e non si discute; bensí l’uomo, che si giudica. Essa vede ben chiaro. Nulla vale il pretesto di Agamennone, che, se rifiutasse d’immolare la figlia, gli Achei invaderebbero il suo regno, porrebbero a sacco la reggia, e ucciderebbero i suoi figli, e, dunque, anche, Ifigenia. Frigida logica e specioso pretesto a mascherare una turpe codardia. Perché né lontane minacce né pericoli imminenti debbono stornare un padre dal suo sacrosanto dovere. Per la sua diletta figlia il suo sangue dev’essere versato sino all’ultima stilla, senza numerare nemici, senza badare a pericoli, senza discutere un istante. Agamennone non lo fa, ed è un traditore. Traditore ed empio lo chiama la figlia, che un istante prima lo vezzeggiava con le piú tenere parole.

E un nuovo fatto giunge a turbare il suo spirito. Arriva Achille. Nel suo cuore di fanciulla essa prevedeva certo un turbamento, quando si sarebbe trovata innanzi allo sposo, il piú prode di tutti gli Achei. Turbamento grande, eppure soave. E invece adesso! Tutto non fu che un giuoco, uno scherno di morte. E vorrebbe allontanarsi. Ma la madre la induce a [p. 85 modifica]rimanere: in cosí gran periglio, non conviene una eccessiva ritrosia.

Rinunciare alla ritrosia è per una fanciulla piú amaro che rinunciare alla vita. Pure, Ifigenia rimane. Il destino è il destino. Ma in poco tempo, a quale durissima tempera ha dovuto sottostare il suo povero cuore. Se non s’è spezzato, vuol dire che era cuore ben valido.

E intanto apprende che tutto l’esercito degli Achei sta movendo contro di lei, che Uiissei ha giurato di afferrarla per le bionde trecce, e di trascinarla cosí all’altare. Pare che tutte le furie dell’universo si scatenino contro la dolce creatura vigilata sino a ieri e curata come un fragile fiore.

E qui si compie il mutamento, repentino in apparenza, e in realtà preparato e graduato con somma perizia e con somma intuizione del cuore umano, del cuore d’una fanciulla e d’una fanciulla regale.

Perché ella è pur sempre del medesimo sangue di Clitemnestra e d’Elettra. Sangue di re. La sua fronte non si umilierà mai dinanzi ad alcuno. E qui non c’è che una via di uscita: rispondere alla ferocia con la fierezza. Essa moverà intrepida alla morte: sulla sua persona doppiamente sacra, nessuno avrà pretesto di metter la mano2.

Il declinare dell’altezza del linguaggio tragico da Eschilo a Sofocle, e da questo ad Euripide, è fatto piú che palese, e rilevato da tutti, dall’antichità ai dí nostri. In talune tragedie [p. 86 modifica]di Euripide il linguaggio discende di tono in guisa da far pensare alla famosa espressione d’Orazio: nisi quod pede certo differt sermoni sermo merus: commedia ben piú che tragedia. Eppure, a badare alla sostanza, in nessun dramma, forse, il tono del linguaggio è cosí costantemente dimesso come nella Ifigenia in Aulide.

Superfluo parlar della scena, che sostanzialmente apre l'azione, fra Menelao ed il servo. A questo Menelao i critici francesi sbarravano a due battenti il regno di Melpomene. E dal loro punto di vista neanche avevano torto: della «dignità tragica», tanto cara ai compatrioti di Racine e di Boileau, qui neppur l’ombra. Né il tono sale nella contesa col fratello Agamennone. «Perché t’intrighi dei fatti miei?» — «Perché cosí m’accomoda» — «In casa mia, non sarò padrone di far ciò che voglio?» — . Anche i re son uomini, d’accordo, ma qui, davvero, sono troppo uomini. E lo stesso spirito anima la requisitoria di Menelao, né il tono muta quando dalle maniere brusche si passa alle conciliative. «Non la prenderò dall'alto — dice Agamennone — parlerò senza boria, da fratello a fratello. — Una persona distinta deve mantenere il suo decoro. — I Numi, t’hanno liberato da una donnaccia, e tu, invece di ringraziarli, te la vuoi riprendere? Sei da annoverare tra i pazzi». Concetti triti, e, come ora si direbbe, borghesi, come piú non si saprebbe immaginare.

E cosí si va avanti sino all’arrivo di Clitemnestra. La regina affida alle ancelle i doni nuziali, e raccomanda che non li sciupino. Ed essa e le donne del coro insistono sul particolare dell'aiuto che si deve dare alle donne per farle discendere dal carro. E poi viene il particolare del bambinello Oreste, che s’è addormentato per il tran tran del veicolo. Particolare graziosissimo, quest’ultimo, e graziosi anche tutti gli altri. Però, da mimo e non da tragedia. «Indugia — dice il Patin — in particolari borghesi cui si sdegnerebbe la nostra Melpomene». [p. 87 modifica]

Certo che li sdegnerebbe. Salvo che la Melpomene gallica è stata, un po’ sempre, una eterna candidata all’Accademia di Francia. E questo tono continuamente rilassato dell’Ifigenia (inutile indugiare in altri esempii), allontana, sí, il dramma dallo stellato empireo delle nove sorelle, ma lo avvicina alla divina verità. Ed è inutile starci a sofisticar troppo. È una vicinanza dalla quale tutte le opere d’arte, passate, presenti, e, giuratelo pure, future, si troveranno sempre corroborate e rinfrancate. Euripide ci ha voluto dire, ripetere, ribattere, che quel re, quella regina, quella reginetta sono, in fondo, uomini e donne uguali a tutti gli altri. Ha esagerato, magari. Ma tanto piú sicuramente ha trovato le vie del nostro cuore.

E allo stesso amore di verità si deve forse la caratteristica forma del finale.

Nei drammi greci, per solito, l’araldo giunge ad esporre il momento supremo e piú atroce della tragedia, che non viene mai direttamente rappresentato. Però, il dramma non finisce qui. Dopo questo culmine, seguono altre scene che ne espongono le ultime conseguenze, o ne fanno il commento: compiendosi in questo indugio una mitigazione dell’orrore che ha invaso l’animo degli spettatori: se vogliamo, una catarsi.

Qui invece, al racconto dell’araldo seguono quattro versi di Clitemnestra, sei di Agamennone, due del coro, e la tragedia finisce.

E con questa chiusa del suo ultimo lavoro il poeta sembra affermi il principio, divenuto poi canonico, che dopo il momento culminante del dramma, non c’è piú posto per altre scene, sebbene la tradizione le consigliasse e quasi le imponesse. Perché qualsiasi catarsi non poteva oramai che smorzare l'effetto, al quale Euripide, uomo di teatro, teneva molto. [p. 88 modifica]

Ma si noti, inoltre. Nei pochissimi versi che seguono il racconto dell’araldo, né appare un Nume (come nell’Ifigenia in Tauride) che in un modo o nell’altro legittimi la soluzione prodigiosa, né il coro pronuncia parola che proclami la fatalità, divina, e dunque indeprecabile e incolpabile, di quanto è avvenuto. Il commento consiste tutto in una amara osservazione di Clitemnestra.

T’ha dunque un Nume rapita, o figlia?
Che debbo credere di te? Che quanto
costui m’ha detto non è che favola
vana, a placare questo mio schianto?

Parole che riecheggiano uno scetticismo già espresso dall’infelice regina:

                                     Oh, dissennati
crederemmo gli Dei, se reputassimo
che gli assassini favorir potessero.

Dunque, non può essere che una Dea abbia chiesto il sangue d’una innocente fanciulla. Essa è caduta vittima della presunzione d’un indovino, della stoltezza d’una folla, della viltà d’un padre. Questo lievito d’amarissimo dubbio infonde il poeta nel cuore dei suoi uditori negli ultimi versi del suo dramma. Che, ricondotto, anche qui, alla pura umanità, con l’esclusione d’ogni elemento soprannaturale, ne riesce tanto piú straziante e commovente.

E questa passione pel vero neanche è scevra d’inconvenienti. Appena, nel corso del dialogo, al poeta balena qualche scena che egli veda precisamente, in ogni particolare, [p. 89 modifica]con acutezza che egli reputi non comune, non resiste alla tentazione di riprodurla, massime se può includervi qualche sua osservazione analitica e critica, che costringa chi lo ascolta ad esclamare: come è vero!

E cosí, spesso descrive e ricorda inezie davvero indegne, non dico dell’altezza, ma pure della passione tragica: tale il ricordo delle infinite chiacchiere dell’esercito acheo all’arrivo delle due regine.

E peggio quando cade in vere e proprie divagazioni. Impareggiabile la pittura che Menelao fa di Agamennone in cerca di voti, e prima e dopo l’elezione. Ma tutti sentiamo, e piú dovettero sentire gli Ateniesi, che è presa pari pari, e con fedeltà e acume mirabili, dalla vita politica d’Atene del V° secolo. E poi, a parte l’anacronismo, è fuori di posto, e, in ogni caso, eccessivamente lunga.

Ed anche in questo dramma l’osservazione troppo insistente dell’animo umano gli ispira osservazioni che, a furia d’acutezza, finiscono per allontanarsi dalla verità. Cosí Achille confessa che difende Ifigenia piú per puntiglio, per l’offesa fatta al suo amor proprio, che non per pietà e per ribellione all’odioso responso che condanna la fanciulla all’atrocissima morte.

Un grave torto a me fece Agamennone.
A me chieder doveva il nome mio,
per adescar la figlia; e Clitemnestra
meglio da me sarebbe stata indotta
a cedere la figlia. Ed io concesso
agli Ellèni l’avrei, se non concederlo
contesa avesse la partenza......

· · · · · · · · · · ·
I duci in nessun conto ora mi tengono:

bene trattarmi, o male, è ugual per essi.
Ma ragione farà presto la spada.

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Ora, è verissimo che molti uomini, poniamo la maggioranza, proverebbero, senza confessarli, i sentimenti espressi da Achille. Ma molti, senza dubbio, sarebbero stati tanto commossi dal fiero caso della fanciulla, che l’idea dell’amor proprio offeso non sarebbe neppur balenata al loro spirito. E assai piú vicino al vero sarebbe stato Euripide, se fra questi molti avesse incluso un eroe immacolato ed umano, come qui ha, senza dubbio, voluto rappresentare Achille.

Ma poi, altri due tarli, fra i molti che minano tutta l’opera d’Euripide, rosero anche questa ultima tragedia, e ne offuscarono un po’ la bellezza, che d’altronde fulgerebbe quasi immacolata.

Uno, la musica. O, per meglio dire, la soverchia preponderanza che la musica era andata acquistando nel dramma, e massime nelle monodie. Le monodie, lo sappiamo per notizie dirette, e ancor meglio lo vediamo nelle parodie di Aristofane, divennero a mano a mano, assai piú dei cori, campo riservato agli esperimenti sempre piú arditi e bizzarri della musica, ed anche un po’, sembrerebbe, al virtuosismo dei cantanti.

Ora, vediamo la monodia che chiude la scena d’Ifigenia col padre. È bensí vero che qui le parole dovevano servire anche, o, ammettiamolo per un istante, in primo luogo, di fulcro alla musica; e non sapremmo dire come e quanto questa musica, che non conosciamo, potesse giovare ad accrescere un pathos che a noi sembra avesse raggiunto un insuperabile vertice nella preghiera d’Ifigenia al padre. Ma rimane indiscutibile che ogni lettore moderno si sente assiderato da quella cantata esposizione d’antefatti, dalla descrizione delle valli di Frigia, della puerizia di Paride, del giudizio delle tre Dee.

L’altro tarlo è la tendenza politica. Meravigliosamente in[p. 91 modifica]tuita, lo abbiamo visto, la figura d’Ifigenia dal suo primo apparire sino al suo repentino, logicissimo passaggio all'eroismo. Ma assai meno convincente il ragionamento con cui essa giustifica e spiega questo passaggio. Essa ripete e sviluppa i ragionamenti di Agamennone, che, se ci repugnavano dalle labbra del padre, da quelle della figlia non riescono a persuaderci. E aggiunge di proprio due ragioni che ci piacciono anche meno. Prima, non è giusto che essa, mortale, si opponga alla volontà d’Artemide (quanto piú convincente lo scetticismo di Clitemnestra!); seconda, la vita d’una donna conta ben poco: «piú di mille e mille donne — val che un uom schivi la morte».

Fa stizza. Ma gli è che qui il poeta non segue piú docilmente la creatura che, nata direttamente dalla sua intuizione, ripete dalla legittima nascita un’autonomia non minore di quella d’una creatura reale. Qui sul poeta influiscono altre forze estranee, e nocive all’arte. Influiscono principii che gli sta a cuore d’affermare, per ragioni che qui non giova indagare. Influisce, soprattutto, la tendenza, e forse il bisogno, di accarezzare la sensibilità patriottica degli spettatori.

Perché qui, naturalmente, bisogna leggere fra le righe. Quando Ifigenia parla di Frigi, tutti intendono «Persiani»; quando parla di Ellade, tutti intendono «Atene». Perché Atene si attribuiva, e a buon diritto, la parte principale nella vittoriosa guerra contro i Persiani.

E cosí riesce di fatto alterata una figura che d’altronde possiede tanto fulgore artistico da nascondere qualsiasi ombra.

Richiamandoci a quanto già osservammo, nelle prefazioni generali, intorno alle necessità scenografiche dei Greci, osserviamo che in pochi drammi, eccettuato l’Agamennone, la [p. 92 modifica]scena è cosí largamente, cosí efficacemente suggerita come nell’Ifigenia in Aulide.

Già le primissime parole del dramma ci fanno volgere gli occhi al cielo. «Che stella — chiede Agamennone al vecchio servo — è quella che veleggia in mezzo al firmamento?» — «È Sirio, che si affretta presso alle Pleiadi». Ed ecco, le nostre pupille son piene del cielo notturno, e l’astro rifulgentissimo effonde su tutto l’universo la sua luce azzurra prodigiosa.

Ed ecco evocati poi, con poche parole, il mare invisibile e muto, gli uccelli che stanchi dormono fra i rami, i venti che tacciono anch’essi, e col loro tetro silenzio preparano l’orrida tragedia. In questa cerula oscurità, rotta appena dai raggi delle stelle lontane, e dalla breve fioca luce rossastra che sprizza dalla lampada d’Agamennone, si svolge il concitato dialogo anapestico in cui è esposta la lugubre vicenda del dramma. E alla fine, ecco evocata l’alba e la luce del sole: onde tutta la scena rimane inquadrata fra due visioni celesti, notturna e diurna.

Dopo questo bellissimo preambolo, l’ufficio di suggerire la scena rimane affidato piú che altro al coro.

E nei canti della pàrodos, ecco le sabbie d’Aulide, il bosco d’Artèmide fumante di vittime e le navi immobili su la spiaggia, e la loro disposizione, e gli emblemi che hanno su le poppe; e poi, le tende, e i valli, e i destrieri, alcuni dei quali singolarmente descritti; e quadretti di genere: Achille che corre sul lido, in gara con la quadriga d’Eumelo, Diomede che lancia il disco, Palamede e Protesilao che giocano a scacchi: tutto, insomma, il campo acheo, descritto con una precisione e una vivacità veramente emule della pittura.

Del resto, se per un verso questo surrogato della scenografia scàpita di fronte ad una diretta rappresentazione, plastica o dipinta, non è però privo di qualche vantaggio. Esso [p. 93 modifica]può anche suggerite agli ascoltatori visioni remote nel tempo e nello spazio. Cosí, nel primo canto intorno all’ara, vediamo la montagna d’Ida; nel secondo la pianura di Troia, le donne troiane sedenti intrepide ai telai; nel terzo il convegno dei Numi alle nozze di Peleo, le Muse che muovono in lieve danza, cinte i piedi dagli aurei sandali, Ganimede che mesce nettare da un’anfora d’oro, le Nereidi che carolano su la sabbia, i centauri ghirlandati di frondi, che stringono in mano tronchi di pino.

Cosí la monotonia della scena unica rimane elusa da queste pittoresche evocazioni, che, mediante il sussidio d’una duplice prospettiva, temporale e spaziale, fanno circolare intorno al soggetto principale tutte le scene concomitanti del presente, del passato, ed anche del presagito futuro.

Onde non abbiamo piú, come già in qualche dramma euripideo, il coro ridotto ad intermezzo esornativo: abbiamo, ripresa con minor solennità e con maggior grazia pittoresca, l’antica concezione eschilea.

E l’Ifigenia in Aulide ne risulta circondata da un fulgido alone, che gitta una luce brillante e anche un po’ misteriosa e soprannaturale sulle figure che si muovono sul primo piano, e che rimangono pure interamente immerse nell’atmosfera della assoluta umanità, non di rado torbida e greve.

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IFIGENIA IN AULIDE

Note

  1. Sept tragédies d’Euripide (1879), p. 314.
  2. A chi abbia bene intesa questa mirabile concezione, quanto non sembra freddo e scolastico l’appunto di Aristotele che non sa vedere in Ifigenia altro se non un esempio di anomalia di carattere (Poetica, 5). E quanto incongrua la solidarietà di qualche filologo moderno.