Il Re Torrismondo/Atto secondo/Scena quarta

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Atto secondo - Scena quarta

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SCENA QUARTA

REGINA, ROSMONDA

REGINA

A te sol forse ancora è, figlia, occulto,
Ch’oggi arrivar qui dee il Re Germondo?

ROSMONDA

Anzi è ben noto.

REGINA

E pur non ben si pare.

ROSMONDA

Che deggio far? non so ch’a me s’aspetti
Alcuna cura.

REGINA

O figlia,
Colla Regina sposa irisieme accorlo
Ancor tu dei. S’è quel Signor cortese,
Quel Re, quel Cavalier, che suona il grido,
Ei tosto sen verrà per farvi onore.

ROSMONDA

Io così credo.

REGINA

Or come
Sì gran Re nell’altero, e festo giorno
Così negletta di raccor tu pensi?
Perchè non orni tue leggiadre membra

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Di preziose vesti? e non accresci
Con abito gentil quella bellezza,
Ch’il Cielo a te donò cortese, e largo,
Prendendo, come è pur la nostra usanza,
L’aurea corona, o figlia, e l’aureo cinto?
Bellezza inculta, e chiusa in umil gonna,
È quasi rozza e mal polita gemma,
Ch’in piombo vile ancor poco riluce.

ROSMONDA

Questa nostra bellezza, onde cotanto
Sen va femmineo stuol lieto, e superbo,
Di natura stim’io dannoso dono,
Che nuoce a chi ’l possiede, ed a chi ’l mira;
La qual, vergine saggia anzi dovrebbe
Celar, ch’in lieta danza, od in teatro
Spesso mostrarla altrui.

REGINA

Questa bellezza
Proprio ben, propria dote, e proprio dono
È delle donne, o figlia, e propria laude,
Come è proprio dell’uom valore, e forza.
Questa in vece d’ardire, e d’eloquenza
Nè diè natura, o pur d’accorto ingegno.
E fu più liberale in un sol dono,
Ch’in mill’altri, ch’altrui dispensa, e parte.
Ed agguagliamo, anzi vinciam con questa,
Ricchi, saggi, famosi, industri, e forti.
E vittorie, e trionfi, e spoglie, e palme,
Le nostre sono, e son più care e belle,
E maggiori di quelle, onde si vanta
L’uom, chedi sangue è tinto, e d’ira colmo.
Perch’i vinti da loro aspri nemici
Odiano la vittoria, e i vincitori:
Ma da noi vinti seno i nostri amanti,

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Ch’aman le vincitrici, e la vittoria,
Che gli fece soggetti. Or s’uomo è folle,
S’egli ricusa di fortezza il pregio,
Non dei già tu stimare accorta donna
Quella, che sprezzi il titol d’esser bella.

ROSMONDA

Io piuttosto credea che doti nostre
Fossero la modestia, e la vergogna,
La pudicizia, la pietà, la fede;
E mi credea, ch’un bel silenzio in donna
Di felice eloquenza il merto agguagli.
Ma pur, s’è così cara altrui bellezza,
Come tu di’, tanto è sol cara, o parmi,
Quanto ella è di virtù fregio e corona.

REGINA

Se fregio è dunque, esser non dee negletto.

ROSMONDA

S’è fregio altrui, è di sè stessa adorna.
E bench’io bella a mio parer non sia,
Siccome pare a voi, ch’in me volgete
Dolce sguardo di madre, ornar mi deggio,
Chè sarò se non bella, almeno ornata;
Non per vaghezza nuova, o per diletto,
Ma per piacere a voi, del voler vostro
È ragion, ch’a me stessa io faccia legge,

REGINA

Ver dici, e dritto estimi, e meglio pensi.
E vo’ sperar, ch’al peregrino invitto
Parrai quale a me sembri; onde sovente
Dirà fra se medesmo sospirando:
Già sì belle non son, nè sì leggiadre
Le figliuole de’ Principi Sueci.

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ROSMONDA

Tolga Iddio, che per me sospiri, o pianga,
Od ami alcuno, o mostri amare.

REGINA

Adunque
A te non saria caro, o cara figlia,
Che Re sì degno, e sì possente in guerra
Sospirasse per te di casto amore;
In guisa tal, ch’incoronar le chiome
A te bramasse, e la serena fronte
D’altra maggior corona, e d’aureo manto,
E farti (ascolti il Cielo i nostri preghi)
Di magnanime genti alta Reina?

ROSMONDA

Madre, io nol vo’ negar: nell’alta mente
Questo pensier è già riposto e fisso,
Di viver vita solitaria e sciolta
In casta libertade; e ’l caro pregio
Di mia verginità serbarmi integro
Più stimo, ch’acquistar corone e scettri.

REGINA

E’ ben si par, che, giovinetta donna,
Quanto sia grave e faticoso il pondo
Della vita mortale, appena intendi.
La nostra umanitade è quasi un giogo
Gravoso, che Natura e ’l Cielo impone,
A cui la donna, o l’uom disgiunto e scevro
Per sostegno non basta, e l’ uom s’appoggia
Nell’altro, dove stringe insieme Amore
Marito, e moglie di voler concorde,
Compartendo fra lor gli officj e l’opre.
E l’un vita dall’altro allor riceve,
Quasi egualmente, e fan leggiero il peso,

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Cara la salma, e dilettoso il giogo.
Deh! chi mai vide scompagnato il bue,
Solo traendo il già comune incarco,
Stanco segnar gemendo i lunghi solchi?
Cosa più strana a rimirar mi sembra,
Che donna scompagnata or segni indarne
Della felice vita i dolci campi:
E ben l’insegna, a chi riguarda il vero,
L’esperienza, al bene oprar maestra.
Perchè l’alto Signore, a cui mi scelse
Compagna il Cielo, e ’l suo col mio volere,
In guisa m’ajutò, mentr’egli visse,
A sopportar ciò, che natura, o ’l caso
Suole apportar di grave e di molesto,
Ch’alleggiata ne fui; nè sentii poscia
Cosa, onde soffra l’alma il duol soverchio.
Ma poichè marte ci disgiunse, ahi! morte
Per me sempre onorata, e sempre acerba!
Sola rimasa, e sotto iniqua salma,
Di cadendo mancar tra via pavento.
Ed a gran pena dagli affanni oppressa
Per l’estreme giornate di mia vita,
Trar posso questo vecchio e debil fianco.
Lassa! nè torno a ricalcar giammai
Lo sconsolato mio vedovo letto,
Ch’io nol bagni di lagrime notturne;
Rimembrando fra rhe, ch’un tempo impressi
Io solea rimirar cari vestigj
Del mio Signore, e ch’ei porgea ricetto
A’ piaceri, a’ riposi, al dolce sonno,
A’ soavi sussurri, a baci, a’ detti,
Secretario fedel di fido amore,
Di secreti pensier, d’alti consigli.

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Ma dove mi trasporti a viva forza,
Memoria innamorata?
Sostien ch’io torni, ove il dover è mi spinge.
S’a me diede allegrezza, e fece onore
Il bene amato mio Signor diletto,
Io spesso ancor gli agevolai gli affanni.
E quanto in me adoprava il buon consiglio,
Tanto in lui (sio non erro) il mio conforto.
E ’l vestir seco d’un color conforme
Tutti i pensieri, e col portare insieme
Tutto quel, ch’è più grave, e più nojoso
Nel corso della vita; e mentre intento
Era a stringere il freno, a rallentarlo
A’ Goti vincitori, a muover l’ arme,
Ad infiammare, ad ammorzar gl’incendj
Di civil Marte, o pur d’estrania guerra
Sovra me tutto riposar gli piacque
Il domestico peso; e seco un tempo
Questa vita mortal, se non felice,
(Chè felice non è stato mortale)
Pur lieta almeno, e fortunata i’vissi,
E sventurata sol, perch’un sol giorno
Non fu l’estremo ad ambo, e non rinchiuse
Queste mie stanche membra in quella tomba,
Ov’egli i nostri amori, e ’l mio diletto
Sen portò seco, e se gli tien sepolti.
Oh! pur simil compagno, e vita eguale
A te sia destinato: e tal sarebbe
Per quel, che di lui stimi, il Re Germondo.
Tu, s’avvien, ch’egli a te s’inchini, e pieghi,
Schiva non ti mostrar di tale amante.

ROSMONDA

Sebben di noi, che siamo in verde etate,

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Quella è più saggia, che saper men crede,
E della madre sua canuta il senno
Molto prepone al giovenil consiglio
Nel misurar le cose; io pur frattanto
Oserò dir quel ch’ascoltai parlando.
La compagnia dell’uom più lieve alquanto
Può far la noja, e può temprar l’affanno,
Onde la vita femminile è grave.
Ma se in alcune cose ella n’alleggia,
Più ne preme nell’altre, e quasi atterra;
E maggior peso alla consorte aggiunge,
Che non le toglie in sofferendo; ed anco
Molto stimar si può difficil soma
Il voler del marito, anzi l’impero,
Qualunque egli pur sia, severo, o dolce.
Or non è ella assai gravosa cura
Quella de’ figli? all’infelice madre
Non pajon gravi alla più algente bruma
Lor notturni viaggi, e i passi Sparsi;
Ed ogni error, ch’i peregrini intrica,
La povertà, l’esiglio, e gli altri rischi,
E le pallide morti, e i lunghi morbi,
Fianchi, stomachi, febbri, e, s’odo il vero,
La gravidanza ancora è grave pondo,
E lungo pondo, e doloroso il parto;
Sicch’il figliuol, ch’è delle nozze il frutto,
È frutto al padre, ed alla madre è peso,
Peso anzi il nascer grave, e poi nascendo:
Nè poi nato è leggiero; e pur di questo,
Di cui la vita verginale è scarca,
Il matrimonio più n’aggrava, e ’ngombra.
Che dirò, s’egli avvien che sian discordi
Il marito e la moglie, o se la donna

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S’incontra in uom superbo, e crudo, e stolto?
Infelice servaggio, ed aspro giogo
Puote allor dirsi il suo: ma sian concordi
D’animi, di volere e di consiglio,
E viva l’un nell’altro, or che ne segue?
Forse questa non è penosa vita?
Allor quanto ama più, quanto conosce
D’essere amata più la nobil donna,
Tanto a mille pensieri è più soggetta;
Ed agli affetti suoi, gli affetti ascosi
Del suo fedel, come sian proprj, aggiunge.
Teme col suo timor, duolsi col duolo,
Colle lagrime sue lagrima e piange,
E col suo sospirar sospira e geme.
E benchè stia sicura in chiusa stanza,
O’n alto monte, o’n forte eccelsa torre,
È pur sovente esposta a’ casi avversi,
Ed a’ perigli di battaglia incerta.
Di ciò non cerco io già stranieri esempj,
Perchè de’ nostri oltra misura abbondo.
E da voi gli prend’io, ch’a me talvolta
Contra la ragion vostra in vece d’arme
Altre varie ragioni a me porgete.
Ma se ’l marito alla gran madre antica
Dopo l’estremo passo alfin ritorna,
Ella sente il dolor d’acerba morte;
E seco muore in un medesmo tempo
A’ piaceri, alle gioje, e vive al lutto.
Onde conchiuderei con certe prove,
Che sia nojoso il matrimonio, e grave.
Ch’in lui sterile vita, o pur feconda,
L’esser amata, od odiosa, apporta
Solleciti pensier, fastidj, e pene,

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Quasi egualmente. Ed io nol fuggo, e sprezzo,
Solo per ischivar gli affanni umani;
Ma più nobil desio, più casto zelo
Me della vita verginale invoglia.
Ed a me gioveria lanciare i dardi
Talvolta in caccia, e saettar coll’arco,
E premer co’ miei gridi i passi, e ’l corso
Di spumante cinghiale, e tronco il capo
Portarlo in vece di famosa palma;
Poichè non posso il crin d’elmo lucente
Coprirmi in guerra, e sostener lo scudo,
Che Luna somigliò di puro argento,
Con una man frenando alto destriero,
E coll’altra vibrar la spada, e l’asta,
Come un tempo solean feroci donne;
Che da questa famosa e fredda terra,
Già mosser guerra a’ più lontani regni.
Ma se tanto sperare a me non lece,
Almen somiglierò, sciolta vivendo,
Libera cerva in solitaria chiostra,
Non bue disgiunto in male arato campo.

REGINA

Non è stato mortal così tranquillo,
Quale ei si sia, del quale accorta lingua
Molte miserie annoverar non possa;
Però lasciando i paragoni, e i tempi
Delle vite diverse, io certo affermo
Che tu sol non sei nata a te medesma.
A me, che ti produssi, a tuo fratello,
Ch’uscì dal ventre istesso, a questa invitta
Gloriosa Cittate ancor nascesti.
Or perchè dunque (ah! cessi il vano affetto)
In guisa vuoi di solitaria fera

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Viver selvaggia, e rigida, e solinga?
Chiede l’utilità del nostro regno,
E del caro fratel, che pieghi il collo
In così lieto giorno al dolce giogo.
Alla patria, al germano, a vecchia madre
Fia ’l tuo voler preposto? Ahi, non ti stringe
La materna pietà? non vedi, ch’io
Del mio corso mortal tocco la meta?
Perchè dunque s’invidia il mio diletto?
Non vuoi ch’io veggia, anzi ch’a morte aggiunga,
Rinnovellar questa mia stanca vita
Nell’immagine mia; re miei nipoti,
Nati dall’uno e l’altro amato figlio?

ROSMONDA

Già non resti per me, che bella prole
Te felice non faccia. Egli è ben dritto
Ch’obbedisca la figlia a saggia madre.

REGINA

Degna è di te la tua risposta, e cara.
Or va’, t’adorna, o figlia, e t’incorona.