Il bel paese (1876)/Serata VI. - Il passo del Sobretta

Da Wikisource.
Serata VI. - Il passo del Sobretta

../Serata V. - Il passo dello Zebrù ../Serata VII. - Da Milano al Salto della Toce IncludiIntestazione 5 febbraio 2023 75% Da definire

Serata VI. - Il passo del Sobretta
Serata V. - Il passo dello Zebrù Serata VII. - Da Milano al Salto della Toce

[p. 95 modifica]

SERATA VI


Il Passo di Sobretta.

Il gruppo del Sobretta, 1. — Val-del-Rezzo, 2. — Apparizione di un amico, 3. — La carta geologica, 4. — I graniti delle Alpi, 5. — Progetto di una gita, 6. — Il paesaggio alpino, 7. — La scienza, 8. — Invasione degli antichi ghiacciai, 9. — Nascita di un ruscello, 10. — Il Passo, 11. — I laghi alpini, 12. — Un labirinto, 13. — Gli abeti sull’Alpi, 14. — Minaccia di una notte al sereno, 15. — Posizione critica, 16. — Orme d’uomo! 17. — Un mandato in versi, 18. — Fine di una giornata campale, 19. — Dintorni di Bormio, 20.


1. «E di quel bosco?...» gridò l’uditorio appena mi presentai nella sala, senza nemmeno darmi tempo a sedere.

«Ah.... ah.... di quel bosco?...».

Un bosco è sempre un ideale che fa l’effetto di uno stimolante sulla fantasia dei fanciulli. Se incominciate la narrazione a modo di messa in scena colla dipintura di un bosco, li vedrete tosto a bocca aperta in aria di grande aspettazione. Si immaginano già il viandante smarrito, brancicante entro gli inestricabili labirinti di una foresta sconfinata; il cader della notte cupa, pro fonda come l’averno; il lontano ululare del lupo che batte i denti ancora digiuno; un lumicino lontano lontano, una capanna di tavole sconnesse, un bussare alla porta, un apparire d’una barba ispida e nera.... sarà un eremita? sarà un assassino?... ad ogni modo un qualche cosa di poetico, di fantastico.... E non aver nulla di consimile a narrare; e tradire in siffatta guisa un’aspettazione pasciuta di fantasticherie pel corso d’un’intiera settimana!... Ahimè! i boschi bene o male si tagliano; ampie strade addomesticano le più riposte contrade; gli eremiti per amore o per forza imparano a viver cogli uomini; degli assassini s’è perduto lo stampo; i lupi e gli orsi non si ammirano che [p. 96 modifica]impagliati ne’ musei, ed ora che oltrepassiamo le Alpi a vapore fino i cani del San Bernardo saranno messi in disponibilità.... Oh che secolo senza poesia! Che più narreremo ai nostri bambini, se non cose vere e reali? Ma penso infine che tra il dilettarli senza istruirli, e l’istruirli senza dilettarli sia da scegliersi il secondo.

«Di quel bosco....» ripigliai; «cioè volete, n’è vero? che io continui ad intrattenervi delle mie corse nelle nostre Alpi, amando di formarvene un’idea più completa. Ebbene, tiriamo innanzi anche stasera.

» A sud-ovest di Santa Caterina, quindi tra le acque e l’alta Valtellina, sorge sublime il Sobretta, monte, o piuttosto gruppo di irte scogliere, radiantisi a mo ’ di raggi d’una stella da una massa elevatissima che, dagli aspri gioghi coperti di nevi eterne e di candide vedrette, versa all’ingiro le acque, quasi un perenne inaffiatojo posto sul vertice di una piramide isolata.

2. » Nulla infatti di più isolato di questo pittoresco gruppo. Partite la mattina da Santa Caterina, pigliando la sinistra della Val-Gavia; volgete quindi ad ovest pel confluente di Val-Gavia, detto Val-del-Piano, ove potrete osservare una caverna scavata abbastanza profondamente nel marmo saccaroide; discendete quindi per la Valle del Rezzo che termina con un vero rompicollo che vi farà essere senza fiato e co’ ginocchi incurvati alle Prese, e qui, se avete la fortuna di trovare un ronzino, sarete la sera di ritorno a Santa Caterina, passando per Bormio, col piacere d’aver fatto un waltzer attorno al Sobretta, ma forse col giuramento sulla coscienza di non ripetere più quel ballo faticoso.

» Infatti la gita da Santa Caterina alle Prese per la Val-del-Rezzo, non offre compenso. Dapprima ti annoja la monotonia dell’eterno altipiano appena convesso a sufficienza per determinare i due versanti opposti di Val- del- Piano e di Val-del-Rezzo, quindi ti accoppa il burrone pendente sopra le Prese che, attra versato da una stradella sospesa a rupi verticali dove sarebbe altrimenti inaccessibile, ti obbliga a tale ginnastica di ginocchi e di fianchi e ti dà tali scosse che, se il tuo peritoneo1 non è di cuojo, puoi dubitare di trovarti le budella tra’ piedi.

» Ma forse io parlo male di que’ gioghi innocenti, che altri troverà pittoreschi e deliziosi, perchè sempre par brutto il luogo [p. 97 modifica]dove s’incontri il malanno. Ricordomi ancora di quando giunsi alle Prese col ginocchio, non so come, contuso in guisa che rifiutava assolutamente il suo servizio, sicchè, postolo invano ad agghiacciarsi in un limpido torrentello, dovetti ripiegare all’osteria del Cavalletto, un pulito abituro servito da gente cordiale, e là adagiarmi sopra un lettone, alto non so quanti metri sul livello del mare e quanti altri sul livello del pavimento, a digerir la mattana che mi aveva fatto mettere il broncio contro il Sobretta, le sue dioriti2, e la scienza che mi aveva mosso a studiarle. Certo in quell’ora avrei fatto giuramento di non pigliarmela più oltre nè col Sobretta, nè con altra di quelle arrabbiate montagne.

3. » Ma standomi così sonnacchioso, mentre i miei compagni, affranti pur essi dalla fatica, sedevano ad una tavola, col capo fra le palme, si apre l’uscio della camera ed un uomo, dal mento raso, dal viso asciutto e irrugginito dal sole, dal naso adunco e profilato, dall’occhio vivo, intelligente, si arresta sulla soglia. Una cinghia, attraversandogli il petto, sosteneva dietro il dorso una cassetta di latta, inverniciata di verde, lunga, a sezione ovale: l’insegna di un botanico. Un sacco di pelle gli pendeva sul fianco destro, e un martello sospeso ad una cintola, sul fianco sinistro; insegne di un geologo. I miei compagni guardano lui come uomini che dicessero: che c’entra costui? ed egli guarda loro come uom che risponda: mi sono ingannato! Ma io rompo quel muto dialogo, balzando dal letto e gridando, coll’accento della sorpresa e del piacere: oh! monsieur Théobald!...».

«Chi era costui?» gridano in coro i nipoti.

«Un mio amico, e al tempo stesso uno degli scienziati più benemeriti della geologia alpina. Oh il signor Théobald merita di essere ricordato fra noi. Germano d’origine, era allora professore di geologia a Coira, dove si distinse per diverse pubblicazioni. Una morte precoce, causata dal soverchio studio, l’ha ora rapito alla scienza ed agli amici. Dovete sapere che in Svizzera, dove certi rami di studio sono tenuti assai più in pregio che da noi, la Società delle scienze naturali, coadjuvata dal governo federale, ha intrapresa la pubblicazione della carta geologica del paese».

4. «Cioè della carta geografica....» volle correggere il Battista. [p. 98 modifica]

«No, carino; proprio della carta geologica, che sarebbe ancora una carta geografica o topografica, una carta cioè dove sono inscritti í paesi, delineati i fiumi e le montagne; ma c’è questo di più che essa è colorata con tanti diversi colori....».

«Come l’Arlecchino....» disse Tonio.

«Appunto; ma un Arlecchino che chi lo sa ben vestire è un brav’uomo. Oltre i diversi colori vi rimarchereste dei tratti particolari, dei segni di convenzione....».

«E a che serve tutto questo?» domandò Giovannino.

«I diversi colori indicano i diversi terreni; i segni di convenzione possono indicare i rapporti dei terreni fra loro, i loro modi di sviluppo, i minerali che contengono, ecc., ecc. Infine, per dirla breve, una buona carta geologica di un paese vi dice non solo come è configurato topograficamente, cioè superficialmente, ma anche come è composto nell’interno; nè solo come è composto, ma per quali fasi giunse ad avere l’attuale composizione e configurazione, quali siano le sue ricchezze minerali, ecc., ecc. Insomma la carta geologica è l’espressione più completa di una regione ed è una delle più gloriose ed utili imprese che possano essere eseguite da un geologo, e venir promosse da una provincia o da una nazione.

» Il signor Théobald aveva appunto ricevuto dalla Società Svizzera l’incarico di formare la carta geologica del Canton-Grigioni, la quale doveva comprendere naturalmente tutta quella catena, o piuttosto quell’immenso gruppo di colossi alpini, ove si perdono, per dir così, i limiti della frontiera italo-elvetica, partendo dai confini occidentali del Tirolo, per giungere ai celebri passi del Septimer e dello Spluga. La carta di Théobald potè vedere la luce prima della sua morte, e l’Italia ebbe tutta delineata geologicamente, da mano non Italiana, una delle più vaste e difficili porzioni della sua frontiera.

5. » Ma torniamo a noi. L’improvvisa apparizione del signor Théobald m’aveva cacciato di corpo il mal umore come per incanto. La credetti dapprima un puro accidente fortunato; ma in fatto non lo era. Inteso dar l’ultima mano alla sua carta geologica, aveva saputo come io mi trovassi, dirò per lo stesso scopo. in que’ dintorni, e ormeggiandomi d’indizio in indizio, m’aveva sorpreso al Cavalletto. Imaginatevi che diluvio di chiacchiere! voi ci avreste creduti pazzi. Si pranzò al Cavalletto, si dormi al Cavalletto, e non si parlò che di geologia, e la conclusione fa questa ch’io, da buon marinajo, scordai ogni giuramento contro [p. 99 modifica]il Sobretta, e pensai, non dirò a girargli attorno, a lambirne le falde, ma a scavalcarlo, a cacciarmigli nel cuore; ed eccone la ragione.

» Voi conoscete il granito, n’è vero, quella pietra bianca, macchiettata di nero, luccicante, di cui si fabbricano i nostri paracarri, gli stipiti delle porte....».

«Ah, ah, il serizzo....».

«No, no, il ghiandone....».

«Ohibò, il miarolo....».

«Adesso, adesso.... il sanfedelino».

Io rimasi sbalordito da tanta erudizione petrografica3 de’ miei nipoti, che cominciavano ad altercare come al solito gli scienziati e i non scienziati perchè non si intendono circa i termini.... «Basta, basta! avete tutti ragione. Serizzo, ghiandone, miarolo, sanfedelino, ciascuno di questi nomi volgari indica di fatto una varietà di graniti delle nostre Alpi. Ma quello che m’importa ora è che sappiate come i graniti costituiscano nelle Alpi certe enormi masse, certe montagne, anzi gruppi di montagne, che sorgono isolati in mezzo a terreni d’altra natura, quasi un dì fossero sbocciati dalle viscere della terra, sollevandosi d’un sol tratto in grembo alle nubi. Uno di questi Titani4 dalle sterminate membra, sorge appunto tra le Prese e Bormio. È una massa imponente di granito, conosciuto sotto il nome di granito di Sant’Antonio di Morignone, dal paesello ove ne sono aperte le cave. Quel granito è stupendo, ubbidientissimo allo scalpello che ne può trarre i più delicati ornamenti. Quella massa, di mezzata dall’Adda che vi scorre incassata tra verticali pareti, costituisce le parti più elevate del Sobretta, sulla sinistra del fiume, formando altri monti sulla destra.

6. » Importava moltissimo al signor Théobald e a me di poter conoscere i limiti di quel gruppo granitico per segnarlo sulla carta geologica; ma quando studierete la geologia capirete come la disposizione eccezionale di tali o consimili masse ne renda difficile lo studio, obbligando il geologo a giri e rigiri senza fine. Giovandoci del fortunato accidente che ci aveva riuniti sul difficile campo, pensammo dividercelo, per meglio impossessarcene. Théobald doveva cacciarsi su pei monti alla destra dell’Adda, [p. 100 modifica]cercando i limiti occidentali del granito; io invece avrei attraversato il Sobretta, prevedendo di incontrarne i limiti orientali, e di dover quindi attraversarne il corpo più grosso».

«Ma non ti ricordavi più del tuo ginocchio?» domandò la Marietta.

«Me ne sarei volontieri scordato; ma fu lui che non volle scordarsi di me. Di fatto al mattino il buon Théobald, strettami la mano, si avviò lesto come un capriolo per salire le vette torreggianti sulla destra dell’Adda; io invece noleggiai un prosastico baroccio che mi trascinasse a Bormio, quindi a Santa Caterina, dove voleva riposare un pajo di giorni, sperando di risanare dalla contusione che mi aveva assegnato per allora un posto tra gli invalidi.

» Per buona sorte seguivan due giorni festivi, incontrandosi accanto alla domenica la Madonna d’agosto. In quei giorni, se il tempo è bello, come era splendido allora, la solitudine di Santa Caterina offre lo spettacolo animatissimo di una sagra. La chiesuola in testa al ponte sulla destra del Frodolfo si apre; l’unica campanella si dibatte festiva e instancabile entro la sua torretta; l’umile altare rivaleggia, pel numero delle messe, colla splendida ara di una cattedrale. Traggono da ogni parte i montanari in folla, e fatto un po’ di bene nella chiesa, si accalcano attorno alla fonte salutare. Poveretti! Padroni naturali, per dir così, di tanto tesoro di salubrità, non hanno che la domenica per attendere a profittarne. A vederli cioncare a tutta canna, quindi partire con quelle bocce panciute, piene della linfa portentosa, si direbbe che n’han bevuto per tre giorni, lasciando alla boccia la cura degli altri tre, finchè torni il settimo giorno che li rifornisca.

» Intanto il dottor Casella ebbe tutto il campo di mostrare come la sua premura, così la virtù portentosa dell’arnica alpina. In capo a due giorni il ginocchio si mostrava pronto a ripigliare il servizio. Il prevosto di Val-Furva, sdebitatosi de’ suoi pastorali uffici nelle due feste, era pronto egli pure ad associarsi a nuove intraprese; il dottore anche lui, e all’alba del martedì, eccoci riuniti colla solita guida, che stavolta aveva lasciata la gerla, come noi avevamo deposto il sacco, in previsione di una giornata campale.

7. » Un sentiero ascende sulla sinistra del Frodolfo, e partendo dallo Stabilimento, sormonta diversi pendii, attraversa pascoli e sparse boscaglie, finchè si arriva a Peghera, cioè ad una serie di pascoli, dove appare evidentissimo un fenomeno che si [p. 101 modifica]riproduce incessantemente nella orografia alpina. Voi vedreste cioè i fianchi delle valli quasi dimezzati orizzontalmente, sicchè vi si possono distinguere due zone sovrapposte a confini netti, spiccati. A ciascuna di esse rispondono tali e così diversi caratteri di paesaggio, che, messi insieme, producono all’occhio perfettamente quell’effetto di contrasto, così caratteristico del paesaggio alpino, così cercato dai nostri paesisti che si stimano fortunati quando riescono a dar vita con esso alle loro tele. Nella zona inferiore verdeggiano i prati sulle morbide chine, interrotti da macchie sparpagliate e da boschetti frondosi. Essa è formata di colli arrotondati, simili ad onde morte che si inseguono nell’ampiezza dell’oceano quando sedata è la tempesta. Le stesse rupi, che di tratto in tratto pur vi nereggiano nell’àmbito di verde cornice, par che si ribellino alla natura che le fe’ ruvide ed irte, e vestono forme morbide, flessuose e tondeggianti, sì che nulla rompe la dolcezza di quelle curve che danno l’impronta speciale al paesaggio della zona più bassa, mentre servono così mirabilmente a dar risalto all’asprezza della zona superiore. In questa linee spezzate, mosse ardite, sorprese ad ogni tratto, aggruppamenti e sforzi acrobatici di cime capricciose e bizzarre, slanci aerei di denti, di aguglie, di creste, che, levandosi come sopra artistica base, costituiscono quella che si direbbe la vera parte monumentale della creazione. Non è vero, miei cari, che io v’ho delineato in genere il carattere delle nostre montagne come dei nostri paesaggi più classici? Sarà difficile che voi non troviate un quadro, copiato dal vero nella regione delle Alpi e delle Prealpi, in cui non si distingua alla base, ossia in vicinanza, una massa morbida, verde, fiorita, ridente, sparsa di campi villaggi e di abituri, ove scorrono i ruscelli con lene sussurro, gorgheggino gli uccelletti, pascola la pingue giovenca e move i tardi passi sull’erta il lento bue. In alto e nello sfondo invece lo stesso quadro vi presenta rupi minacciose, piramidi eccelse, ciglioni spaventosi, vette dentate, cime nevose, ove tutto è squallore e deserto. Ivi mugge il torrente che biancheggia e sparisce entro il negro burrone; ivi si annida il passero solitario; ivi ripetono il falco e il nibbio le volubili ruote, e l’ardito cacciatore ormeggia il camoscio di balza in balza. Quante volte avrete osservato tali paesaggi, o lette consimili descrizioni, senza che vi cadesse mai in mente di domandarvi: e perchè i nostri monti son fatti così?».

8. «Oh bella!» interruppe la Cia che aveva badato a quanto [p. 102 modifica]io andava dicendo, senza riflettere io stesso che il mio piccolo uditorio non poteva dilettarsi di sole fantasie, nè era maturo a tal genere di confronti. «Oh bella! sapere perchè i monti sian fatti così!... È il Signore che ha fatto così le montagne e tutto».

«Va bene; tu hai detto una verità sacrosanta. Dio ha fatto le montagne, come ha fatto il sole che ogni di rinnovella la vita sulla terra, come ha fatto il torrente che scorre di continuo a fecondare il piano, come ha fatto quanto sta o si agita sulla terra. Egli delineò nell’universo un quadro sempre vivo, sempre vario, ove tutto ha principio e fine, ove tutto nasce, si spegne, si rinnovella, senza che l’ordine ne sia mai turbato, quell’ordine che è un inno incessante alla potenza, alla sapienza, alla bontà di Dio, un inno però che solo si completa e assume la sua vera forma, quando, ripercosso dal cuore dell’uomo, risuona sulle sue labbra. Ma la scienza non si accontenta di questo: — Dio ha fatto, ha voluto così —; vuol anche sapere come ha fatto, ed anche, se può, perchè ha voluto così. E Dio non vieta questa nobile curiosità che è tutta conforme a quel lume di ragione, che Dio stesso ha dato all’uomo, perchè fosse l’imagine sua. Anzi Dio stesso gli ha fornito i mezzi perchè possa soddisfarla; nè la scienza consiste in altro che in una più perfetta cognizione di Dio e delle sue opere. Scienza e virtù quasi divinizzano l’uomo; ignoranza e vizio l’abbrutiscono. Ecco perchè, bambini miei, vi si ripete sempre: studiate e siate buoni....».

«Uh! non ci racconti più niente....», saltò a dire Chiarina più sincera che obbligante.

9. «Zitto», riprese la Cia; «lasciami sentire perchè le montagne sono ad un modo in basso, e ad un altro nelle alture».

«Eh! vuoi saperlo?... siamo ancora ai ghiacciai....».

«Ma che ci entrano i ghiacciai?» soggiunse la Cia.

«Dimmi, fosti mai sui bastioni di Porta Renza?».

Oh! quante volte!... si vede la Stazione, il Lazzaretto».

«No.... guarda più in là; osserva quella pianura immensa, tutta verde, tutta coperta di campi che sfuma giù in fondo, e muore ai piedi di una vasta cerchia di colline, prima più umili e più ridenti, poscia più alte e più severe. Qui la Terra-promessa; là i giardini di Lombardia, l’amena Brianza, il ridente Varesotto. Da quella cerchia di colline si spiccano, levandosi in alto con mirabile contrasto, quasi piramidi di arida cenere, le due Grigne, poi il Resegone co’ suoi denti scheggiati, il Venturosa, il monte Arera e così via via, sempre verso oriente fino al Monte Baldo, [p. 103 modifica]tutta una catena di montagne biancheggianti, che stese in vasto semicerchio, e fuse colle vette alpine coperte di nevi eterne, si projettano sull’intenso azzurro del cielo. Ebbene, dagli imi recessi di quelle Alpi discesero una volta i ghiacciai con poderosa mossa. Il mare, occupando la gran valle del Po, flagellava ancora i piedi delle Alpi e delle Prealpi. I nostri laghi erano altrettanti fiords, o bracci di mare. I ghiacciai li colmarono, e gonfiandosi, gonfiandosi si levarono ben alto, rivestirono i fianchi delle nostre montagne, arrotondarono i colli sottoposti, coprirono di pingue detrito le più umili colline, e le colline stesse allineate ai lembi settentrionali della pianura eressero sul fondo del mare con lento lavoro. Lo stesso detrito glaciale portato a gara da mille torrenti, nel mare, divenne pianura; l’aratro rivolta in oggi, conversi in pingui zolle, i brani delle alpine vette demolite dal gelo. Quelle rupi ignude, quelle montagne, simili a scheletri biancheggianti, rimasero così irte, così nude, perchè il ghiacciajo non giunse a coprirle del suo mantello; mentre, ritirandosi i ghiacciai entro i loro attuali confini, le basi dei monti più elevati, ei colli minori uscirono lisci, arrotondati e, dove le circostanze lo permettevano, coperti di tritume roccioso, cambiato più tardi in fertile terriccio. La cosa vi parrà strana; ma è vera.... studiate, e mi darete ragione».

I miei piccoli uditori erano rimasti come trasognati, con un viso che pareva dicesse: pazienza!... stasera lo zio non ne ha voglia punto.... N’ebbi compassione, anzi li trovai più ragionevoli di me e mi affrettai a rimettermi in cammino.

10. «Dunque avevamo sormontata la zona dei prati e degli alberi, e cominciavamo a dar la scalata agli aridi talli, creati dallo sfasciume delle vette del Sobretta, che ci sovrastavano a sinistra. Come son brulle quelle montagne! ricordo che il sole ci percuoteva spietatamente la nuca, e il caldo, unito all’affanno del salire, ci cagionava una sete ardente. Si pensò a deviare alquanto per accostarci ad una valletta ove si sperava di scoprire un ruscello; ma giuntivi trovammo un letto asciutto ed aspro come le rocce che lo fiancheggiavano. Già disposti a tirar innanzi, ecco un sussurro, un lieve scroscio ci ferisce l’orecchio: esso va crescendo, si avvicina, e guardando in alto a breve distanza, ecco una striscia interrotta, luccicante ai raggi mattutini; infine un ruscello che discendeva balzellando alla nostra volta, quasi chi impietosito si affretti a sollevare l’indigente, con quel brio, con quel sorriso che condisce la carità, e ne centuplica il [p. 104 modifica]merito. Come avreste allora trovati veri quei versi con cui il simpatico nostro Grossi descrive ne’ suoi Lombardi alla prima crociata l’improvviso sgorgare della fontana di Siloe:

Quand’ecco roca mormorar s’ascolta
     D’un gorgoglio crescente la montagna.
Limpida trascorrendo romoreggia
     L’acqua pei greppi in rapido viaggio,
     E sbalza in mille spruzzi ove lampeggia
     A più color del sol rifratto il raggio».

«Ma quel ruscello d’onde veniva?» domandò Giannina. «Non mi hai inteso? veniva dai soprastanti ghiacciai del Sobretta, spremuti dal sole mattutino. Durante la notte il gelo ripiglia anche d’estate i suoi diritti sulle eccelse vette delle Alpi: cessa lo stillicidio dei ghiacciai; e muojono, per difetto d’alimento, le fonti. Ma ecco l’aurora! ecco di nuovo la benefica vampa del sole! il gelo è messo in fuga; il ghiaccio di nuovo si strugge; l’acqua filtra da ogni parte, e si raccoglie in ruscelli che da tutti i lati si precipitano sugli aridi fianchi delle montagne, e giungono in fondo alle valli a gonfiare i torrenti. Ma questo mattutino processo esige naturalmente del tempo, e talora le assetate mandre stanno giù in fondo aspettando fino al meriggio il ritorno dell’acqua. Ho inteso naturalmente di parlare delle piccole vedrette, perchè i grandi ghiacciai sono pur sempre gli otri perenni dei fiumi, come vi ho detto un’altra volta, e sfidano non solo il gelo delle notti estive, ma quello ben più rigido e lungo della stagione invernale, e sempre dall’aperta bocca mugge il torrente5.

11. » Bevemmo al ruscello della Provvidenza, e così rifocillati ripigliammo la scesa, senz’altra direzione che la vista del Passo di Sobretta, dove giungemmo che era già presso il mezzodì. Il Passo di Sobretta è una specie di profondo intaglio nelle rupi gigantesche, là ove si dividono le acque che, sciogliendosi dalle grandiose vedrette, corrono a precipitarsi parte nel Frodolfo, parte direttamente nell’Adda. Ma sul versante dell’Adda l’acqua non vale nemmeno a formare un corpo appena considerevole, [p. 105 modifica]mentre riunita in fragoroso torrente, si precipita quasi tutta in un burrone spaventoso, aperto verso il Frodolfo. Se mai salirete il Sobretta, non mancate di fissarvi, colle debite cautele, sull’orlo di quel burrone, e di lasciar cadere uno sguardo giù sino al fondo. Vi assicuro che non avrete mai visto nulla nè di più terribile, nè di più vago. Il burrone si sprofonda forse oltre un centinajo di piedi tra due verticali pareti di marmo bianco venato di bleu, e il fondo stesso dell’abisso non è che un pavimento di marmo, ove si appiana il limpido torrente, mantenendovi perenne la freschezza del liscio e delle tinte variegate. Oh! che hanno a che fare con queste meraviglie i marmorei pavimenti dei più ricchi palagi?

» Passato quel torrente al basso, dove si dilata sul pendio del monte, e seguendo per largo calle il ciglio del burrone, siamo sull’opposto versante. Qui nuove meraviglie! Non è a credersi infatti che la montagna discenda immediatamente. No: esiste una lunga e angusta gola, una specie di conca che, per dir così, attraversa la grossezza del Sobretta, le cui vette biancheggiano assai più in alto. Quanto è severa quella gola alpina! Dopo aver attraversata una serie di rocce diverse, ci trovavamo, come aveva previsto, nel cuor del granito. Non v’ha roccia su cui il gelo eserciti più atroce la sua rapina. Le negre rupi si sfasciano, cadono a brani, quasi divorate da vasta cancrena; nuovi monti in seno ai monti erige l’immensa rovina de’ massi franati; i ghiacciai nelle loro straordinarie invasioni ne adunarono enormi cumuli, che ingombrando a volta a volta il fondo di quella conca, e impedendovi il libero scolo delle acque, furono, a quanto pare, causa principale di quei piccoli laghi, in che essa è ripartita.

12. » Sono i laghi detti di Brodec, piccoli stagni, di cui il principale può aver tuttavia 200 metri di lunghezza. Tali laghetti abbondano in seno alle Alpi, anche nelle parti loro più elevate, e quante volte li trovai, mi produssero sempre una impressione gradevolissima, ma indefinibile. Quegli specchi d’acqua, cinti da ignude rupi, sono così limpidi, così trasparenti; eppure il cielo vi si riflette con una luce così oscura.... Talora, affatto immobili e lisci, li assomigliereste a una gran tavola di marmo nero. Talora appena increspati da onde brevi e morbide, a riflessi lividi e neri, trovereste di paragonarli ad un finissimo drappo di seta morella che, disteso sul suolo, ondeggi mosso dal vento. E’ ti infondono nell’anima una certa calma, come una dolce tristezza e danno a quell’orrida natura una specie di soave favella che ti intrattiene, ti attira, ti ammalia sì, che più non partiresti da quei luoghi incantati. [p. 106 modifica]

» Ma noi non potevamo a lungo trattenerci. Ci incalzava il pensiero di una lunga discesa, ignota a ciascuno di noi, per cui bisognava far larghi patti col tempo, perchè poi non ci gabbasse gettandoci attraverso la via inopportuna la notte.

13. » Si giunge allo sbocco dell’angusta gola, ed eccoci stesa d’improvviso dinanzi, quasi fantastica tela, l’immensa giogaja delle Alpi, che con una serie infinita di negre piramidi, di ardite aguglie, di vette frastagliate, fiancheggia a destra la Valtellina, rispondendo con orrida simmetria agli aspri gioghi che, ritti sulla sinistra come scheletri di giganti, in parte ci torreggiano sul capo, in parte ci si inabissano sotto i piedi. Chiusa nel fondo tra verticali pareti, per lungo e tortuoso cammino, svolgesi l’Adda come un nastro cangiante, che appare e si cela, talor bianco come la neve, talor verde come lo smeraldo. Al suo fianco una striscia bianca, uguale, continua, ne segue le volubili mosse. È la gran via maestra, portento dell’epoca nostra, che dai piani lombardi ascende fino ai gioghi dello Stelvio, e discende in Tirolo, attraversata così tutta intera l’enorme grossezza delle Alpi.

» Credete però voi che avessimo il cuore abbastanza libero per deliziarci di quel sublime spettacolo? Imaginatevi che a tanta altezza noi vedevamo il fiume e la strada quasi a perpendicolo sotto i nostri piedi. Per quale via saremmo discesi, se non vi era nemmeno un pendio sufficiente per tracciarvi colla fantasia un sentiero qualunque? Noi sapevamo, è vero, che per di là si poteva discendere: ma sapevamo anche che spaventosi precipizi ci stavano sotto i piedi. Per mala sorte quelle due o tre capanne che, nella più calda stagione, danno ricetto a qualche pastore, erano vuote. Non respirava anima viva in quel deserto. Bisognava rimetterci al nostro criterio, il che vuol dire in questo caso abbandonarsi un po ’ ciecamente alla ventura.

» L’unico sentiero che ci aveva guidati fuor della gola, si partiva in due al suo sbocco. Uno vedevasi con sicura traccia torcersi alla sinistra, svolgersi con mille andirivieni giù per le coste, raggiungere alcuni erbosi ridossi, poi, come dicesi nel linguaggio del paese, un monte, cioè un luogo ove si conduce per qualche mese dell’anno la mandra a pascolare; di là il sentiero continuava, sempre discendendo a seconda della valle, finchè si perdeva di vista. Evidentemente era questo il sentiero più battuto, e a cui avremmo potuto affidarci con piena sicurtà; ma non era fatto al certo per condurci a Bormio, nè ci sentivamo disposti a deviare di troppo dalla nostra meta. Pigliammo quindi l’altro [p. 107 modifica]sentiero assai meno chiaro ma che si dirigeva a ritroso della valle, precisamente verso Bormio. Dopo breve cammino eccoti il sentiero salire, in luogo di discendere, e seguendolo coll’occhio lo si vedeva slanciarsi ben alto tra verticali dirupi, tra precipizi veramente spaventosi, con mosse così brusche, così ardite, che l’affidarvisi saria parso un pigliar per guida un pazzo che vada cercando il luogo più opportuno per fare un bel capitombolo. Noi del resto avevamo tutt’altra voglia e tutt’altro bisogno che di salire.

» Quì, diss’io, andiamo a romperci il collo!... Era naturalissimo di rifare quel centinajo di passi, per riprendere la via più lunga ma più sicura. Ma la nostra mala fortuna volle che lì, proprio sul punto di dar volta, un sentieruzzo si spiccasse dal sentiero principale, diretto proprio verso il basso e verso Bormio ad un tempo, con tal viso d’amico che avrebbe convinto lo stesso dubbio. — Per di qui, per di qui! — gridarono i compagni; ecco un sentiero.... — e giù allegramente.

» Ma d’un sentiero in breve se ne fanno due, di due quattro, di quattro otto, poi via via tutti si smarriscono, quasi sfumassero, giù per un’erta vestita o piuttosto irta di aride zolle.... Eccoci per la seconda volta là ritti, distribuiti ad intervalli e come sospesi sull’erta, mutoli, girando lo sguardo attorno o guardandoci in faccia l’un l’altro con quell’aria che dice: oh il brutto imbroglio! Stando così sospesi e silenziosi, ci ferisce l’orecchio un tintinnio reiterato e vicino. Non v’ha dubbio.... è il campanello d’una capra.... e dove c’è la capra vi dev’essere il caprajo.... Scorgevasi infatti un po ’ al disotto, a certa distanza, un piccolo promontorio, coperto di piante, quasi una piccola oasi nel deserto. Camminando, o meglio sdrucciolando giù per l’erta, in pochi istanti siamo sul ridosso; ma guarda, ascolta; non c’è più nè capra, nè caprajo, nè tintinnio.

» Ed ora che si fa?... A fianco di quella specie di colle scopri vasi un sentiero, o meglio un’orma di sentiero diretto verso un bosco di abeti, che si sarebbe detto piantato nel vuoto sopra un abisso. Ma quel nuovo sentiero ripete il brutto giuoco del fratello traditore che ci aveva gabbato lassù, con questa differenza che, invece di diramarsi e perdersi giù per l’erta, si diramava e si perdeva nella boscaglia. In breve fummo avvisati che non trattavasi punto di sentieri, ma di orme lasciate dal bestiame pascolante. Avviene così dovunque in montagna, se vi esista un ripido pendio coperto di erba. Le vacche, cacciandosi fin dove possono [p. 108 modifica]a rodere le scarse erbe, e seguendo sempre e tutte i passi più sicuri, finiscono a disegnare una serie, anzi una rete, di sentieri senza sbocco, che menano in tutti i sensi e non guidano in nessuno. Tale era appunto il luogo ove ci trovammo, spingendoci tra il bosco e i sovrastanti dirupi.

14. «Imaginatevi di vedervi pendere sul capo una immensa parete di nudo scoglio, accessibile soltanto all’aquila e al gufo, ove non alligna una pianta, non cresce un fil d’erba. Più basso invece, e precisamente al nostro livello, sostituite alla ignuda parete una serie di scogli, scaglionati o meglio sperperati sopra un pendio il più ripido che vi possiate imaginare. Bisognerebbe, per farsi un’idea di quei luoghi, leggere almeno la bella descrizione che fa il Rambert delle foreste d’abeti in seno alle Alpi. L’abete, egli dice, è propriamente l’albero della montagna. Esso non spinge lateralmente i lunghi rami, come fanno i tigli e le quercie. Qui l’accrescimento verticale è di rigore. Esso soltanto è quello che permette ad una foresta d’abeti di incrostare, direbbesi, le ignude pareti di una rupe che piomba sull’abisso6. In questi casi una foresta d’abeti non sarà perciò meno un precipizio. Basta il più piccolo punto d’appoggio, perchè vi si fissi un abete, e vi elevi l’uguale arditissimo tronco a foggia d’antenna nascente da ruvido cassero: basta un abete perchè serva come di centro ad una macchia erbosa. Moltiplicate a mille a mille gli scogli, gli abeti, le macchie erbose, e vi sarete creato nella fantasia il bosco, o per meglio dire, il caos, la rovina, a cui ci abbandonammo senza traccia nella speranza di giungere in breve a più sicura proda.

15. » Avanti, avanti; dapprima si cammina a disagio, poi è uno sdrucciolare o piuttosto un lasciarsi sdrucciolare, un abbandonarsi a corpo morto, ove una serie di erbose zolle lo permettono, quindi un aggrapparsi agli scogli, finalmente non c’è più altra via di discendere che quella di attenersi ai tronchi degli alberi, abbandonarsi ai rami flessibili degli abeti, finchè non si fosse trovato un punto di appoggio. In breve ci accorgemmo che la nostra posizione si rendeva difficile, anzi problematica. Benchè gli alberi fossero fitti abbastanza per impedirci di vedere troppo lungi, o meglio troppo basso, ci accorgevamo di essere in complesso sopra un abisso. Io che già aveva più volte osservato dal basso quegli orridi dirupi, di tratto in tratto coperti da vaste [p. 109 modifica]macchie di abeti, mi aspettava indubbiamente, uscito dal bosco, di trovarmi sopra una cornice che terminasse una parete con un’altezza verticale di centinaja di metri. Nessun taglio nelle piante; l’erba talora alta e spessa; tutto infine dava indizio che nè ad uomo nè ad animali erano dischiusi quegli orridi recessi. Come diceva tra me; in un paese dove la povertà del suolo spinge l’ardito montanaro a disputare un cespuglio d’erba al camoscio, la cima di un abete al falco, come potrebbe lasciarsi tanta roba in abbandono, se appena fossero questi luoghi accessibili?... Espressi i miei dubbî a’ compagni piuttosto vivamente; ma quand’anche ci fossimo risolti a ritornare per la via donde eravamo venuti, ci si opponeva l’impotenza fisica. Credetelo: spossati da una giornata di cammino, affaticati dalla poderosa ginnastica di una tale discesa, eravamo già al punto che nessuno avrebbe avuto fiato quanto bastasse per inerpicarsi forse una buona ora, trasportando in alto il proprio corpo a tutta forza di muscoli. O uscire da quel bosco e trovare un sentiero, o passarvi la notte per rifare il cammino il giorno seguente.... Non c’era via di mezzo. Confesso d’aver provato un momento di scoraggiamento. Una, notte passata in quell’orrenda situazione era tal cosa da metter i brividi.... ma, come dico, non c’era via di mezzo. Frugai nelle tasche e mi consolai trovandomi ben provvisto di zolfanelli; pensava che un po ’ di fuoco avrebbe vinto la brezza notturna e servito all’uopo di segnale ad alcuno che ci potesse per avventura recar soccorso. Una sol cosa sembrava insopportabile.... non già la fame, perchè tenuta a freno dall’angoscia dell’animo, ma la sete, resa ardente dal sole che ci aveva dardeggiati l’intera giornata, dai sudori profusi, e forse più di tutto da quello stato di ambascia.

16. » Basta; una volta decisi, subentrò una specie di impassibilità.... Avanti, avanti, fin dove si può!... Parlando d’impassibilità, bisogna che vi richiami ancora una volta il prevosto di Val-Furva, che in questa occasione mostrossi veramente superiore a se stesso. Sempre davanti a tutti, spiava il terreno con quell’occhio che al camoscio fornisce l’istinto, e a lui aveva formato la lunga pratica in quelle disastrose montagne. Talora sembrava che ogni via fosse tronca; tutti si fermavano sull’erta, quale appuntando il bastone, quale pendente da un ramo d’abete, quale fisso ad uno scoglio. Il bravo condottiero si spingeva più basso, si perdeva tra le macchie e gli scogli; lo schiantarsi dei rami secchi ne rivelava ancor da lontano le mosse, finchè [p. 110 modifica]giungeva un grido.... Talora il grido suonava: avanti! ed era un conforto, e si scendeva o meglio si dirupava; talora invece: qui non si passa! ed era uno stringimento di cuore; quindi un tentare a diritta, a sinistra; ma avanti, avanti sempre.

» A furia di muoverci da diritta a sinistra e da sinistra a diritta, ci riuscì di rilevare finalmente la nostra situazione orografica. Imaginate una specie di sperone, ossia di prisma triangolare che, appoggiandosi da un lato alle rupi del Sobretta, era tronco sugli altri due lati da rupi inaccesse, e giù in fondo da due torrenti. Noi ci trovavamo quindi in una specie di penisola sporgente nel vano, chiusa da due torrenti che andavano a con giungersi in uno, ove i due lati si riunivano in uno spigolo acuto. Non c’era dunque via di uscirne, a meno che non avessimo trovato qualche parte appena accessibile, per cui raggiungere o l’uno o l’altro torrente, valicarlo e afferrare l’opposta sponda, che poteva essere più praticabile. Infatti già da qualche tempo, appena gli alberi si diradassero, ci si rivelavano allo sguardo sulla nostra destra un verde prato ed una casetta, che ci facevano l’effetto della Terra promessa. Oh se una volta possiamo arrivarli! Ma tra noi e la Terra di promissione vaneggia un bàratro spaventevole.

17. » Era circa un’ora che si ondeggiava fra il timore e la speranza, e la selva pareva farsi meno selvaggia, quando il prevosto, ficcando il dito verso terra con un accento degno di un tragico, degno di Colombo quando raccolse dalle onde intentate il ramo tagliato, gridò: qui s’è fatta l’erba!... Tutta la comitiva è là, fissi gli sguardi sopra un piccolo spazio, dove il suolo appariva adusto e sparso di bricioli di erba inaridita. — Ma sì, ma no.... — L’argomento era troppo importante perchè non fosse discusso in piena seduta. Si ricorse in ultimo appello al paesano che ci scortava, e che a dir vero in tale frangente serviva più che altro di zavorra; e il paesano, col tuono affermativo e franco d’un perito giudiziario, ripetè: qui s’è fatta l’erba! — Orme d’uomo! — gridai io, con tuono abbastanza burlesco. Vedete un po’ a che deboli fili si attaccano talvolta le speranze e le gioje! ma tant’è; a quella debolissima traccia il sangue si pose a fluire libero nelle vene; alla paura subentrò la speranza non solo, ma il buon umore in tutta la sua freschezza. Qualche uomo, per quanto d’indole orsina, era salito lassù: anche a noi doveva dunque esser possibile il discenderne, mentre ormai potevamo darci vanto d’indole orsina quanto gli orsi stessi. [p. 111 modifica]

» Le difficoltà non erano troppo scemate; ma accresciuta assai la lena di superarle; e giù, giù, avanti, avanti, badando se mai apparissero altre tracce della presenza dell’uomo. Un po’ d’erba tagliata, un ramo reciso, tutto veniva annunciato col grido: orme d’uomo! ed uno scoppio di risa salutava ogni volta quel grido. Fin la nostra scorta aveva penetrato la filosofia di quel grido, e non cessava di ripeterlo ogniqualvolta il suo istinto semiselvaggio gli rivelava più presto che a noi gli indizî dell’uomo. E tali indizi divenivano sempre più spessi, sempre più parlanti, e il bosco si andava assottigliando, finchè era ridotto ad occupare una specie di scena a spigolo acuto, di cui lo sguardo ormai poteva misurare l’altezza, sprofondandosi dall’una e dall’altra parte nel vano. In fondo ad esso scorrevano i torrenti, il cui rumore si era reso distinto. Sempre intesi a calarci a destra, ormai ci pare che si possa tentare una discesa da quella parte, abbandonandoci direttamente sul fianco dello scoglio. Sta a vedere se mai qualche rupe inaccessibile si frapponesse tra noi ed il torrente.... Si scende, si scende, e il primo che giunge in vista dell’acqua grida che si può passare. Giunti di fatto in quel punto vidi come l’irta scogliera scendeva fino al pelo del torrente senza ostacoli troppo più gravi dei finora superati; oltre il torrente un sentiero ascendeva con sicura traccia, serpeggiando sull’opposta sponda fino ai prati, fino alla casetta, vagheggiati cotanto. Sdrucciolando, rotolando, in breve l’uno dopo l’altro siamo al torrente: lo si passa d’un salto, quasi si temesse di lasciare di mezzo un solo istante, fra noi e la Terra promessa quest’ultima barriera, poi giù tutti carponi, quasi tuffati nell’acqua a spegnere l’ardentissima sete.

» Soltanto quando fu soddisfatto il più prepotente bisogno mi levai,

E come quei che con lena affannata
     Uscito fuor del pelago alla riva,
     Si volge all’acqua perigliosa e guata;
Così l’animo mio che ancor fuggiva
     Si volse indietro a rimirar lo passo7.

che, per bacco! se lasciò stavolta persona viva, fu tutto un di più. In quel rimirare trovai più che a sufficienza per rabbrividire. Quegli abissi, che io aveva fantasticati, cingevano di fatto, alti a perdita d’occhi, il dirupo d’onde eravamo discesi; l’unica parte [p. 112 modifica]appena accessibile era la punta di quella specie di delta a cui la Provvidenza ci aveva guidati.

18. » In breve fummo sulla via che conduce a S. Antonio di Morignone, e i primi montanari in cui ci imbattemmo non sapevano raccapezzarsi d’onde e come noi fossimo discesi, Ma il pericolo era vinto, e come avviene, era diletto il discorrerne, il riandare ad uno ad uno tutti gli incidenti di quelle due eterne ore di angoscia. Il dottore Casella, sopratutto, era gongolante di poter ammannire sì lauto pasto alla curiosità dei beventi di Santa Caterina. L’imbarazzo in questo caso consisteva piuttosto nel soverchio che nel difetto di cibi. I beventi di Santa Caterina avevano contratta, chi sa per qual motivo, la cattiva abitudine di fare uno sconto usurajo del tanto per cento, a quanto veniva loro narrato dall’ameno dottore, che stavolta sentiva invece d’avere il diritto di esser pagato per intero in moneta sonante. Voltosi quindi alla comitiva, che non doveva più far ritorno alle acque, disse: — se io, ritornando solo a Santa Caterina, narrerò l’avvenuto, nessuno mi vorrà credere: voglio un mandato scritto e sottoscritto che mi accrediti presso i signori beventi, e voi dovete farmelo. —

» — Aspetta, aspetta, — gli diss’io, — che ti faremo un mandato redatto in forma di regolare diploma. — E dato di piglio a portafogli e matita, cominciai.... Lasciatemi vedere se mi ricordo ancora di quella bosinata.... Sì, press’a poco così:

Diamo incarico al dottore
     Di narrar la trista istoria,
     La gran scena di terrore,
     La gran lotta e la vittoria.
Chi dall’acque a Morignone
     Di seguirci abbia talento,
     Faccia qualche divozione,
     Faccia prima testamento.
Noi preghíam quindi a cald’occhi,
     Una lagrima versate
     Sopra i turgidi ginocchi,
     Sulle coste fracassate.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Basta, basta!... Roba da chiodi! direbbe un milanese: versi assassini! griderebbe un napoletano. Ma che volete? dopo gli orrori di quel bosco non c’era orrore che non sembrasse una amenità, e il mandato fu regolarmente firmato da tutti, anche dal prevosto, anche dalla guida che, badate bene, sapeva scrivere, [p. 113 modifica]e si classificò col titolo di compagnatore. È un documento che farà gran chiasso di qui a 500 anni, se i topi risparmieranno pe’ futuri archeologi gli archivi di Santa Caterina.

19. » Non mi dilungherò ad accennarvi alcuni ridicoli incidenti che finirono quella giornata campale, a narrarvi, per esempio, come, dopo aver vagheggiato nel pensiero un calesse reclamato a rigor di giustizia dalle povere gambe poste quasi fuori di combattimento, dovessimo poi trottare a piedi fino a Bormio al chiarore di luna. Bastivi il sapere che, un’ora prima di mezzanotte, un’allegra mensa, condita dal più formidabile appetito, riuniva all’albergo della Posta gli avanzi di quell’infausta giornata. Per fortuna tutti appartenevano a quegli avanzi, compreso il vostro zio che da così lunga chiacchierata vorrebbe che cavaste questa buona massima: prima di accingervi ad un ’ impresa, misurarne la portata e pigliare tutte le cautele per non esporvi temerariamente al pericolo; ma una volta che, senza vostra colpa, ed anche a fin di bene, vi trovate in difficili circostanze, conservate tutto il sangue freddo, affrontando le difficoltà con quel coraggio che le vince».

20. «Hai finito?» chiese Annetta.

«Non senti che suonano già le dieci? Del resto quand’io volessi toccarvi quanto offrono di interessante i dintorni di Santa Caterina, e descrivere tutte le belle gite che vi si possono intraprendere, avrei ancora da intrattenervi per parecchie serate. Interessantissima, per esempio, è la gita a Ponte di legno per il passo del monte Gavia, rasente le ampie vedrette che dipendono dal Corno de’ tre Signori. Bellissima la Val-Viola, per cui si giunge a Livigno, donde si ritorna a Bormio per la Val-di-Fraele. Incisa tra due enormi pareti frastagliate di calcaree nere, ove si disegnano, con mille ondeggiature, contorsioni, mosse bizzarre, gli innumerevoli strati sovrapposti, la Val-di-Fraele è il tipo dello squallore. Quasi interamente chiusa, isolata dal mondo, può interessare il geologo che vi ammira nel loro più imponente sviluppo le calcaree alpine; ma è un regno di desolazione e di morte. Anche là tuttavia il solitario laghetto di Fraele, il limpido corso dell’Adda giovinetta, alcuni lembi di erbosi piani interrotti da macchie di abeti, possono esser fecondi di quel diletto che compensa la fatica di una buona giornata di cammino. Non lascerete poi di fare una gita allo Stelvio. Essa è di prammatica; è la partita obbligata di quanti si bagnano o bevono lassù. Chi non ha visto altri passaggi alpini, potrà gustare [p. 114 modifica]anche questo, che, per essere uno dei più arditi, non cessa di essere forse di tutti il più monotono. Ma sovrabbondante compenso alla monotonia della salita è la vista dell’Ortlerspitz che si presenta come per incanto a chi raggiunge la sommità del giogo. Vi assicuro che l’Ortlerspitz, per la maestà della scena, per quella specie di grandiosa armonia caratteristica dei colossi alpini, non ha nulla da invidiare nè al monte Rosa nè alla Jungfrau nè al monte Bianco. Se poi voleste, come ho fatto io, dalla quarta cantoniera dello Stelvio discendere a Santa Maria, quindi a Münster, poi, passando sui confini del Tirolo, salire al passo del Taufersberg donde la stessa sorgente versa le acque tanto all’Adriatico, quanto al mar Nero, e discendere per la valle di Scarla fino a Tarasp, il più pittoresco villaggio dell’Engadina; avreste percorsa una delle più stupende come delle più ignote regioni delle Alpi, e ultimato il giro di tutto il paese, che nel senso più largo della parola, può indicarsi col nome di dintorni di Santa Caterina. Ma quando, col pagare cinque franchi per tre tazze di caffè nero, precisamente al nuovissimo albergo della cura di Tarasp, cominciate ad assaggiare quella serie di alberghi svizzeri che vi rimandano dall’uno all’altro, facendovi fare il giro delle Alpi come Attilio Regolo il giro della sua botte, quegli alberghi ove vi sentite piccino piccino in faccia a qualunque mascalzone in guanti bianchi il quale, aveste un cervello pesante come quel di Giove, avanti la famosa martellata che ne trasse Minerva, non sa valutarvi che per quanto pesa la vostra borsa, la poesia comincia a far fagotto da’ regni che sarebbero i suoi. Quando più fra quei sublimi dirupi voi dovete attendere, più che ad altro, a schivare gli strascichi di seta; quando, in luogo di incontrarvi con lesti viaggiatori col sacco in spalla, adusti e pieni d’entusiasmo, vi abbattete in una compagnia che direbbesi uscire piena di sonno dal teatro, con tutti gli apparati di un vasto S. Michele; quando viaggiate continuamente in mezzo ad una folla senza entusiasmo, che trova già tutte le sue emozioni obbligate, stereotipate sulla sua Guida con altrettanti punti di esclamazione; quando trovate gli alpestri villaggi convertiti in molli, lussureggianti bazar, o in convegni di gente melensa e corrotta; vi viene voglia di dire che di vetrine con merletti e parrucche, di strascichi e di crinoline, come di gente annojata, ne trovate abbastanza sul corso Vittorio Emanuele, senza andarli a cercare sulle vette delle Alpi. Capisco di essere in ciò un tantino irragionevole: ma che volete? la natura è anch’essa [p. 115 modifica]gelosa delle sue bellezze e vuol essere contemplata nella sua verginità. Quindi dirò sempre: viva le nostre Alpi lombarde! Qui possiamo ancora lasciarci assorbire dagli incanti della natura sulle cime solitarie, nel silenzio delle valli, non interrotto che dal cupo muggir del torrente, dal canto quasi furtivo degli uccelli, e dai gridi lunghi e sonori con cui si salutano dall’uno all’altro greppo i pastori e le montanine. Qui ancora i costumi incorrotti, contenta la vita, onesti i guadagni, spontaneo il saluto, non servile l’ossequio, cordiali le esibizioni, disinteressata l’ospitalità. Se tuttavia verrà giorno in cui le Alpi nostre siano percorse dai viaggiatori come le Alpi svizzere, dirò: viva il progresso!».


Note

  1. Peritoneo è quel sacco membranoso, sottilissimo, che involge i visceri del basso ventre.
  2. Le dioriti sono rocce composte di feldspato e d’amfibolo sviluppatissime e ricche di belle varietà alla base del Sobretta.
  3. Si dice petrografia quel ramo della geologia che si occupa della natura delle rocce.
  4. I monti sono qui paragonati per similitudine ai Titani della mitologia, cioè ai giganti che mossero guerra al cielo, e furono sterminati dai fulmini di Giove.
  5. Il gelo, per quanto guadagni di profondità durante l’inverno, è pur sempre fenomeno superficiale. Da noi, per esempio, nel piano, non raggiunge forse mai la profondità di un metro. Supponiamo che nelle regioni più elevate delle Alpi arrivi anche ai dieci metri. Avendo i ghiacciai decine e centinaja di metri di grossezza, la loro porzione inferiore si troverà pur sempre in un ambiente relativamente tiepido, e subirà pertanto un disgelo continuo.
  6. E. Rambert, Les Alpes Suisses, vol. I, pag. 169.
  7. Dante, Inf., I 22.