Il buon cuore - Anno XIV, n. 51 - 25 dicembre 1915

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Anno XIV. 25 Dicembre 1915. Num. di Natale.


Giornale settimanale per le famiglie

IL BUON CUORE

Organo della SOCIETÀ AMICI DEL BENE

Bollettino dell’Associazione Nazionale per la difesa della fanciullezza abbandonata della Provvidenza Materna, della Provvidenza Baliatica e dell'Opera Pia Catena

E il tesor negato al fasto
Di superbe imbandigioni

Scorra amico all’umil tetto .....

ManzoniLa Risurrezione.

SI PUBBLICA A FAVORE DEI BENEFICATI della Società Amici del bene e dell'Asilo Convitto Infantile dei Ciechi
La nostra carità dev’essere un continuo beneficare, un beneficar tutti senza limite e senza eccezione.
RosminiOpere spirit., pag. 191.

Direzione ed Amministrazione presso la Tipografia Editrice L. F. COGLIATI, Corso Porta Romana, N. 17.




IL NATALE


In silente umil tugurio
Nato è il Divo Bambinello:
A temprare il verno rigido
Gode il bue e l’asinello:
E l’omaggio a Lui dei cuori
Offron poveri pastori.

Pur fra tutti più felice
Raccogliendo il Bimbo al seno,
Sta la vergin genitrice:
Oh, chi mai ridire appieno,
Può la gioia di quel core,
Tutto grazia, tutto amore!

In lucente aereo volo
Dalla sede dei celesti
Ecco d’Angeli uno stuolo
Sul presepio a scender presti:
Dolce il canto, che al ciel piace,
Ripetendo della pace.


All’angelico concento,
Tutta svegliasi la terra:
Ogni cor si fa contento,
Chiuso è il tempio della guerra:
Fanno salve ai dì più belli
Tutti i popoli fratelli.

Quale orribile ruina
Ahi, l’Europa tutta invade!
Una sol carne ficina
Fatte son le sue contrade:
Stan le madri, in pianto il viso,
Chine sopra il figlio ucciso.

O Bambino, che venuto,
Pago all’uom fatto il desire,
Della pace il gran saluto
Sulla terra hai fatto udire,
Quaggiù, il nostro prego ascolta,
Deh, ritorna un’altra volta!

L. Vitali.


[p. 354 modifica]La parola del Papa

Alla parola di pace che viene dal Bambino nella Capanna di Betleme, godiamo far seguire la parola, pur di pace, fatta udire in Vaticano da Benedetto XV, l’11 corrente mese, a 1600 terziari Francescani. Francesco è il Santo che nel corso dei secoli ha più vivamente ritratto in sè l’immagine di Cristo; immagine nell’esempio, immagine nell’influenza e nel trionfo morale sugli spiriti. Il Papa invita ad imitare Francesco, ed è commovente il piccolo quadro della sua andata ad Araceli, per iscriversi terziario Francescano. Quando il Papa naviga in una atmosfera tutta spirituale, oh, come si sente che è al suo posto! E’ al suo posto lui, e mette al posto gli altri. Con Cristo e con Francesco, nell’esempio e nella parola, il Papa di Cristo e di Francesco avrà i trionfi. L. V.

  • * *

«Non è cosa nuova che sulla Cattedra di San Pietro sieda un figlio del poverello di Assisi. Gli ultimi tre Pontefici, che ci precedettero, furono anch’essi iscritti al terzo ordine di San Francesco. Ma forse esclusivo per noi è il vanto di aver ricevuto l’abito ed il cordone del terzo ordine dalle mani del direttore della Congregazione di Ara Coeli. Voi, o dilettissimi figli, avete oggi voluto rilevare questa particolare circostanza della nostra vita, e noi siamo lieti di tornare col pensiero a quel pomeriggio di freddo autunno in cui soli e a tutti sconosciuti ci presentammo al Santuario dell’Ara Coeli a domandare l’aggregazione al terzo ordine. Il Sommo Pentefice Leone XIII, di santa memoria, aveva da poco emanata la mirabile enciclica «Auspicato» intesa a sciogliere un inno di altissima lode al patriarca di Assisi e a prorogare il terzo ordine da lui fondato. Al nos’ro orecchio era giunta graditissima, perchè recata dal compianto cardinale Sciaffino, allora venerato nostro superiore all’Accademia Ecclesiastica, l’eco delle feste celebrate in Assisi nel settimmentenario della nascita di San Francesco e nel giorno ottavo della celebrazione del centenario francescano ci sentimmo soavemente eccitati a dar il nostro povero nome alla schiera dei figli di quel Santo Patriarca. Ci guidava la mano di Dio che voleva santamente premunirci con aumento di grazie quasi alla vigilia del giorno in cui avremmo dovuto cominciare fuori di Roma una vita che, in Roma e fuori, non sarebbe stata del tutto inoperosa. Ma perchb non dire altresì che Iddio preparava la magnifica professione di fede che dopo oltre sei lustri di membro del terzo ordine iscritto alla Congregazione di Ara Coeli, avremmo rinnovato insieme ai confratelli e alle sorelle delle altre congregazioni romane sotto la volta di questa pontificia magione? Se «frate Francesco promise obbedienza e riverenza al signor Papa Onorio» i figli di lui dove vano rinnovare questa medesima promessa ad un successore di Papa Savelli. Ma non è chi non veda di quanto si sarebbe agevolata la Chiesa se gli iscritti al terzo ordine avessero potuto presentarsi al Papa con quella maggiore familiarità che permette il titolo di confratelli di Lui. «Benediciamo il Signore che anche le minime cose ordina a gran fine; benediciamolo perchè si è servito della nostra pochezza a preparare l’odierna professione di fede che tanto onora il terzo ordine francescano e dovrà tanto giovare al bene spirituale degli iscritti alle varie congregazioni romane. Non fa mestieri di spendere molte parole per dimostrare che la rinnovazione della promessa fatta da San Francesco al signor Papa Onorio è altamente commendevole, come quella che apparisce eco fedele della voce del Santo Patriarca. «Quando frate Francesco prometteva obbedienza e riverenza al signor Papa Onorio ed ai suoi successori, evidentemente si indirizzava anche a noi. Ma chi meglio dei suoi figli avrebbero potuto recare a noi l’eco della sua voce? I figli che ripetono le parole del padre onorano il padre stesso e del padre meritano il sorriso. Oh, come San Francesco sorriderà oggi dal cielo ai terziari di Roma e all’attuale Pontefice che hanno ripetuto la promessa da lui fatta al signor Papa Onorio ed ai suoi successori! Questa rinnovazione di promessa significa perseveranza di consigli e costanza di intenti e chi non dirà che l’onore precipuò di un sodalizio consiste nel mantenere lo spirito del suo fondatore? A noi sembra però che questa rinnovazione della promessa di San Francesco sia ordinata altresì al bene spirituale dei figli del Santo Patriarca. Si noti la maestà del luogo dove la sol/dune promessa t rinnovata, pongasi mente al numero dei testimoni chiamati a sanzionarla, nè si dimentichi la particolare circostanza del tempo in cui i figli di Francesco confermano la promessa del Padre... Oh! quale,terziario francescano non si sente oggi eccitato ad osservare più fedelmente l’obbedienza e la riverenza che per sè e per tutti i futuri suoi figli San Francesco promise al signor Papa Onorio ed ai suoi successori canonicamente entrati e alla Chiesa Romana? Senonchè il Patriarca di Assisi prometteva obbedienza e riverenza al Pontefice dell’epoca sua solo perchè in esso riconosceva la più ampia partecipazione dell’autorità di Dio e perchè,’ sapeva doversi attingere dal labbro di lui la maggiore sapienza. «Anche voi, o dilettissimi figli, vi stringete oggi intorno a noi perchè nell’indegno erede di tanti Papi ravvisate la stessa autorità che ebbe il primo Vicario di Gesù Cristo; anche voi oggi promettete a noi obbedienza perchè sapete che noi siamo eco dei divini precetti. La rinnovata vostra professione di fede apparisce dunque uno stimolo al ben fare. Chi poi la considera compiuta nel dovere a cui la Chiesa con le parole dell’apostolo ripete ai suoi figli l’esortazione a vivere con giustizia e con pietà «ju [p. 355 modifica]ste et pie vivamus» non può non riconoscere che essa è una implicita promessa di informare la vita a giustizia nelle relazioni col prossimo, a giustizia e a pietà in quelle verso Dio. Di qui forse, o dilettissimi, voi trarrete l’opportuna conferma che la regola del terziario francescano non è che il Vangelo in pratica: di qui forse dedurrete novello ardore a propagare il terzo ordine in mezzo al mondo. Ma noi ci limitiamo a proclamare un’altra volta che l’odierna professione di fede rinnovata in questa aula se onora il Terzo Ordine francescano a cui mostra sempre vivo lo spirito del suo fondatore, giova infine e potentemente al bene spirituale degli ascritti alle varie congregazioni romane. Volendo però che si accresca ognora più codesto bene spirituale, con sincero affetto di confratello a cui si congiunge la benevolenza del padre, impartiamo l’apostolica benedizione a tutti i terziari di Roma che con la voce di quelli di Ara Coeli hanno rinnovato a noi come successori di Papa Onorio la promessa di reverenza e di obbedienza. Il Santo Patriarca ci guardi benigno dal Cielo e ci ottenga di essere e dimostrarci non indegni figli di Lui». Il Santo Padre ha poi impartito la benedizione.

Sorrisi di moribondi

....Si chiuse in una smorfia di fredda ilarità. Derise la sua malattia, si burlò della morte. Era una piccola ma tragica soperchieria. Voleva spegnersi da Ferravilla, col riso innocente e amaro dell’umorista sulla vecchia bocca». Così felicemente Renato Simoni ritrasse gli ultimi giorni del grande artista; e i giornali riferirono le parole con cui questo, dal letto di morte, richiamò il sorriso sulle labbra degli accorati familiari. Questa è ben fine degna. d’un artista, e la storia nostra ne registra più esempi. Un altro uomo di teatro, di minore ma non d’ultima fama, Andrea Codebò, colto da un colpo apoppletico mentre passeggiava per le vie di Milano, fu portato all’ospedale dei Fatebenefratelli. I medici trovano il caso grave: «Se l’ammalato non sopporta questo accesso — dice uno — la è finita». Il Codebò sente, e replica: «Ma si figuri! Sopporto lei!». Pochi istanti dopo spirava (1). Pure a Milano si spegneva, il 18 giugno 1913, Leopoldo Vestri, famoso brillante a’ suoi giorni. Poco prima di morire, a quanto riferivano i giornali, vedendo entrare due signori, amici d’un suo parente, disse loro: «Ho capito: loro sono agenti teatrali venuti per scritturarmi. Mi metto a loro disposizione». (1). G. Cauda, Sulla scena e dietro le quinte, Chieri 1914, pag. 34. (2) Quindici giorni prima di morire, fu udito lamentarsi: Gran brutt segn: go voueja de lavorà! (P. Lucini, Le Dossiane, Varese 1911, p. 79).

((Come stai?» — chiedeva un amico a Carlo Porta moribondo — «Come si può stare con questo belee», rispose egli, accennando al crocifisso che teneva tra le mani. «Sto benissimo», rispondeva Giuseppe Rovani alla stessa domanda. «Come? Non hai proprio nulla che ti dia fastidio?» — «Ah, sì: l’esistenza». Furono le sue ultime parole... Pochi minuti prima, ai medici che andavano battendogli il petto colle nocche delle dita, aveva mormorato: «Ohè! m’avete preso per una scatola di tabacco?» (2). Il tratto ricorda quello d’un terzo grande milanese, il Parini. Durante la sua ultima malattia — a quanto narra il Cantù nel volume dedicato a lui (Milano 1892, p. 377) — fu visitato da due medici amici suoi, Strambio e Locatelli. «Bisogna dare il tono alla fibra», proponeva l’uno. «No — ribatteva l’altro — bisogna scemare il tono». — «A ogni modo — conchiuse il poeta del Giorno — volete farmi morire in musica». E al medico amico, Todeschini, furono rivolte le estreme parole d’un milanese d’adozione, Paolo Ferrari. «Paolo, guardami, guardami negli occhi!» andava ripetendogli quello con voce accorata — «..che sono tanto belli!» fece con un fil di voce il drammaturgo, completando il noto verso giacosiano in Una partita a scacchi. Milanese era pure, per amicizie e parentele, Massimo D’Azeglio. La sua seconda!toglie Luisa — si legge nelle Memorie di Vittorina Giorgini-Manzoni, pubblicate qualche anno fa da Matilde Schiff-Giorgini — ne era oltremodo gelosa, e con troppa ragione. Gli faceva scenate, esercitava una specie di spionaggio, che lui chiamava inquisizione di Spagna: onde era impossibile che vivessero insieme e Massimo poneva ogni cura nello scansarla. Quando a Torino lo prese l’infermità che doveva condurlo al sepolcro, Matteo Ricci telegrafò a Luisa, che giunse appena in tempo per vederlo. «Vedi Luisa — le disse egli — come al solito.... quando tu arrivi io parto». Col sorriso sul labbro si spensero quei due capi ameni che furono il Coppola del vecchio Fanfulla e il Vassallo, più famoso sotto il nome di Gandolin. Pochi minuti prima di morire, il primo dichiarò a Baldassarre Avanzini, direttore del giornale: «Caro mio, ho finito di lavorare per il carro dello Stato; sto lavorando per il carro del Municipio». Il secondo, languente per diabete, a un amico che per distrarlo gli parlava di politica e della crisi saccarifera, osservò: «Già: tutti gli zuccheri vanno giù: soltanto i miei sono sempre in rialzo». Nè mancano esempi anche tra i personaggi nostri che più propriamente si chiamano storici. Arguta e profonda a un tempo è la risposta data da Castruccio morente — secondo riferisce il Machiavelli nella vita di lui — alla moglie che gli chiedeva perchè tenesse chiusi gli occhi: «per avvezzarli». E alla moglie sua diceva Cosimo di Giovanni de’ Medici, essendo da lei richiesto perchè tacesse a lungo: «Quando andiamo in villa i preparativi per la partenza ti occupano quindici giorni; e non comprendi come io, che sto [p. 356 modifica]per lasciare questa vita per l’altra, abbia molto da pensare?». Lo stesso Cavour ebbe un guizzo d’umorismo ne’ suoi ultimi istanti. E’ anch’esso alle spalle de’ medici. Giunse il dott. Riberi per un’inutilissima visinarra la marchesa Giuseppina Alfieri di Cavour, ta nipote del grande ministro — e fu accolto dal moribondo con questo complimento: «Vi ho fatto chiamare un poco tardi, perchè non ero ancora un ammalato degno di voi». Gli stranieri hanno delle raccolte di sortite umoristiche in articulo mortis, come furono chiamate. Ma troppe di esse sono insieme anche o ciniche, o empie, o beffarde. Una raccolta che riguardasse dei valentuomini nostri, spentisi in un ultimo sorriso arguto, ma non contrastante colla composta solennità della morte, riuscirebbe curiosa e, a suo modo, edificante, oome spero potrà apparire da questo brevissimo saggio. PAOLO BELLEZZA.

Il sogno dell’Imperatore

E l’imperatore dormival... Era egli vecchio decrepito o ancora nel vigore degli anni? Stava nel gran letto di parata, nella sontuosa camera tutta oro e stucchi del suo,immenso palazzo imperiale, o s’era buttato su di un semplice letto da campo in qualche località dove l’immane, esecrabile guerra ferveva?... Non so bene; so questo soltanto che l’imperatore dormiva. Ed era la Notte di Natale. Aveva anche voluto l’Albero, prima, e intorno al simbolico abete luminoso e ricco di doni, pochi fedelissimi suoi che avevano intonato un cantico sacro. L’anima pia dell’imperatore non avrebbe consentito si Calasciasse la tradizionale costumanza gentile. E il soave cantico di Natale, tra tanto scatenarsi di odio, si era svolto nelle sue note e nelle sue parole d’amore attorno a quell’Albero. Che cosa passava intanto nell’anima pia dell’imperatore al dolce espandersi di quelle parole, di quelle note?... Non so. Soltanto so che un terrore funereo pesava su tutto, e pur nel tepore dell’ambiente i cuori dei presenti s’agghiacciavano, e foschi bagliori mandavano i lumi di quell’Albero, e i doni che ne pendevano pareva stillassero sangue. E l’imperatore dormiva!... Dormiva d’un sonno agitato perchè uno scampanio, che si levava alla mezzanotte in puntó, da vicino e da lontano lontano, da ogni chiesa del mondo, nella quale si adorasse il nato Messia, l’apparso Principe della Pace, uno scampanio incessante veniva a turbare, col confuso suo frastuono, quel sonno a cui s’era abbandonato da poco. E fu, da prima, un accumularsi nella mente di lui d’immagini e di voci indistinte; poi le idee spezzate, in contrasto, presero quasi un ordine, un nesso logico, oel sogno..... Pareva all’imperatore d’essere in mezzo ad una sterminata pianura, coperta tutta quanta di cadaveri

putrefatti; e a lui solo, ritto nel mezzo, là, al Dominatore di scheletri e della putredine, saliva, orribile incenso, come a un orrendo nume d’inferno! il lezzo di tutti quei morti, di tutti quei cadaveri, con ferocia di iena voluti. E l’imperatore, o vecchio decrepito o ancora nel vigore degli anni, non so, nel sogno ebbe paura; non rimorso, paura! E ansava e tremava nel sudore freddo che lo prendeva in tutte le membra. Fu in quel profondo silenzio di morte che le campane di tutto il mondo proruppero in un’immensa ondata di suoni. L’imperatore sussultò; ebbe come una speranza di sollievo dall’incubo che l’opprimeva, perchè nella pia anima pensò: cantano Gloria! le campane di Natale in questa notte... E si protese per ascoltare, rianimato, come se le campane di tutto il mondo dovessero mandare anche a lui il giubilante saluto: Gloria! Gloria! Ma allora, chiara, distinta, come se dovesse numerarle tutte, da ogni grande storica campana di cattedrali celebrate e da ogni umile campanella di villaggio, in ogni punto del mondo civile, una voce arrivò fino a lui e gridò: Maledetto!!... E una eco spaventosa, come da caverne infernali, rimandata nell’aere senza stelle, nero, all’imperatore, su quella sterminata pianura di morti ripetè: Maledetto! E, frammiste alle voci delle campane, voci di padri, di madri, di spose, di fidanzate, veci di orfani urlarono: Maledetto! Maledetto! L’imperatore furente, fece atto, nel sogno, fai vqlersi turare con le mani le orecchie per sottrarsi a quei gridi, che avrebbe voluto reprimere coi più feroci supplizi; ma le mani... erano state tagliate, e due spaventosi moncherini imperiú lasciavano scorrere il sangue a Rotti, e non sangue ultra azzurro, no; sangue volgare, come di un °Annibale... Bambini con le manine tagliate, i moncherini sanguinanti, tesi contro la superba figura dell’imperatore, apparvero davanti p lui 1... E lui ritorse da essi la pupilla,111010, e la fissò lontano, quasi per trovare scampo a$4 macabra visione. Ma lontano, sul cielo nero, apparve scritto in caratteri di fuoco: Lusitania! e poi Ancona! e poi Reims, e poi Lovanio, Venezia, Verona, Brescial... A cercare nuovo scampo volse altrove lo sguardo, e vide un mare che il suo terso cobalto aveva mutato in sanguigno; e ne emergevano corpi d’annegati, orribilmente gonfi, già divorati in parte dai pesci, e che, ripresa un momento la vita, gridavano a lui, quasi anticipassero un terribile giudizio: Maledetto! E guardò, e vide ancora i capestri e le forche da cui pendevano, purissime vittime patriottiche, e sacerdoti intemerati e giovani nel fiore degli anni, e vecchi venerati per alta dignità di vita; guardò e vide i suoi fucili spianati contro innocenti a cui era delitto amare la loro Patria; contro dohne eroiche, contro giovinette e giovinetti che cadevano sotto i colpi non di soldati in aperta guerra leale, ma di assassini imboscati nel tradimento o per sentenza d’infami pro [p. 357 modifica]cessi condotti da più infami giudici. E Nazioni intere vide, e popoli conculcati, dispersi, perchb rei di volere le loro terre libere dallo straniero tiranno, e città distrutte, e opere di meravigliosa bellezza d’arte ridotte in rovina.... Guardò ancora, e vide un brulichio di viventi, ma orribilmente sfracellati, deformi, acciecati, mutilati, miserabili tronchi senza quasi più apparenza umana, e li udì gridare con voci rauche, cavernose: Maledetto! Sotto il peso della maledizione del mondo, di quella maledizione universale di vivi e di morti, l’imperatore ebbe paura, e volle rivolgersi a Dio come a difesa, ad esigerne l’aiuto. E pensò nel suo barbaro orgoglio: E’ la Notte di Natale, Dio è con me! Ed ebbe davanti agli occhi suoi la mirabile visione di Betlem. In miseri pannolini, su poca paglia, il Pargoletto Divino sorrideva alla Madre, agli Angioli ed ai pastori semplici e buoni. L’imperatore schiudeva il labbro alla preghiera dell’antico Fariseo: Signore, io non sono come i Pubblicarli; io prego nel Tempio e digiuno... Ma il Divino Pargoletto lo guardò severo e minaccioso, e la visione disparve. Al suo posto si delineò un altro quadro: Maometto, il sozzo Profeta dell’Islam, in una scialba luce, soddisfatto, guardava l’imperatore cristiano e lo invitava e diceva: sei mio!

Sempre più forte, intanto, sempre più terribili, come urlo d’uragano, dagli abissi del cielo, dai gorghi profondi del mare, dalla infinita distesa della terra, da vivi e da morti, le voci gridavano: Maledetto! Maledetto!.... Sempre più angosciato, terrorizzato, madido di sudore freddo, 1:imperatore, o vecchio decrepito o ancora nel vigore degli anni, non so, agitavasi convulsamente sotto le coltri, e cercava il risveglio, per liberarsi finalmente dal sogno spaventoso, da quell’incubo di spasimo. Un urlo di disperazione gli rantolava nella strozza, ma non poteva urlare; sof focava, quasi il capestro gli serrasse la gola come a tante vittime della sua ferocia imperiale, della sua sete di dominio e di sangue; pareagli che mille colpi di fucile gli squarciassero il petto come a tante pure, • innocenti vittime sue!... Ed il risveglio verrà! Ma quale sarà il tuo risveglio, o superbo, o maledetto per sempre, finchè la storia ripeterà agli uomini la tua infamia, quando, chiusi appena i truci occhi tuoi al sonno della morte, li riaprirai nel Risveglio che ti aspetta terribile, eterno al di là della tomba?.... Firenze

ELISEO BATTAGLIA.

SI monito ai un grande In quest’ora tragica che si è abbattuta sulla terra e sugli uomini, mentre il fiore della nostra gioventù combatte ai confini della patria e le donne lavorano e pregano in silenzio, e molte piangono, e tutte implorano vicina la fine vittoriosa del tremendo conflitto — in quest’ora di prova, mentre forse s’abbatte il cuore e vacilla il coraggio, più che le povere parole che io potrei dire valga a sostegno della nostra fede ciò che uno dei nostri più grandi cittadini, Cesare Correnti scriveva il 13 novembre del 1850. Le circostanze si riproducono simili a quelle, ma avvalorate dagli avvenimenti di più di mezzo secolo, rinsaldate nel magnifico risveglio della coscienza nazionale. Cesare Correnti le scriverebbe ancora. Eccole: «La guerra! Orribile, immane, anticristiana cosa è la guerra. Eppure oggidì una tremenda concordia di popoli desidera, invoca, sospira la guerra; tanto è odiosa e mortale una pace che dimezza le anime, che violenta la ragione, che misurando avaramente alle nazioni l’aria e la libertà, le condanna ad una «lenta agonia di soffocazione. Ecco perchè i popoli vogliono la guerra. Sanno troppo bene che la guerra vuol dire incendio di città, devastazione di provincie, sterminio di innocenti, strage di inermi, sangue e denaro di popolo, ma fiat»stilla e I pereat mundus. Si faccia questa grande giustizia e non sia più «una vergogna appartenere alla razza umana!». NEERA. ~0.0"..p [p. 358 modifica]Un numero

Il municipio di Milano fa le cose per bene. Ormai andiamo tutti in carrozza, grandi e piccoli, ricchi e poveri, vivi e... morti. Le salme viaggiano in tramvia elettrica: i parenti dei defunti, per quanto miserabili, altrettanto è la rigida decorosità dei funebri convogli, del personale in nera uniforme, perfino la velocità silente della trazione che sembra generata da un soffio arcano, tutto è burocraticamente e inappuntabilmente lugubre, degno di una capitale. L’altra mattina, il tram elettrico della morte era affollato e trasportava quattro bare, delle quali una cassettina piccola, da bimbo. Il vento era così forte che i lembi delle povere coltri logore dall’uso svolazzavano tratto tratto fin sulla barba del frate cappuccino che, la testa china, le mani sprofondate nelle maniche. i piedi nudi negli zoccoli, pareva tramutato in statua. Nel carrozzone precedente, le famiglie dei parenti, dopo l’impacciatura istintiva dei primi silenzi, avevan rotto il ghiaccio, si erano affratellate subito con la facilità dei poveri che hanno comuni due soli temi: la miseria e il lavoro. — «Un frate?.. Chi ha pagato un frate? Ci voglion dieci lire per averlo.... — «Io no! Io nemmeno... Nessuno lo aveva fatto venire. Sulla piattaforma, cinque bambine ammantate nei veli bianchi rigidi d’insaldatura, cinguettavano come passere: di tanto in tanto una risata giovanile scattava come il trillo di una campanellina d’argento. La madre del bimbo morto era la sola che piangesse. — «Dove è andato adesso l’Angioleu? — chiese a un tratto la più piccola delle bimbe, che teneva religiosamente chiuso nel pugno un crisantemo rovinato dalla brina. «In quel posto da dove è venuto, sciocca! — le rispose la sorellina maggiore. «Che luogo è)? «Il Paradiso. «No: il Limbo! — intervenne a dire un’altra. «Me lo ha insegnato la mia maestra. «Non è vero, bugiardona.... - «Bugiardona sarai tu! Nel tram della morte tutti sorridono; di là, dietro il cristallo, sventola e batte sempre più forte un lembo nero, e un mormorio di preghiera si perde nella barba del cappuccino, nel respiro ghiacciato del vento.

La terra è: tanto dura che i fossaiuoli si sono ben meritata la mancia. Le quattro bare, seguite dal corteo dei dolenti, furono scavate in fondo, in fondo, in un campo nuovo che, quanto prima sarà vecchio, poichè è spaventosa la moria di questa Milano che tanto palpita di vita! E per giungervi, grandi e piccoli hanno dovuto

percorrere una lunga via attraverso croci, lapidi e rialzi di terreno duro come lava. Quando le due casse lunghe e strette furono calate nelle buche fonde, quando la piccola cassa leggiera come l’ala di un uccello fu scomparsa nel grembo dell’altra Madre che l’aspettava, allora per la prima volta s’accorsero che nessuno, nessuno, accompagnava la quarta cassa. Il cappuccino solo, stava immobile accanto al tumulo recente. Col braccio teso benedì due volte. Chi à-, padre? — fece la più curiosa delle dorne. Ma il frate non rispose e s’allontanò frettoloso. «Chi è? Chi sarà? Neanche un cane, per lui.... Uno degli affossatori, interpellato, si strinse nelle spalle come il frate, continuando a lanciare nella buca, con ritmica regolarità, una badilata di terra sopra l’altra. L’altro affossatore (questione di temperamento!) fu esauriente e scultorio. Appoggiato al badile con ambe le braccia, diede uno sguardo circolare ai curiosi che l’attorniavano. «E’ uno di S. Vittore — disse deponendo senza saperlo un fiore di pietà sul feretro solitario, perchè non aveva detto, del Cellulare. «Ma non c’era scritto neanche un nome sulla cassa? No: un numero: sarà stato un forest. «Ah! E quella gente rozza, che aveva seguito il proprio feretro ciarlando e sorridendo, quella gente compianse il morto sconosciuto, il morto colpevole, con sincero slancio di pietà. Poi una delle bimbe, la più piccola, ispirata chi sa da quale misteriosa voce lontana di anima ignota, che quel morto poteva aver amato, aggiunse un altro fiore a quello dell’affossatore: il crisantemo rovinato dalla brina: il fiore, forse, del perdono. FULVIA.

"FIN„ Lo conoscete? Penso di sì, tanto la sua popolarità è pronunciata. Indipendente e sottomesso, docile e capriccioso, timido e temerario, sobrio e ghiottone, pigro ed intraprendente. ha tutte le qualità e tutti i difetti della sua razza, nella spiccata tendenza d’essere solo a dominare nell’ambiente di cui seppe assicurarsi l’assoluta sovranità. Bellissimo nella perfetta eleganza delle forme, nella testolina dalle, brevi linee, nell’occhio lampeggiante d’intelligenza, desta l’ammirazione e la simpatia, imponendosi all’attenzione con tutte le risorse della prepotenza, come con tutti i ritrovati dell’amabilità. Chi non lo conosce? La sua voce eccheggia da un capo all’altro della via, quando dall’alto del suo osservatorio pensa intervenire arbitro fra contese canine, o giudice d’agglomeramenti pericolosi; quando crede di [p. 359 modifica]sturbato il suo riposo da rumori eccessivi o minacciata la sua tranquillità 3a intrusioni spiacevoli. Prigioniero volontario, piuttosto che rinunciare a velleità di combattimento, si rassegna a lottare con i sospetti che gli attraversano la fantasia, e mille nemici invisibili, i nemici che non può raggiungere, gli passano davanti al lampo dell’occhio socchiuso, fa cendogli intravvedere splendidi duelli, nei quali la sua soverchiante audacia gli dipinge il trionfo. E dinanzi all’occhio pensoso, passano in rapida fantasmagoria grossi cani, focosi cavalli, ispidi gatti, e automobili sbuffanti, e carri rumorosi, e biciclette traditrici; lotte sognate nei silenzi delle lunghe sieste, fra un sospiro di desiderio, ed un altro di rassegnazione. Nel sacrificio dei più bellicosi istinti, forse trova strano l’intervento della mano previdente che frena gli impeti ed impedisce il danno; forse la testolina irrequieta studia ed escogita l’istante di libertà, che sarebbe il trionfo di mille idee inconfessate, di mille aspirazioni insoddisfatte. E l’attesa si prolunga vigile e silente. Non intrusi nel luogo sacro che racchiude i suoi affetti! L’orecchio teso, l’occhio diffidente, le narici frementi, sembrano rivolgere una domanda, ed rit mugolio di disapprovazione che segue l’inascoltato intervento, svela tutte le represse ansietà che agitano il suo cuore fedele. Perchè quel cuoricino ama, ed al limite dei suoi affetti chiede la felicità. Ed alla carezza che lo avvolge, alla parola che lo invita, alla cura che lo circonda, l’occhio vivo risponde colla promessa eloquente di un’intera dedizione. In quello sguardo che dice il dolore nei momenti di solitudine, che svela la gioia dopo le pene dell’attesa, è la poesia, la sacra poesia che la natura nasconde nelle umili sue creature. Noi questa poesia la gustiamo in tutta la primitiva sua ingenuità, perchè la

sentiamo sgorgare da una fonte sincera, che non può essere avvelenata nè da bassi calcoli, nè da cupidi interessi. Tanto possiamo chiedere agli uomini?

  • * *

Di questa fedele creatura, che sì poco posto occupava, ma tanto spazi’o riempiva, rimane solo una piccola fotografia che ancora la delinea in tutta la sua bellezza e vivacità. Povero Pin! Tanto lieto di vivere, nello stupore che l’avvolgeva non intese la morte; sì poco occorreva per spegnere quello spirito battagliero che aveva dato tutti i suoi guizzi, quel cuoricino che aveva profuso tutti i suoi tesori! Nè sembri leggerezza, nell’ora grave che attraversiamo, questo cenno che lo ricorda; non ancora abbiamo imparato, davanti alle atrocità che sconvolgono il mondo, a disprezzare le umili creature che insegnano all’uomo la bontà ed il dovere. Questo forse pensava il celebre ammiraglio Andrea Doria, facendo seppellire il suo cane fedele appià. della colossale statua di Giove, che sorge su di un’altura di fronte al porto di Genova. Un’iscrizione dice: «Quì giace il gran Roedano, cane del principe Andrea Doria, il quale. per la molta sua fede e benevolenza, fu meritevole di questa memoria, e perchè servì in vita si grandemente ad ambedue le leggi, fu anco giudicato in morte doversi collocare il suo cenere appresso del sommo Giove, come veramente degno della reale custodia o. Il povero Pin ebbe più modesta sorte come meno illustre destino, ma anche per lui sorvive il ricordo delle cavalleresche gesta e della fedele dedizione. Non si potrebbe forse di lui dire che non visse invano?

MYRIAM CORNELIO MASSA. Milano, dicembre 1915.

(*) SANTRZMO L’è bella sta cittaa in mezz ai fior, Col so beli mar, beli ciel e bella gent; Ma con sta guerra che ne fa terròr Anca Sanremo, e come! ne risent. La partecipa an lee di nost dolor! Gh’è poca vita e pu divertiment; La par malada, l’ha perduu.i color. Fina i palmizi paren tutt piangent. Saraa i Alberghi e pu de forestee La tira là ona vita on poo stentarla Anca perchè ben pocch còr el dance. Ah che peccaa, vedella trascurada Sta spiaggia deliziosa, semper calda, Perchè dal sól, basada e ribasada. FEDERICO HUSSi (*) Il nostro sonettista si trova a Sanremo per motivi di salute, ove vi passerà tutto l’inverno.

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-20* -** -*• -** [p. 360 modifica]PER I PIU PICCINI

NATALE 1915

DIALOGO

EMMA E’ inutile; quest’anno non ne ho voglia! Non mi par nemmeno che sia Natale!... Come si può pensare al divertimento, mentre tanti e tanti soffrono e muoiono?... BIANCA Quasi quasi ti dò ragione, sorellinal... Natale!... La dolce festa dell’amore e della pace Che ironia pronunziar queste parole, mentre sul mondo infurianó l’odio e la guerral... EMMA Gli altri anni il Natale radunava intorno al focolare domestico i cari lontani: padri, mariti, fratelli, figlioli, che le necessità della vita tenevan lontani da casa, viaggiavano anche una giornata intera, pur di trovarsi in famiglia nella sera benedetta che precede il Natale; pur di ascoltare la Messa di mezzanotte nella chiesa consueta... E meglio se la cara chiesina era quella del villaggio nativo, perduta nella vasta pianura, o arrampicata sul monte, fra i boschi, in mezzo alla neve... La campana li chiamava giocondamente„. BIANCA Altro che campane, quest’anno, cara mial... Rombo di cannoni, scoppio di granate, crepitìo di fucili... In ogni casa c’è un’ansietà, se non c’è un lutto! Chi ha i suoi cari nelle gelide trincee, dove le membra si assiderano; chi li sa languenti negli ospedali; chi li piange morti.... EMMA E i dispersi?... Non pensi tu a questa terribile parola: «disperso?». La madre che ha la sventura di saper caduto sul campo un figlio, lo affida al Signore; se è malato o ferito, sa che c’è chi lo cura amorosamente; se è prigioniero, spera di rivederlo a guerra finita... Ma se è disperso!... Non saper nulla di nulla! Pensare che forse è morto in una gola di monte, in un burrone, senza un conforto,- senza una parola amical... BIANCA Taci, taci!... Mi si stringe il cuore!... Eppure il nostro Parroco diceva l’altro giorno che da tutto questo male Iddio deve ritrarre qualche gran bene!... Come?... Lo sa Lui solo... ma è impossibile che Egli, misericordia infinita, mandi il flagello senza pensare al sollievo!... EMMA M’hanno fatto imparare a scuola una sentenza del Manzoni, che combina perfettamente con quel che tu dici: «Iddio non turba mai la gioia de’ suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande». BIANCA E allora perchè disperare?.... Se ci sorregge la certezza che Dio ci aiuterà, che unirà tutti questi dolori

a quelli ch’Egli soffrì sulla Cgoce per la salvezza del mondo, siamo più coraggiose e più serene!... EMMA E festeggiamo il Natale!... Non con divertimenti chiassosi, ma con qualche opera buona... BIANCA l’Albero di Natale pei bambini poveri, Vogliamo far che hanno il babbo alla guerra? EMMA Lascia stare L’albero!... Moda tedesca, che noi abbiamo adottata per la solita smania di scimmiottare quel che si fa oltre le Alpi!... Che c’entra, in verità, un albero con la nascita di Gesù?... BIANCA E allora facciamo il Presepio! EMMA Certamente, il Presepio!... quello è proprio di oriSan Francesco lo fece per primo nelgine italiana’ la chiesa di Greccio, fra i monti dell’Umbria; perciò il Presepio, oltre parlarci del Signore, ci parla del Poverello d’Assisi, il santo dell’amore e della pace; quello che, con la sua intercessione, può far sì che.Dio renda al mondo questi due immensi beni, che ora sembra siano volati via... BIANCA Facciamo dunque il Presepio, per festeggiare il Natale e inchiniamoci tutti davanti al Santo Bambino, implorando da Lui la vittoria per le nostre armi, la pace su la terra intera, l’amore fra tutti gli uomini di buona volontà! SILVIA ALBERTONI - TAGLIAVINI.

Tra i feriti

Quel pomeriggio cominciava il mio turno di visitatrice in un Ospedale di feriti. Indossai trepidante la divisa dalla rossa Croce che fiammeggia sul petto e sulla fronte e mi avviai. Confesso che il cuore mi batteva forte: mi sarei finalmente trovata vicina a quegli oscuri eroi, che da mesi combattono sulle Alpi nevose, irrorandole del loro sangue generoso e strappando al nemico palmo a palmo quella terra che fu già nostra, che deve esserlo ancora e sempre. Ricordavo i mille episodi di valore quasi sovrumano che aveva letto sui giornali, o udito raccontare, provando un senso di pena e d’orgoglio difficile a esprimere; quante volte non avevo sentito gli occhi pieni di lagrime e l’anima in tumulto a quelle epiche narrazioni! Li avrei alfine veduti quei forti e gloriosi soldati d’Italia, che tutto il mondo civile onora, ma non baldanzosi come alla partenza, sibbene con le sacre stigmate del dolore, che me li rendeva ancor più degni di ammirazione. Così, assorta ne’ miei pensieri, mi avvicinavo all’Ospedale, quando mi scosse una vocina infantile che diceva: «Oh, mamma, guarda la Madonna!». Era un bimbo di forse quattro anni che colpito dal [p. 361 modifica]mio costume mi scambiava per l’Augusta Regina del Cielo. Tutti risero, ed io per la prima, ma sentii in cuore una gran dolcezza: oh, avessi davvero potuto degnamente rappresentare al letto di quei feriti la Celeste Consolatrice! Una preghiera, un voto mi sgorgò dall’anima, e fiduciosa entrai nelle bianche corsie, che accolgono tanti dolori.

La prima impressione è meno penosa di quanto si potrebbe temere: gli occhi che vi guardano sono vivaci, le labbra sorridenti, il volto non tradisce l’interno affanno, ma esprime piuttosto la fiducia nella guarigione e il nobile orgoglio di aver compiuto il proprio dovere. Non si vantano di aver fatto grandi cose; raccontano con molta semplicità come siano stati feriti; a quali combattimenti abbiano preso parte; da quanti mesi si trovassero al fronte e come sperino di ritornarvi ancora presto. — Come state? chiedo ad uno. — Bene, mi risponde con mia sorpresa; — ma dove siete ferito? — Alle ginocchia; una granata mi ha spezzato l’osso dell’articolazione; ne avrò per tre o quattro mesi. E diceva di star bene! Un giovane volontario diciottenne -- un viso• di fanciulla — mi confida: Se potessi alzarmi, sarei felice; sono ottanta giorni che mi trovo a letto; la ferita non si chiude e il medico non vuole che mi strapazzi; ma mi pare che se potessi passeggiare un po’ anch’io come gli altri, sarei bell’e guarito. Un altro, un richiamato, che aveva il ritratto della moglie e dei figli di fianco al suo letto e di tanto in tanto lo guardava con amorosa compiacenza, si doleva seriamente di essere condannato all’inazione, quando era così vivo ancora in lui il desiderio di combattere per la patria. Questo era un eroe, un alpino, che aveva preso parte ai primi combattimenti nel Cadore, e al fatidico grido: «Avanti Savoia!» aveva guidato la sua compagnia alla vittoria, contro un nemico assai numeroso; questo episodio gli era rimasto tanto impresso nell’anima, che al momento di estrargli un proiettile dalla gamba ferita, egli, sotto l’azione del cloroformio, aveva ancora gridato: Avanti Savoia! con grande commozione dei medici che l’assistevano. Ripeto che sopra tutto m’impressionava la loro semplicità; se anche si fossero compiaciuti e vantati di quanto avevano fatto, chi avrebbe osato meravigliarsene? Ma no, bisognava ch’io strappassi loro di bocca le parole: pareva quasi si vergognassero di parlare di sè. E quanto non avevano da raccontare! Uno era rimasto sei ore supino sulla neve, con una spalla fracassata, senza poter sollevare il capo per non essere colpito nuovamente, e quando alfine gl’infermieri avevano potuto raccoglierlo per portarlo all’ospedaletto da campo, s’accorsero che aveva i piedi congelati. Un giovinetto ventenne aveva ricevuto dieci ferite;

quando lo vidi la prima volta era cereo, esangue. Una gentile infermiera gli faceva sorseggiare qualche cucchiaio di brodo; non aveva neppur la forza di sollevare il capo dal guanciale. Ma quali risorse non ha la gioventù! Una settimana dopo gustava da solo la scodella di minestra e l’ala di pollo che la Suora gli porgeva.

Se volete vedere un lampo di gioia illuminare quei pallidi visi, chiedete loro del paese nativo e della famiglia che vi hanno lasciato, e che sperano di rivedere presto. Di dove siete? Sono zenese, risponde con dolce accento. -- Oh, quanto bella la vostra città! Ed egli annuisce modestamente, quasi quella bellezza fosse merito SUO.

Avete famiglia? Oh, sì; ci ho moglie e due bimbi; vedesse quanto sono belli, non fo per vantarmi il ragazzo è quasi alto come me. Possibile? Quanti anni ha? Ha già sette anni! Potessi far Natale a casa, sarei l’uomo più felice della terra. Non sarebbe possibile? chiedo io con voce commossa. — Ma che! Ho le due gambe spezzate, risponde col tono più naturale del mondo.

Le corsie non sono tristi: di fianco a ogni letto fiori, bandierine, ritratti, medaglie, fazzolettini variopinti e altre cosucce. Nelle corsie s’aggirano le infermiere volontarie, eleganti e graziose nel bianco costume, fregiato dello stemma della città, o del rosso emblema che le fa crociate dell’era.novella. Le dame visitatrici passano di letto in letto con soavi parole di conforto, e sorrisi materni, e piccoli doni, assai graditi da quegli eroi dall’anima fanciullesca. Cartoline illustrate, sigarette, caramelle, oggettini di toeletta, libri, giornali... tutto viene accolto con gioia e con riconoscenza. Oh, questo mi piace! Grazie, signora; lo conserverò per sua memoria, dice uno. E un altro: Non dimenticherò mai le signore milanesi, che mi hanno usato tante cortesie. — E un altro ancora: — Come sono buone queste signorine! Ci trattano proprio come fratelli; ci rifanno il letto; ci tengono’ compagnia, ci imboccano come uccelletti oliando non possiamo mangiare da soli; non avrei n• ai creduto di trovarmi così bene in un ospedale. Quanta dolcezza non scende in core a tali parole! L’Italia può ben esclamare col suo poeta: In mezzo al sangue de la mia ghirlanda Crescon le rose. dicembre 1915. MARY CAPPELLO. [p. 362 modifica]LA VITTORIA DEL BENE

«Oh nostalgia, Gesù del Tuo Natale! Quante notti a sentir l’hanno coloro Che sono in veglia d’armi aspra e ferale!». ( «La Vittoria del Bene» - Romito di Monte Vibiano ). (*)

Dacchè mondo à. mondo, il bene e il male son sempre stati in urto fra di loro. L’angelo della luce, ha sempre dovuto cozzare le bianche ali purissime contro le ali nere e vischiose dell’angelo delle tenebre! Non sempre ne uscì vittorioso; lo spirito malefico che agisce nell’ombra, che sa tutte le insidie, che,uazza fra le più sordide bassure, non è mai sazio di scavare rovine, di seminare l’odio e la discordia fra le razze umane... Odio millenario, che sorge tratto tratto, cruento e micidiale: rancore sordo ed inafferrabile, rivelantesi nei tempi di pace insidiosamente, nascostamente, sotto mille forme perverse e cupide, imperando sui fragili spiriti umani, trascinandoli al male, all’ignominia, alla perdita di ogni fede e di ogri ideale.... Ma l’angelo del Bene veglia e se talvolta sembra vinto ed umiliato, sempre alfine risorge portanto più alta la fiaccola della verità e della luce. Egli lavora, lavora: ricostruisce sulle rovine, fa crescere e sbocciare dal lezzo dei letamai dei fiori smaglianti ed odorosi: fa sorgere santi ed eroi fra la moltitudine traviata e perversa; fa nascere l’amore accanto all’odio, la pietà accanto alla ferocia, la lealtà di fronte all’inganno vile e traditore. L’odio di razza è, pur troppo, fra i più tremendi e i più difficili a svellersi: troppo antiche le cause, troppi i fattori che lo fomentano e lo mantengono vivo. Ne abbiamo l’esempio tragico ed epico nella spaventosa guerra odierna che fa rosseggiare i monti ed i piani di tanto generoso sangue innocente; vera guerra mondiale, immane conflitto di razze e di mentalità opposte, rivelanti chiaramente finalità estremamente diverse, di conquiste, di feroce predominio nella razza teutonica, di difesa leale e civile nella razza latina! Ancora e sempre, il Bene ed il Male cozzanti fra di loro, nell’urto millenario, feroce, spaventoso, senza quartiere A chi la vittoria? Noi latini, combattenti per la più aspra e la più nobile causa di difesa e di conquista di naturali confini, per l’amor di fratelli oppressi, per la fraternità di popoli vinti ed eroici, potremmo forse dubitare? Chiediamolo al. Cielo: «Di tante guerre immani, chi vincerà nell’urto intenso, e rio» Risponde il Ciel: Chi con più diritti umani domanderà la sua vittoria a Dio!». Mai prima d’ora però, erasi consumato un sacrificio più cruento e sanguinoso sull’ara della patria; mai era occorsa tanta bravura e tanta tenace resistenza, mai sprezzo più grande e sublime della propria vita! I nostri prodi d’oggi, i nostri figli, diverranno i

martiri venerati della terza Italia, segnacoli di nuove glorie e di immortali vittorie. Essi staranno là, nella limpida luce della gloria italica, come fari tulgenti, come lampade votive intorno all’altare della patria. Le età venture udranno commosse il racconto della vittoria latina, della vittoria del bene contro il male: esse ascolteranno trepide e stupite la storia eroica dei nuovi e giusti confini rivendicati; le barbarie sofferte; gli odiosi mezzi di combattimento, le difficoltà enormi vinte e che parevano inespugnabili. E da questa somma di sacrifici e di lagrime trarranno incitamento e sprone alla virtù ed all’onore. Ma ecco ciò che fa d’uopo preparare fin d’ora: Le madri, le sorelle, gli educatori devono sentire la divina missione che loro incombe di far germogliare accanto al fiore della gratitudine, il seme divino della bontà, della purezza e della fede. Quando l’Italia uscirà, e Dio lo voglia presto, vincitrice da questa ora tremenda, bisogna che i suoi figli ne escano purificati e migliori; bisogna che costumi più puri subentrino a fatali errori; che l’onestà rifulga colla verità e colla luce, e che in ogni anima si sia riaccesa la fiamma viva e santa di una virile e cosciente religiosità spirituale. Allora potremo cantare come il Romito di Monte Vibiano, nei suoi splendidi versi (la «Vittoria del Bene»). Vittoria dovuta non solo al valore delle armi, ma alla guerra fatta al male, guerra senza quartiere a quanto di vile e di immondo ammorba le nostre vite. «Oh Italia, arrida Iddio a la tua pace, per la fiamma lenta e pe ’l vivo olocausto del cuor mio! Di patria e fè sull’ara non si allenta l’ostia e la prece: Mille e mille cuori ardon col mio: mentre a pugnar s’avventa su l’Alpe, anche nel gelo infra i rigori. dei Romani la stirpe gloriosa, ed è fiamma la Croce ai patrii ardori. -Già l’alba ai cuor s’irradia luminosa. si consacra la coppa del valore,. sopra l’ara di sangue rugiadosa. O cuore delle madri, o dolce cuore, il calice sii tu de l’olocausto che l’arsura converta del dolore di gloria e pace in un preludio fausto!»,

  • * *

«Ascolta, ascolta o terra, il divin nunzio che rivien dal cielo!» Tornino i cuori alla luce, alla fede! Il Fanciullo Divino è venuto sulla terra apportatore di pace. Egli ci ha insegnato l’amore, ci ha ingiunto di chiamarci fratelli; insegnò nelle reggie e nei tuguri la carità fraterna, la dolcezza, il perdono. Lo compresero e lo adorarono gli umili e i potenti: npn sapremo forse più comprenderlo ed adorarlo noi, gente moderna? Scorderemo anche per un istante che Dio solo sa trarre la pace dalla guerra, e la vita dalla morte? No, in alto l’anima e i cuori: sappiamo essere forti, [p. 363 modifica]sappiamo esserlo per noi, pei nostri cari in guerra: facciamo si che questo Natale diventi segnacolo di nuova vita spirituale in noi e intorno a noi - che qualcosa resti a monito futuro, a conforto di chi soffre, di chi piange e spera. Diamo amore e amore, a tutti, amici e nemici e ricordiamo col poeta che, malgrado lo strazio e le ansie presenti, malgrado l’orrore che ci circonda noi dobbiamo sperare nella vittoria del bene: poichè:

V’è luce che brilla anche ne l’ombre: che se annotta, consola e lieti al giorno riconduce: E vien da Betlem, da la santa Grotta!» CAROLA COGGIOLA. Dicembre, 1915. N. B. — I versi citati in questo articolo sono stralciati da una magnifica raccolta di liriche: «La Vittoria del Bene», del Romito di Monte Vibiano, che ha pure una bella prefazione del prof. A. Ferraris. L’eminente scrittore scrisse a scopo di bene: il suo volume si rilascia pure, pro soldati, inviando lana per L. 2,50, prezzo del libro, al prof. A. Ferraris, Garessio 4Cuneo). E’ un’opera buona, e serve benissimo di strenna gentile e gradita. Essa procura inoltre all’anima un vero senso di pace e di cristiana serenità, mentre è per lo spirito uno squisito godimento intellettuale.

Un sonetto a rime obbligate.

Nell’antica Pieve di Agliate. in Brianza, fin dal Marzo 1693, venne istituito un pio Consorzio di venti parroci, sotto gli auspici della Madonna del Rosario, per celebrare, ogni biennio, in una delle parocchie per turno, un ufficio funebre con Messa, in suffragio dei defunti confratelli, come nel frattempo, venendo a mancare qualcuno, si celebra la trigesima alla parrocchia del defunto parroco. A tale consorzio apartennero distintissimi sacerdoti, che passarono poi a più alti posti: si ricordano S. Ecc. Mons. Giovanni Corti, Vescovo di Mantova, già Prevostp di Besana; Mons. Gamberoni, ora Vescovo di Chiavari, già Prevosto di Carate Brianza; ed ora n’è Presidente Cancelliere Mons. Cav. Corbella, Canonico di S. Ambrogio in Milano, già Prevosto della Basilica di Agliate, della quale promosse il richiamo nel primitivo stile e scrisse una dotta Monografia. L’Ufficio funebre quest’anno ebbe luogo, il 12 Ottobre, nella Chiesa di Agliate. All’agape fraterna, tenutasi in seguito nella casa del Preposto Parroco locale, insieme ai Colleghi del Consorzio, intervenne, come sempre, anche l’ottuagenario Mons. Corbella, notissimo improvvisatore di sonetti a rime obbligate. Prendendosi occasione dell’attuale guerra europea, che coinvolge anche l’Italia, i presenti vollero tentare l’estro di Monsignore, sebbene non incoraggiassero a farlo lé condide nevi che coronano la fronte di Monsignore.

Gli applausi che accompagnarono il sonetto, declamato con giovanile energia, fatto ripetere, mostrano chiaramente che l’aspettativa non fu defraudata. Ecco il sonetto improvvisato, sulle rime date dagli astanti:

LA GUERRA

Pace, gridò il Petrarca, non la guerra! Pur canterò!... Oh, che sia augurio a Italia, Alla nostra nativa ed alma Terra Che i feroci del Nord s’ebbero a balìa. Ma, ormai... evviva! Dal suo sen disserra Sovrumano valor che tutti ammalia: E il focoso destrier la zampa sferra Sì che il nemico sa quant’essa valia. Oh, chi da gesto tal non è colpito, Pur desiando l’onorata pace; Ma pace vera, che non sia un mito! E allor scotendo intorno viva face, Plaudendo al nostro eroe morto o ferito, Fratelli! avremo gioia non fallace.... N.1

Ancora della riforma della Piazza del Duomo

Con questo titolo — La Riforma della piazza del Duomo — venne pubblicato un articolo nel numero di Natale del Buon Cuore dell’anno 1901. In quell’articolo facevasi la proposta di un radicale mutamento della planimetria della piazza del Duomo. Si proponeva che la piazza del Duomo, che ora ha la forma convessa, dovesse assumere la forma leggermente concava. La ragione di questo mutamento è semplicissima. Il Duomo venne fatto per la piazza, o è la piazza che venne fatta pel Duomo? Tutti rispondono: è la piazza che venne fatta pel Duomo; la piazza venne fatta per dar risalto al Duomo; per fare che il Duomo apparisse e si vedesse meglio. Fu raggiunto lo scopo? Per restare convinti del contrario, basta mettersi in fondo alla piazza e di là guardare il Duomo. Si vede bene il Duomo? Si vede una parte sola della facciata del Duomo, la parte superiore: la parte inferiore non si vede affatto: la scalinata, che è pure una parte del Duomo destinata a dare maggiore risalto alla grande mole, è del tutto nascosta; come non si vede, in tutta la sua lunghezza orizzontale, il basamento del Duomo, l’opera tanto ammirata dell’architetto Pellegrini. Contraddizione stridente! La piazza del Duomo venne fatta per far meglio vedere il Duomo, e, così come è fatta, non lo fa vedere, o lo fa vedere male. E sarebbe tanto facile rimediare allo sconcio! Alla forma convessa, che ora ha la piazza, basterebbe sostituire la forma concava. [p. 364 modifica]lasci pure, così come è, il Monumento a Vittorio Emanuele, evitando molte e gravi questioni artistiche e finanziarie: limitiamoci alla planimetria intorno al monumento: la parte concava dovrebbe incominciare, ai piedi ed all’intorno del Monumento, risalendo in lieve pendio verso l’estremità circolare della piazza, fino al rialzo sul quale corrono i binari del Tram. Con quali conseguenze? Con due conseguenze, che appaiono subito all’evidenza, di immenso vantaggio alla piazza e insieme al Duomo. Ponendosi in fonda alla piazza, e guardando la facciata del Duomo, abbassato il rialzo che ne impedisce la vista, la facciata si vedrebbe tutta dalla base alla cima, abbracciando insieme coll’occhio anche la lunga e maestosa scalinata, che pur tanto contribuisce e deve alla facciata grazia e maestà. Non resterebbe esclusa dalla "visuale che la parte intercettata dal monumento di Vittorio Emanuele 11, parte limitata pur nella sua grandezza. Una seconda conseguenza non meno importante. La piazza del Duomo è abbellita da un giardino piantumato a fiori e con tappeti verdi, diviso in quattro spicchi, che ora salgono all’ingiro dal fondo della piazza verso il monumento. Per effetto del rialzo del terreno, a forma convessa, non si può vedere che uno spicchio solo per volta, impedendosi a vicenda di vedersi fra loro simultaneamente: il giardino, complessivamente è grande, all’occhio appar piccolo, perchè non se ne vede che una quarta parte sola. Si abbassi il livello del terreno a forma concava intorno al monumento., Che dolce sorpresa, che bellezza! Il giardino, ne’ suoi quattro spicchi, si vede, dall’alto al basso, tutto in un colpo solo, ad eccezione della parte nascosta dal monumento; il giardino si vedrebbe in tutta la sua totalità, colla copia variata de’ suoi fiori, e colla bellezza de’ loro contrasti. Un’ultima conseguenza che acquista grande importanza in vista di un nuovo progetto ora ventilato, è la brevità maggiore di viabilità pei cittadini che, attraversando la piazza del Duomo, dalla via Torino, verso il Corso Vittorio Emanuele e dalla via Mercanti vanno verso la via Arcivescovado, e viceversa, mentre ora questo tragitto non può compiersi che facendo un lungo giro, costeggiando il binario dei tram, o salendo la collinetta sulla quale sorge il monumento, con scomodo delle persone e perdita di tempo. Alla pubblicazione dell’articolo sul Buon Cuore fatta la prima volta, la più grata sorpresa colpì tutti i negozianti che colle loro botteghe stanno intorno alla piazza del Duomo: vedevano a un tratto tutte le botteghe che stanno loro di fronte dalla parte opposta della piazza, con di più il grandioso spettacolo del giardino, che in graziosa conca si presentava loro dinnanzi. Molti biglietti di visita e di congratulazione ci furono allora inviati dai negozianti e dagli abitanti della piazza. Ma perchè, ci si disse, non avete parlato prima? Perchè non avete fatto conoscere prima questo mo do speciale di vedere? Così bello, poteva essere il preferito. Adesso la cosa è fatta: cosa fatta capo ha. Perchè non ho parlato prima? Perchè prima non sapevo che cosa si facesse. Era stato eretto in mezzo della piazza un grande assito, che nascondeva all’occhio dei profani quanto si andava facendo nell’interno: si sapeva che si stava lavorando per mettere a posto in modo conveniente il monumento; si sapeva che il monumento del Rosa era bello, che aveva ottenuto la palma del trionfo in un pubblico concorso; si sapeva che il monumento collocato in mezzo alla piazza del Duomo doveva riuscire il coronamento di un’opera da molto tempo desiderata e aspettata: Duomo.... Rosa.... monumento equestre del padre della Patria... piazza del Duomo... elementi tutti si riunivano a formare un oggetto solo e grande, formato nella immaginazione dalla grandezza di tutti... Finalmente l’assito che copre il gran mistero si scopre; che appare? Spavento, misericordia! La piazza del Duomo non c’è,. più: al suo posto vi è una collinetta che toglie la prospettiva della piazza da tutti i lati: il monumento che, veduto al basso nello studio dello scultore, era apparso una meraviglia di imponenza e di finitezza, collocato così in alto, perdeva tutto il pregio specialmente dei dettagli; la sommità del monumento andava a confondersi coi comignoli del tetto delle case; veduto poi, venendo in piazza dalla via dei Mercanti, le quattro gambe del cavallo si incrociano in modo così disgraziato da parere tre, dando l’impressione di mancanza di equilibrio; insomma per più ragioni l’opera era riuscita una vera impresa mancata, una stonatura, una sconciatura; e una sconciatura pur troppo permanente, perchè come nutrire lusinga che, pur con tante ragioni di mutamento, si volesse mutare? Una circostanza nuova, che abbiamo conosciuto in questi giorni, ci permette, anzi ci invita a mettere il quesito ancora sul tappeto. Da fonte degna della maggiore attendibilità, siamo stati assicurati che nell’ufficio tecnico municipale si va studiando il progetto di costruire una via sotterranea sotto la piazza del Duomo, che riunisca in linea retta, la via Torino e il corso Vittorio Emanuele Il, la via Mercanti e la via Arcivescovado, e ciò allo scopo di rendere più breve, e comoda la viabilità ai cittadini. Benissimo: ma è un ripiego per togliere un errore: non si potrebbe addirittura, e con minor spesa, togliere l’errore? La costruzione del tunnel, ignoriamo la spesa, ma, per l’estrazione della terra e l’armatura della volta, deve importare una spesa ben grave; certo magpiore della spesa richiesta per la semplice rimozione della terra per dare alla piazza la forma concava: la forma concava darebbe alla piazza la ricercata via più breve, ma una via all’aperto, in mezzo ai fiori del giardino: si avrebbe il vantaggio del tunnel. senza lo sconcio e la spesa del tunnel. [p. 365 modifica]Concludiamo: il tunnel è un ripiego, uno sconcio, e porta una spesa grave: il far la piazza concava porta una spesa molto minore, e darebbe a Milano una vera e nuova bellezza, tanto più bella perchè inaspettata; bella la piazza di giorno, più bella di notte, per lo sfolgorio delle luci riflettentesi come in una conca fiorita; e specialmente più bello il Duomo, scopo primo per cui si è fatto la piazza. Io gusto il progetto solo col pensarlo: quanto più quando lo vedessi attuato! Perchè, attuandolo, non si vorrà rendere questa gioia comune a tutti? L. VITALI.

L’Ospedale Maggiore di Milano e le sue destinazioni.

La questione dell’Ospedale Maggiore è antica in Milano. E’ una vexata queustio. Due elementi si riuniscono in perfetto contrasto: la bellezza artistica della costruzione, che risale a una delle epoche più gloriose della nostra città, al principio del dominio di Francesco Sforza, e la insufficienza materiale dei locali per accogliervi tutti gli ammalati che hanno diritto ad esservi ricoverati. L’elemento della grandiosità era però il predominante nella mente dei cittadini: era un elemento perpetuamente visibile agli occhi di tutti, mentre il numero eccedente degli ammalati veniva fatto conoscere solo dalle cronache dei giornali, e da chi, per ragione di ufficio o di bisogno, ne frequentava le sale. L’Ospedale Maggiore è una gloria di Milano, era l’etichetta colla quale i milanesi, con un senso di intima ed aperta soddisfazione, caratterizzavano l’Ospedale Maggiore. Con qual senso di dolorosa sorpresa, e quasi di sdegnosa offesa fummo colpiti quando, alcuni anni or sono, venuto in ispezione governativa a Milano una notabilità medica, il dott. Pacchiotti di Torino, dopo una visita dell’Ospedale, uscì in quella frase scultoria, senza possibilità di replica: l’Ospedale Maggiore di Milano è l’obbrobrio di Milano! Quella frase si inflisse come un marchio di ferro rovente. nelle carni vive di Milano: la questione dell’Ospedale, che si trascinava in modo cronico da molti anni, anche per altre ragioni, divenne da quel momento questione urgente, Noioso ed inutile sarebbe il richiamare tutte le fasi per le quali passò, senza venire risolta, la questione dell’Ospedale; la lite giuridica tra l’Amministrazione dell’Ospedale e i Comuni Forensi dell’antico Ducato di Milano sul diritto di accettazione; la questione amministrativa sul riparto delle spese per la degenza degli ammalati; ed a quale delle autorità superiori governative appartenesse l’obbligo di provvedere alle grosse deficienze che si facevano nel bilancio, prospettando in doloroso avvenire anche la possibilità del fallimento, malgrado l’affluire incessante, meraviglioso, della privata beneficenza. La conclusione ultima però era una sola: così non si può più andare avanti.

Due punti acquisiti per effetto delle lunghe discussioni, erano i seguenti: l’Ospedale Maggiore, che all’epoca della costruzione trovavasi alla periferia della città. per ragioni di igiene dovrebbe riportarsi ancora alla periferia, e il fabbricato attuale adibirlo ad uso di altra grandiosa opera cittadina; o conservato ancora ad ospedale, sfollarlo notevolmente così da renderlo abitazione umana e confortatrice. Ad ogni modo però, qualunque conclusione si prenda, una conclusione artistica si impone: la costruzione architettonica, deturpata nel corso dei secoli, da modificazioni e da aggiunte, suggerite e imposte dai bisogni, richiamarla alle sue linee primitive, od almeno ad una condizione di dignità artistica.

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A questo punto, per rialzare nel concetto di tutti° quale grande opera, nel suo complesso architettonica, sia l’Ospedale Maggiore, ed anche per vedere in giusta prospettiva, quanto in un illuminato ristauro debba essere tolto o conservato, diventa indispensabile una breve monografia dell’Ospedale. I cenni che riportiamo. sono tolti dal libro La Beneficenza in Milano, da noi pubblicato nel 1881. «L’Ospedale Maggiore venne fondato nel 1456 dal Duca Francesco Sforza, che, volendo fare una cospicua elargizione a favore dei bisognosi, dei poveri e degli infermi, fece erigere un grande, solenne Ospedale, tanto solenne da esser degno del suo Ducale dominio, e di una tanta e tanto illustre città. Nel 4 aprile egli, accompagnato dalla sua moglie Bianca, e con grande intervento di clero e di popolo, ne pose la prima pietra. Il nuovo edificio venne ideato e C9strutto dal valente architetto e scultore Antonio Averlino, detto Filarete, di Firenze, autore anche della porta di bronzo della Chiesa di S. Pietro in Roma. Volle il Duca che l’edificio fosse dedicato alla Annunciazione della Vergine Maria, perchè nella sua festa, l’anno 1450, dopo l’assedio di Milano. aveva solennemente nel Duomo, ricevuto il possesso dello Stato dai Sindaci delle varie porte della città; e diede per stemma alla città la bianca colomba, che i pittori, quale simbolo dello Spirito Santo, sogliono dipingere insieme a Gabriele, che dice Ave. E qui vien bene un bella pagina che il distinto sedt-. tore d’arte Luigi Chirtani pose nel suo Capitolo -Milano monumentale, — edito nell’opera Mediolanum, pubblicata in quattro volumi dal yallardi nel 1881. In questa pagina il Chirtani, insieme al ricordo della forma data dall’Averlino all’Ospedale, è accennato anche in qual modo l’Ospedale dovrebbe essere rifatto. «Ad accogliere tante miserie l’Averlino ideava un fabbricato grandioso, a rettangolo, con facciata su tutti e quattro i lati, e tutto girato da un loggiato aperto, che doveva produrre il più magico effetto, e sopra il quale ricorrevano, in cesello di terrecotte, un grazioso ordine di finestre bifore, incorniciate di pam [p. 366 modifica]pini, popolati di puppi e di uccelli, e per finimento un cornicione di mattoni di bellissima invenzione. L’Averlino lasciò la fabbrica dopo nove anni, nel 1465, pressochè condatta a termine sulla facciata a destra, sul lato verso S. Nazaro, e su un tratto verso il Naviglio, e incominciata all’interno, dove nella prima crociera si ricevevano già i malati sin dall’anno 1464. Tutto il terzo di destra del grande Ospitale fu terminato continuando il suo disegno; e questo tratto è più che sufficiente per ammirare l’edificio quale fu ideato da quel grande architetto. Collocandosi di fronte alla facciata, sul terzo di destra, bisogna incominciare col supporre tolti i muri che ingombrano le arcate del piano terreno alzato sopra un elevato basamento di pietra d’Angera; bisogna figurarsi sostituito all’insulso frontone di mezzo un frontispizio centrale analogo a quello che si 4 vede sulla facciata verso il Naviglio, ignominiosamente mascherata da orride costruzioni. Con queste due semplici modificazioni si ha dinnanzi l’Ospitale Maggiore di Milano, ideato dall’Averlino. Allora basta osservare partitamente la poetica giocondità di quel loggiato aperto, l’eleganza degli ornati, la leggiadra originalità della fascia, la ricchezza del finimenta, le bifore, che sembrano vaghe cesellature, per dire che forse mai la carità pubblica ha pensato di accogliere con più confortante sorriso d’amore e di arte i disgraziati che la povertà obbliga a ricoverarsi in un Ospedale. «L’architettura nei quattro cortiletti minori risultanti dalla crociera della sala dei malati, assai meno ricca, non è meno vaga che sulla facciata, per la bellezza dei loggiati e degli archi che sembrano star su per virtù di qualche cosa di vivo che anima la materia, tanto sono aggraziati e leggiadri, malgrado le rozze colonne». A questi cenni del Chirtani facciamo seguire quelli che trovansi nel volume La Beneficenza in Milano, che in parte ripetono e in parte completano i cenni dati, presentando il fabbricato dell’Ospedale quale trovasi attualmente. Il Filarete aveva disegnata ’dapprima la pianta, quasi un enorme rettangolo di_ metri 238 per 95, con nove cortili e con una grande Chiesa alla Vergine Annunciata, che doveva giganteggiare nel mezzo della Corte centrale; ma per economia fu semplificato il disegno non solo, ma edificata altresì solamente la parte a destra. Questa parte forma un quadrato perfetto, diviso in quattro da due braccia che si incrociano, dal che ne venne il nome di crociera: nel centro si innalza una cupola che dà aria e luce alle sale. I portici della facciata erano formati da archi semicircolari, appoggiati sopra colonnette di sasso e chiusi solamente da cancelli, mentre oggi, come ricordò e deplorò il Chirtani, furono murati. Nel centro di questa fabbrica si vede il luogo ove doveva aprirsi la porta, che, mercè una scalinata, metteva alle crociere: sopra questa porta una lapide, ornata da un

tratto in bassorilievo del Duca Francesco, reca l’iscrizione: Franciscus Sfortia, Dux iiij O. M. P. Q. et ejus uxor Bianca Maria Vicecomes, qui Situm eadesque dederunt una cum mediolanensi populo, hoc hospitale posuere anno MCCCCLVI Ecco, per chi può desiderarla la traduzione. «Francesco Sforza, Quarto Duca, ottimo, grande e potente, e sua moglie Bianca Maria Visconti, che donarno il luogo e i palazzi, fondarono, insieme col popolo milanese, questo Ospedale l’anno 1456.» «Alla morte di Gian Pietdo Carcano, si dià incarico al celebre Architetto Richini, di concerto coll’architetto Mangoni, predispose un incroCiamento simile al primo, e costruì quel bellissimo cortile, nel quale si entra oggi dalla porta maggiore e che mette alla chiesuola eretta in forma di croce greca. Le tre porte sono di gusto secentista, barocco, e di questo stile sono pure le quattro statue dell’Angelo Gabriele, di Maria Annunciata, di S. Ambrogio e di S. Carlo, che si vedono ai lati. «Bramante, nome celebre nell’arte architettonica, aveva designato il portico a destra del cortile, davanti al comparto delle donne. Richini e Mangoni vi cambiarono solo i capitelli, e seguirono, nella nuova facciata il primiero stile coi lavori di terra cotta e colla forma delle finestre, ma lasciarono però chiaramente scorgere come le arti del disegno, che fiorivano al tempo del Bramante, fossero decadute, quando lavorava il Richini. Finalmente il braccio sinistro di questo grandioso edificio fu compiuto nel 1797, per il lascito del notaio Macchio in base al disegno che preesisteva fin dall’Agosto 1791 dell’Ingegnere Castelli, e la facciata riuscì disarmonica col resto, monotona e meschina».

Quale deve essere in futuro la destinazione del fabbricato dell’Ospedale? La risposta a questa domanna forma lo scopo e la parte principale del nostro articolo. Intanto venne già risolta una questione pregiudiziale. Dalle competenti autorità fu deliberata nella periferia della città la costruzione di un grande Ospedale per la popolazione di Milano. Resta quindi eliminato uno dei più grandi inconvenienti deplorati, l’eccedenza degli ammalati in rapporto alla capacità del locale. Il quesito generale viene di conseguenza a restringersi al quesito particolare: l’Ospedale così ridotto nel numero degli ammalati, deve conservarsi come ospedale, oppure, messi altrove anche gli ammalati che restano, l’Ospedale, libero completamente dai suoi antichi abitatori, l’Ospedale- deve devolversi, per l’uso futuro, a qualche important?, istituzione cittadina esistente o da crearsi? E’ poco più di un mese, che l’ing. Luigi Brioschi, [p. 367 modifica]nel giornale la Perseveranza mise innanzi la proposta che l’Ospedale Maggiore, interamente sgombro di ammalati, fosse convertito nella sede del Palazzo di Giustizia, del quale si ha pure urgente bisogno in Milano. La proposta, discussa nei giornali cittadini, venne portata in seno della Società Letteraria, presente il proponente, vivamente festeggiato per l’interesse da lui preso nel richiamare l’attenzione del pubblico sui più importanti problemi cittadini, ma il quesito rimase insoluto. In via incidentale, vennero proposte altre soluzioni, quella principalmente che il grande fabbricato dell’Ospedale servisse alla raccolta di biblioteche e di musei, ove il pubblico, con larga rappresentanza di tutti i cittadini, si desse convegno, convertito l’ampio cortile in giardino, rallegrato da fiori ed ombre discrete. Ma tutti questi progetti urtano in due grandi inconvenienti; rompono la solenne tradizione dell’Ospedale nella storia milanese, e difficilmente le nuove destinazioni troverebbero nei vecchi locali dell’Ospedale l’assetto convehiente: diventerebbero necessarie riforme, adattamenti, demolizioni, ricostruzioni, col pericolo di compromettere l’antica struttura dell’edilizio, riuscendo una costruzione di ripieghi, dove esiste una costruzione organica imponente, per linee decise ed eleganti. Esponiamo la nostra opinione, che formata al vaglio di tutti gli elementi che entrano nella questione, ci si presenta non solo preferibile, ma di necessità assoluta. L’Ospedale si conservi Ospedale; si liberi dalle eccedenze degli ammalati, che ne hanno gravemente compromesse le sorti igienicamente, e hanno obbligato ad allargamenti ed aggiunte, che deturparono la bellezza delle primitive linee architettoniche artistiche. Fu deliberata, come già si disse, la costruzione di un nuovo grande ospedale alla periferia di Milano; furono già votati i fondi per raggiungere lo scopo. Là si raccolgano tutti gli ammalati in eccedenza nell’Antico grande Ospedale; si abbia la cautela di allontanare dal centro malattie di carattere contagioso, come la tubercolosi; si raccolgano là tutti gli ammalati del contado, appartenenti all’antico Ducato di Milano, che per fondazione hanno diritto ad essere accolti nell’Ospedale di Milano, e si limiti l’accoglienza nell’antico Ospedale ai soli milanesi, con malattie di carattere non contagioso.. Di quanti vantaggi questa soluzione sarebbe apportatrice! Si conserverebbe l’antica tradizione milanesi, di trovare l’Ospedale Maggiore dove i nostri antenati l’hanno posto: nella vita di un popolo e di una città a conservarne il vigore morale e il senso della dignità qual parte grande hanno le tradizioni! L’Ospedale maggiore sarebbe ancora la Cà grande, nel centro di Milano, con maggior comodo dei citta

dini, subito accolti come ammalati, subito introdotti come visitatori degli ammalati. Un altro gravissimo riflesso obbliga a conservar l’Ospedale maggiore dov’è. Molti padiglioni isolati in appendice all’Ospedale vennero costruiti al di là del Naviglio; sono padiglioni completi e perfetti nelle loro unità: ma hanno bisogno di una base comune, che li alimenti e li tenga uniti: questa base, questa nutrice comune, è l’Ospedale. Saranno richieste nel seguito delle modificazioni nel fabbricato: non saranno alterazioni, saranno liberazioni di parte arbitrariamente aggiunte; si potrà tornare un passo per volta, alla purezza, alla bellezza dell’antica costruzione del Filarete, come augurava il Chirtani. E’ consuetudine introdotta fin dal 1464 di tramandare ai posteri la memoria dei pii benefattori dell’Ospedale coi ritratti che vengono esposti al pubblico, ogni anno dispari, e nella ricorrenza della festa patronale dell’Annunziata il 25 Marzo. La consuetudine venne regolatamente disciplinata nel 1810, nel senso che i ritratti dovessero essere di mezza figura•per i benefattori che avessero legato al Luogo Pio un importo al di sotto delle lire 100,000. Attualmente i ritratti sono quasi trecento, dei quali uno attribuito a Tiziano, ed è quello del benefattore Marco Antonio Rezzonico, morto il 22 Maggio 1584. Sono ritratti e- • seguiti dall’Alder, dal Salomone, dall’Abbiati, dal Porta Andrea, del Biondi, dell’Appiani, dell’Haiec, dal Sogni, dal Focosi, dal Pagliano, dal Bertini, dal Tallone. E’ una raccolta pregevole, e forse unica in Europa. Nella ricorrenza di questa esposizione di quadri, che dura otto giorni, i milanesi accorrono tutti, attratti specialmente dalla curiosità di vedere i quadri dei benefattori, morti negli ultimi tempi: dove trovare un locale tanto ampio da raccogliervi una così numerosa ed imponente collezione, sempre in aumento; e d’altra parte, se l’Ospedale venisse adibito ad altri usi, come potrebbe in modo omogeneo, conveniente, ospitare ancora la collezione? Tutto concorre quindi a far conservare, dove è, l’attuale fabbrica dell’Ospedale Maggiore. Anzi, un nuovo ornamento di decoro dovrebbe aggiungersi alla costruzione artistica, che sarebbe a un tempo di decoro a tutta la città. L’idea non è mia: è di un amico, distinto patrizio milanese, amante di belle arti, e ne farei il nome se non temessi di fargli dispiacere. Dinnanzi all’Ospedale dovrebbe aprirsi una gran via, che, partendo dal corso di Porta Romana, allargando la via degli Osti, demolite alcune case di fianco all’Ospedale, a S. Stefano e nel Verziere, andrebbe a finire dinanzi all’attuale Palazzo di Giustizia: sarebbe una magnifica via, in mezzo a Milano, che darebbe aria e condegna prospettiva ad uno dei più splendidi monumenti della città, che è l’attuale Ospedale Maggiore. Un progetto iniziale di questa via trovasi già forse nel piano regolatore della città. [p. 368 modifica]Terminiamo con un ultimo riflesso. Esiste in Milano una Società per la conservazione dei Monumenti: noi vorremmo che ne sorgesse un’altra per la liberazione déi monumenti: quanti monumenti esistono in Milano, seppelliti da malaugurate costruzioni, sicchè quasi sembra che non esistano, mentre potrebbero presentarsi splendidi, e crescere il patrimonio delle bellezze cittadine! Raggiungere questo scopo ha formato il sogno di una lunga parte della mia vita! Ne sarà prova una pubblicazione che spero non tarderà molto a comparire col titolo Divinazioni edilizie cittadine. Vagliami il lungo studio e il grande amore!». L. VITALI.

OPERA PIA CATENA (Per la cura di Salsomaggiore)

Signora Gambarana di Langosco contessa Giannina i) Carini Lombardi Gigia Ramazzotti Giudici Adele

IO.-10.--10.- Ramazzotti Carlotta Silva Candiani Luisa

10. -IO.

Cesati Riimmele Emilia

IO.-;

Silvestri Molteni Emilia Silvestri Ambrogia

10.-- 10. IO. 10.

Betlem contessa Ippolita ved. Frigerio Bernasconi Irene Bernasconi Camilla

)1

N. N. in memoria del Prevosto Catena Signor Riva Angelo (Socio perpetuo) Signora Marazza Carabelli Nina» Marazza Luisa ))

100. 100. 10. 20.

Comitato "PRO SOLDATI CIECHI„ Somma precedente L. 19121.50» 100.—

NOTIZIARIO

Le soprascarpe a gambale per i soldati Il lavoro per l’invio delle soprascarpe a gambale ai nostri soldati prosegue alacremente. Richieste di informazioni e descrizioni dettagliate sono pervenute numerose, e l’Unione femminile trovandosi nell’imposibilità di rispondere singolarmente, ha deciso di esporre in alcuni negozi della Città delle soprascarpe già confezionate, ottenendo Io scopo di far vedere così a tutti la possibilità di giudicare sull’opportunità dell’iniziativa. Il lavoro di confezione viene fatto nei locali dell’Unione Femminile da alcune signorine che hanno gentilmente offerta la loro opera. Per la parte chimica si è prestato e continua a lavorare il dottor Clavari della ditta Pirelli. Da parte del pubblico continuano a pervenire oblazioni specialmente da parte di signore, le quaUer,sve

50.200. Cav. Rovida per conto della Buona Stampa Parroco di Carpiano

25. 100,- Umberto Pestalozza

Comitato Milanese per la raccolta dei fondi per i bisogni • della guerra " 30000. Vincenzo Olginati )

Gianoli Maurilio 13 Dicembre

1)

Midler Conio e C. invece dei panettoni Santa Lucia

50.--1000.»

Rigo Pasqualina Coniugi Zoppi

500. 20. 10.»

Edoardo Ricci

200.»

1 00» 250.- -Carlo Torriani fu Antonio in memo.ria della compianta consorte 500.—

Soldini Salmoiraghi Emilia Antonietta Andreoni Morandi Marliani Carlo e Rosa

10.— 20.— 50.- Giuseppina e Marta Bina Hayez ricordando un mesto anniversario» 100. Cav. Ing. Antonio Spasciani 100. -Ippolita Prina Negroni 100.

L. 52906.50 o

RICHIESTA D’UNA CARROZZELLA Nell’Ospedale territoriale di Croce Rossa n. 9, presso l’Istituto dei Ciechi, sarebbe molto gradita una carrozzella ad uso di feriti e malati. In qualche casa, già visitata dalla sventura, esiste forse qualche carozzella, custodita come sacra memoria: donata allo scopo di carità per la patria, è forse il modo di meglio interpretare

OFFERTE Carlo e Clementina Mina

200. - Signorina Bice Benvenuti

aenefieenza

))

In memoria del cav. Enrico Bambergi N. N.

e soddisfare il desiderio della, cara persona che si rimpiange e si onora, benedetta e benedicente.

li hanno portato il totale a L. 857. Le oblazioni si ricevono alla sede dell’Unione Femminile, in corso Porta Uuova, 20.

Necrologio settimanale A Milano la Nobile Donna Erminia Prina ved. Menclozzi; la sig. Antonietta Mojana nata nobile Arrigoni; il Rag. Prof. Pasquale Bolter; lo scultore Comm. Buzzi-Gilberto Luigi. A Taranto il conte Ludovico Carduoci-Artenisio, Cavaliere del Sovrano Ordine di Malta. A Vicenza il cav. uff. Ernesto Oppizzi, sostituto procuratore generale di Cassazione a riposo. A Cannobio la sig. Valentina Baude ved. Giovanola.

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A Padova, la sig. Antonietta Zilli ved. Prosdocimi.

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