Il contrattempo/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Camera di Beatrice con tavoletta.
Beatrice alla tavoletta. Corallina che la serve.
Beatrice. Guarda un poco, Corallina, che ti pare di questi nei? Li ho io distribuiti bene?
Corallina. La distribuzione è bella e buona, ma la novità mi fa un poco di specie.
Beatrice. Qual novità? I nei non li ho mai portati?
Corallina. Sì signora, li avete portati quando viveva il padrone, ma dacchè siete vedova, quest’è la prima volta.
Beatrice. E una volta si doveva ricominciare.
Corallina. Non sono ancora tre mesi...
Beatrice. Basta così; dammi quel fiore color di rosa.
Corallina. Color di rosa?
Beatrice. Sì, quello che ieri mi ha comprato il signor Ottavio.
Corallina. (Già l’ho sempre detto, per causa del signor Ottavio si fa ridicola). (da sè; va a prendere il fiore)
Beatrice. Dice bene il signor Ottavio, il bruno mi fa attempata. Finalmente l’ho portato tre mesi, basta così; una vedova della mia età non si ha poi da sagrificare per complimento.
Corallina. Eccolo, signora. (le presenta il fiore)
Beatrice. È veramente grazioso. (prendendolo)
Corallina. Basta che l’abbia comprato il signor Ottavio.
Beatrice. Sì, il signor Ottavio è di buon gusto.
Corallina. Sarà. (stringendosi nelle spalle)
Beatrice. Ma che diavolo hai con questo galantuomo, che non lo puoi vedere?
Corallina. È vero, signora; non lo posso soffrire.
Beatrice. Qualche cosa ti averà fatto.
Corallina. Dal primo giorno che egli è venuto in questa casa, mi è sempre dispiaciuta la sua maniera.
Beatrice. Eppure è un uomo di spirito, parla bene, ha della civiltà.
Corallina. Civiltà poca.
Beatrice. Ma perchè dici questo?
Corallina. Domandatelo alla cuciniera.
Beatrice. E così?
Corallina. E così, quando Brighella lo ha condotto ad alloggiare in casa vostra (che piuttosto si fosse rotta una gamba), gli sono andata incontro, e gli ho fatto quelle onestà che al mio grado si convenivano; sapete che cosa ha detto a Brighella, in presenza della cuciniera? Colei non mi piace: è troppo dottora.
Beatrice. Ah, ah, ah. (ride) E per questo non lo puoi vedere? Via, via, non è niente.
Corallina. Pazienza! Sia maladetto Brighella.
Beatrice. Come c’entra Brighella?
Corallina. S’egli non l’avesse introdotto, non ci sarebbe.
Beatrice. Sono obbligata a Brighella, che mi ha fatto appigionare l’appartamento terreno.
Corallina. Oh sì, che non l’avereste appigionato a qualcheduno della città.
Beatrice. Niuno mi avrebbe dato due doppie al mese.
Corallina. Quante ne avete avute di queste doppie?
Beatrice. Sono due mesi ch’è qui; ho subito da domandar la pigione? Ho da mostrar di averne bisogno?
Corallina. Le pigioni si pagano avanti tratto. Ma so io perchè non paga.
Beatrice. Perchè?
Corallina. Perchè è uno spiantato maledetto, che non ha un soldo.
Beatrice. I fatti suoi non si sanno.
Corallina. Niuno li può sapere meglio di voi.
Beatrice. Io! Perchè?
Corallina. È un mese che gli date da mangiare a ufo.
Beatrice. Orsù, a te non tocca a entrare in ciò. O muta stile, o vattene di casa mia.
Corallina. Compatitemi; ho dell’amore per voi.
Beatrice. Picchiano. Va a vedere chi è.
Corallina. Oh signora padrona, pensateci bene.
Beatrice. Via, spicciati.
Corallina. Quando è fatta, è fatta.
Beatrice. Come? Che vorresti tu dire?
Corallina. Non vi mancheranno partiti.
Beatrice. Io non penso a rimaritarmi.
Corallina. Ne ho io per le mani...
Beatrice. Ma spicciati.
Corallina. Ma il signor Ottavio...
Beatrice. Va al diavolo.
Corallina. Non vi merita.
Beatrice. Ti do uno schiaffo.
Corallina. Vado, vado, pazienza. (mortificata s’incammina) Sì, è un ciuco di prima classe. (forte a Beatrice, poi parte)
SCENA II.
Beatrice sola.
Gran temeraria è costei! E vero che mi ama, e quel che dice procede da amore, ma è troppo insolente, non distingue i termini, le convenienze, il rispetto. Ottavio ha il suo gran merito. Voglio credere che in qualche occasione la sua franchezza gli abbia alquanto pregiudicato: ma finalmente la sua virtù lo farà risorgere. Se otterrà egli in Bologna un impiego che gli convenga, sarà facile ch’io condiscenda a sposarlo. Un anno solo m’obbliga il testamento alla vedovanza per conseguire il legato. Son passati tre mesi, passeranno anche gli altri nove.
SCENA III.
Brighella e la suddetta.
Brighella. Servitor umilissimo.
Beatrice. Oh Brighella, che vuol dire che son due giorni che non ti vedo?
Brighella. Ho avudo un poco da far, e adesso son qua a darghe una bona nova.
Beatrice. Toccante forse il signor Ottavio?
Brighella. Appunto, una bona nova de lu. S’ha trova un impiego, e el starà ben.
Beatrice. Davvero? Me ne rallegro. Che impiego ha egli ottenuto?
Brighella. El sarà primo ministro del negozio del sior Pantalon dei Bisognosi.
Beatrice. Ma come, se egli mi ha detto più volte, che di mercatura non se ne intende?
Brighella. Eh, che quella testa sa de tutto. L’è un omo pronto, no ghe manca chiachiare. Sior Pantalon l’ha sentido a parlar, e el s’ha incantà; el gh’ha scomenzà a infilzar suso trenta o quaranta termini mercantili con franchezza, con spirito, tanto che sior Pantalon s’ha voltà, e l’ha dito: oh che omo de garbo!
Beatrice. Non vorrei che egli si mettesse all’impegno, e poi restasse con vergogna.
Brighella. Eh via! No la ghe fazza sto torto. L’è un omo che sa de tutto, e po, quel che nol sa, l’è capace de impararlo in t’un batter d’occhio.
Beatrice. Come ha fatto a introdursi dal signor Pantalone?
Brighella. Mi l’ho introdotto. Ho savesto che el primo zovene del sior Pantalon s’aveva licenzià. Ho domandà a sior Ottavio se el giera negozio per lu, el m’ha dito de sì. L’ho menà a drittura dal mercante, i s’ha parlà, e come che ghe diseva, presto, presto i s’ha convegnù.
Beatrice. Io resto attonita. Quanto gli darà di salario?
Brighella. Per el primo anno tresento scudi all’anno, e po a misura del so merito i cresserà.
SCENA IV.
Corallina ed i suddetti.
Corallina. Signora padrona, voglio andarmene in questo momento.
Beatrice. Sei pazza?
Corallina. Il signor Ottavio m’ha detto...
Beatrice. Dov’è il signor Ottavio?
Corallina. È qui; è venuto ora, e m’ha detto...
Beatrice. Digli che venga qui subito.
Corallina. Senta che cosa m’ha detto.
Beatrice. Che tu sia bastonata; Brighella, andate voi, fatelo venire.
Brighella. La servo subito.
Corallina. Il diavolo ti porti. (dietro a Brighella)
Brighella. Disela a mi, patrona? (a Corallina)
Corallina. Sì, a voi, che avete condotto in casa quella bella gioja.
Brighella. Come sarave a dir?
Beatrice. Andate, andate; non le badate, è pazza.
Brighella. Gh’avì rason.... basta... (parte)
SCENA V.
Beatrice e Corallina.
Beatrice. Via, che cosa ti ha detto il signor Ottavio?
Corallina. Ha picchiato, ero in camera vostra che rifacevo il letto, e non l’ho sentito.
Beatrice. Sei una balorda.
Corallina. È venuto su come un diavolo, e mi ha detto, che tu sia maledetta.
Beatrice. Te lo meriti.
Corallina. Io gli ho risposto: Non vede? Rifaccio il letto della padrona.
Beatrice. Sempre scuse.
Corallina. Ed egli ha detto: Sia maledetta anche la tua padrona.
Beatrice. Indegna! Non può essere.
Corallina. L’ha detto in coscienza mia.
Beatrice. Vattene, o ti rompo il capo.
Corallina. Eccolo; lo sosterrò in faccia sua.
SCENA VI.
Ottavio e le suddette.
Beatrice. Che motivo avete voi di maledirmi? (ad Ottavio)
Ottavio. E subito lo viene a riportare. (a Corallina)
Corallina. Parli bene, se non vuole che si riporti.
Beatrice. Voi dunque mi avete maledetta?
Ottavio. Eh, compatitemi: non so nemmeno io che cosa mi abbia detto. Venivo a casa con premura per darvi una buona nuova, e mi hanno fatto battere un quarto d’ora: avrei maledetti anche tutti li miei parenti.
Corallina. Guardate se queste sono cose d’andar in collera!
Beatrice. Maledire una donna, che ha per voi tanta stima?
Ottavio. Ma se l’ho detto senza riflettere a quello che mi dicessi. Signora Beatrice, ho da darvi una buona nuova.
Beatrice. La nuova veramente è bellissima.
Ottavio. L’avete saputa?
Beatrice. Sì, l’ho saputa. Una maledizione in ricompensa delle mie attenzioni.
Ottavio. Ho inteso. La riverisco divotamente. (in alto di partire)
Corallina. (Oh, almeno se n’andasse davvero). (da sè)
Beatrice. Dove si va, signore?
Ottavio. Dove il diavolo mi porterà.
Corallina. (Diavolo, portalo lontano assai). (da sè)
Beatrice. Non credevo mai, che dalla vostra bocca escissero maledizioni contro di me.
Ottavio. Ma, cara signora Beatrice, la bocca parla talora senza che l’uomo pensi. Il mio cuore vi benedice. Costei è un’indegna. (a Corallina)
Corallina. Portatemi rispetto, signore: io non ho fatto che il mio dovere.
Ottavio. Tu dovevi conoscere ch’io era in collera, e non dovevi riportare alla padrona quello ch’io aveva detto senza pensare.
Corallina. Se foste un uomo prudente, non parlereste senza pensare.
Ottavio. Questa mattina son fuor di me stesso. L’allegrezza ha messo in moto i miei spiriti con tanta violenza, che non son padrone di regolarli. Ho trovato un impiego; sarò provveduto di uno stipendio onorevole. Potrò corrispondere in qualche parte alle mie obbligazioni con voi. Anche con Corallina farò il mio dovere. Mi serve, è giusto che le sia grato. Sì, son grato, signora Beatrice, e son tutto vostro, e potete di me disporre; ma compatite un involontario trasporto. Il dolore avvilisce gli animi, l’allegrezza sublima il cuore. L’uomo avvilito prima pensa, e poi parla; l’uomo brillante prima parla, e poi pensa. Ma delle mie parole, de’ miei trasporti, delle mie pazzie, eccomi qui, chiedo scusa, domando perdono, compatitemi per carità.
Beatrice. (Chi non si moverebbe a pietà?) (guardandolo amorosamente)
Corallina. (La vedovella pietosa!) (da sè)
Ottavio. Mi perdonate? (a Beatrice)
Beatrice. Non parliamo altro. Avete dunque ottenuto l’impiego?
Ottavio. Vi dirò: Brighella mi ha introdotto dal signor Pantalone...
Beatrice. Sì, lo so, me lo ha detto Brighella istesso. Ma voi come vi compromettete di riuscire in un carico, di cui non avete i principi?
Ottavio. Eh, questi si acquistano presto. Basta ch’io vada tre o quattro volte al negozio, che dia un’occhiata ai libri, alle lettere, alla scrittura, m’impegno in quattro giorni di diventare maestro.
Corallina. (Temerità, presunzione). (da sè)
Beatrice. Prego il cielo che ciò segua. L’impiego è buono, e col tempo si farà migliore.
Ottavio. Ora sì ch’io spero non partir mai più di Bologna.
Beatrice. Caro signor Ottavio, sapete quel che vi ho detto.
Ottavio. Ecco il tempo di effettuare il nostro progetto...
Beatrice. (Zitto, non fate che Corallina vi senta). (piano)
Ottavio. Con un impiego di questa sorta posso sperare che voi...
Beatrice. (Zitto, vi dico). (come sopra)
Corallina. (Ho paura che lo voglia sposare; se ciò succede, vado via subito). (da sè)
Beatrice. Ma di questo impiego bisogna che bene vi assicuriate.
Ottavio. Son sicurissimo. Il signor Pantalone, in due volte che gli ho parlato, si è innamorato di me; e quante finezze non mi ha fatto la di lui figliuola! La signora Rosaura la conoscete?
Beatrice. Sì, la conosco.
Ottavio. Che bella ragazza! È un poco sempliciotta, ma è graziosissima. Ha un viso delicato, una maniera dolce; in verità mi ha sorpreso.
Beatrice. (Temerario! in faccia mia?) (da sè)
Corallina. (Oh che asino!)
Ottavio. Signora, non credo già che lo abbiate per male, ch’io dica la verità. Non fo torto a voi, se dico che la signora Rosaura è una giovinetta graziosa...
Beatrice. Andate dunque da lei, e non mi comparite più davanti. (parte, e chiude la porta)
SCENA VII.
Ottavio e Corallina.
Corallina. (L’ho pur caro). (da se)
Ottavio. Oh, quest’è bella! Non vuol che si dica la verità; che ne dici tu, Corallina?
Corallina. Io dico che la mia padrona ha ragione.
Ottavio. Siete due pazze insieme.
Corallina. Pazza anche la mia padrona?
Ottavio. Via, le anderai a riportar anche questo?
Corallina. Perchè no? Ella mi dà il salario, e voi non mi date niente.
Ottavio. Non dubitare, non avrai gettati meco i tuoi servigi: non mi rimproverar d’avvantaggio. Ti regalerò.
Corallina. Compatitemi, è stata poca prudenza la vostra, lodar in quella maniera la signora Rosaura in faccia della mia padrona.
Ottavio. Sì, è vero; voi altre donne vorreste essere al mondo sole.
Corallina. Dirle che è bella, graziosa, giovinetta?
Ottavio. Ma che? La signora Beatrice si vorrebbe mettere con lei?
Corallina. La signora Beatrice ha il suo merito.
Ottavio. Sì, ha il suo merito, è vero. Ma non si può negare, che la signora Rosaura non sia più giovane e più vezzosa.
Corallina. Dunque stimate la signora Rosaura, e disprezzate la mia padrona?
Ottavio. Non è vero; io stimo tutte due, ma dico la verità.
Corallina. Non sapete, signore, che la verità partorisce odio?
Ottavio. Quest’effetto lo fa negli sciocchi.
Corallina. Ho veduto che la padrona è partita in collera.
Ottavio. Via, via, di’ alla signora Beatrice che vado a stabilire il negozio col signor Pantalone, e a pranzo le dirò tutto. Metti colla padrona1 delle buone parole per me; e se fai qualche scoperta, avvisami, confidami tutto; e non dubitare, che hai da fare con un uomo grato, con un uomo prudente. (parte)
SCENA VIII.
Corallina sola.
Sì, in verità egli è il padre della prudenza. Si può far peggio? Ha bisogno della padrona, e egli la maledice, le dà gelosia e la disprezza. In questa maniera non la durerà in nessun luogo.
SCENA IX.
Lelio e la suddetta.
Lelio. Corallina, vi do il buon giorno.
Corallina. Serva umilissima, signor Lelio.
Lelio. Dov’è la vostra padrona?
Corallina. È in camera ritirata.
Lelio. Ha qualche cosa che la disturba?
Corallina. Io credo di no, signore.
Lelio. Ed io credo di sì.
Corallina. Che cosa crede possa ella avere?
Lelio. Disgusti col signor Ottavio.
Corallina. Oh, pensi lei.
Lelio. Sì, è così senz’altro: ella lo ama, ed ei se ne ride; basta dire, che per farla disperare, le loda in faccia una ragazza più vezzosa e più giovanetta di lei.
Corallina. Chi ve L’ha detto, signore?
Lelio. Chi? Egli medesimo.
Corallina. Come? Quando?
Lelio. Ora, in questo momento; l’incontro in sala, gli domando che fa la signora Beatrice, ed egli mi racconta2 questa bella istoriella.
Corallina. Oh che uomo senza giudizio!
Lelio. Mi meraviglio che la signora Beatrice Lo soffra.
Corallina. Gliene fa tante, che dovrebbe alfine stufarsene.
Lelio. E il mondo dice che lo voglia sposare.
Corallina. Ma!
Lelio. Che dite voi? Credete che ciò possa succedere?
Corallina. S’ella non averà giudizio, succederà pur troppo.
Lelio. La signora Beatrice merita miglior fortuna.
Corallina. Caro signor Lelio, come si potrebbe fare a far che la mia padrona aprisse gli occhi, e lo mandasse al diavolo?
Lelio. Se la signora Beatrice facesse stima di me, come io faccio stima di lei, troverebbe meco le sue convenienze.
Corallina. Volete che io gliene parli?
Lelio. Sì, ditele qualche cosa; mi farete piacere.
Corallina. Per voi lo farò volentieri, ma per il signor Ottavio non lo farei nemmeno se mi regalasse.
Lelio. Vi ha detto anche lui qualche cosa?
Corallina. Potete immaginarvelo; mi ha detto: parla per me alla tua padrona, che ti donerò due zecchini.
Lelio. Due zecchini? Se non ne ha...
Corallina. Me li ha mostrati. Ma io niente. Per lui no, ma per il signor Lelio sì.
Lelio. (Costei mi vorrebbe mangiar due zecchini). (da sè)
Corallina. (È duro). (da sè)
Lelio. Via dunque, giacchè avete tanta bontà per me, parlatele, e poi saprò il mio dovere.
Corallina. Oh sì, volentieri, piuttosto uno zecchino da lei, che due dal signor Ottavio.
Lelio. Il zecchino vi sarà, parlatele.
Corallina. Sì signore, le parlerò. (freddamente)
Lelio. Ma quando?
Corallina. Uno di questi giorni. (come sopra)
Lelio. Bisogna sollecitare.
Corallina. Così diceva anche il signor Ottavio, e mi poneva in mano i due zecchini, ma io niente.
Lelio. Ma per me, se vi porrò in mano uno zecchino, lo farete?
Corallina. Per lei che diamine non farei?
Lelio. (La sa lunga. Bisogna darglielo). (da sk)
Corallina. (Se non l’ho adesso, non l’ho mai più). (da sè)
Lelio. Tenete. (le vuol dar il zecchino)
Corallina. Che fa ella?
Lelio. Tenete.
Corallina. Eh via. (mostra ricusarlo)
Lelio. Tenete, dico.
Corallina. No davvero.
Lelio. Se poi nol volete... (lo ritira)
Corallina. Ma che cosa è?
Lelio. Un zecchino.
Corallina. In verità, avevo paura che fossero due.
Lelio. No, non vi farei questo torto.
Corallina. Senta, lo prendo per non parere superba, ma non si avvezzi a dirmi di queste cose. Quando mi parlano di regali, vengo rossa.
Lelio. E quando ve li danno senza parlare?
Corallina. Oh, allora poi è un altro conto. Vado subito dalla padrona. (parte)
SCENA X.
Lelio solo.
Non è niente farmi mangiare dieci o dodici zecchini da costei per acquistar, se posso, la signora Beatrice. Ho piacere d’avere scoperto quello che passa fra lei ed Ottavio, e una tal notizia mi farà invigilare, perchè non seguano clandestinamente le loro nozze. Colui era vicino a conseguire con un tal matrimonio una ricca dote, ma non la merita, perchè non sa custodire un arcano, da cui dipende la sua fortuna. (parte)
SCENA XI.
Camera di negozio in casa di Pantalone, con tavolino, scritture, libri ecc.
Pantalone e Florindo.
Pantalone. Caro sior Florindo, mi no so cossa dir. Me despiase de no poderve consolar. Se ve nego mia fia, no lo fazzo per poca stima della vostra persona, ma credème, lo fazzo anca per vostro ben. Rosaura no la xe putta da mandar. La xe troppo semplice. Nol xe negozio per vu.
Florindo. Ma io, signore, son contentissimo di pigliarla così. Ho piacere che sia di temperamento modesto e quieto.
Pantalone. No, caro fio, no la xe solamente modesta, ma la xe gnocchetta. Per una casa no la xe bona; ghe l’ho dito anca a mio compare che me l’ha domandada in nome vostro, e l’istesso ve digo a vu, che no contento della risposta del mediator, vegnì in persona a domandarmela la segonda volta.
Florindo. Sono venuto io in persona, per dirvi che la prenderò in ogni forma.
Pantalone. Vu, compatime, gh’avè poco cervello; fio mio, a dir de sì se fa presto, e po se se pente, co no ghe xe più remedio. Se avessi da far con un pare de bon stomego, el ve la petterave3 senza difficoltà: ma mi son galantomo, son un omo de onor, e non intendo de precipitar una casa.
Florindo. Ma, signore, mia moglie non averà da far niente in casa. Vi sono le serve, che fanno tutto.
Pantalone. Eh putto caro, co la parona no gh’ha giudizio, le serve non gh’ha cuor de tegnir una casa in piè. L’economia, la bona regola xe quella che mantien le fameggie. E po, caro fio, i fioi che nasse, co i nasse da una mare allocchetta, se va a rischio che i butta sempiotti. Bisogna pensar a tutto.
Florindo. Dunque la signora Rosaura non la volete maritare?
Pantalone. Sior no, no la vôi maridar. La vol andarse a retirar colle so àmie4; la gh’ha sta inclinazion, e mi lasso che la ghe vaga, e no ghe vôi più pensar.
Florindo. Basta; volendola maritare, spero che non farete a me questo torto.
Pantalone. Co l’avesse da maridar, la daria più tosto a vu che a un altro.
Florindo. Non so che dire. Vi vuol pazienza.
Pantalone. Aveu paura che ve manca putte? Ghe ne troverè de quelle poche.
Florindo. Ma questa mi dava tanto nel genio! Mi piace tanto la sua modestia, la sua bontà!
Pantalone. Xe vero, la xe bona, la xe modesta, ma no la xe da mano.
Florindo. Eccola che viene qui. Mi permette che io resti per un momento?
Pantalone. Restè pur; ghe son mi, no ghe xe gnente de mal.
SCENA XII.
Rosaura con una bambola, e detti.
Rosaura. Signor padre, guardate la bella cosa che mi ha mandato a donare la signora zia. (gli mostra la bambola)
Pantalone. Sì, fia, bella; devertive. (Oe, la zoga alle piavole). (a Florindo)
Florindo. (Che bella innocenza!)
Rosaura. E mi ha mandato a dire che mi aspetta; che vada, che giocheremo all’oca.
Pantalone. Sentìu? (a Florindo)
Florindo. Dunque la signora Rosaura vuole andare a stare colle signore zie?
Rosaura. Sì, signore, vuol venire ancor lei?
Pantalone. Ah, ah, ah, cossa diseu? (a Florindo, ridendo)
Florindo. Se potessi, verrei.
Rosaura. Lo dirò alla signora zia, giocheremo all’oca.
Pantalone. Via, via, basta cussì. Andè in te la vostra camera.
Rosaura. Signor padre, vi vorrei dire una cosa5.
Pantalone. Cossa me voleu dir?
Rosaura. Non voglio che il signor Florindo senta.
Pantalone. Caro sior, con grazia. (a Florindo, scostandosi)
Florindo. Vi leverò l’incomodo.
Pantalone. Tutto quel che volè.
Florindo. Servo, signor Pantalone.
Pantalone. Ve reverisso. El cielo ve daga ben.
Florindo. Signora, le son servo. (a Rosaura)
Rosaura. Padrone riverito.
Florindo. (Mi piace tanto, che ad ogni costo la sposerei). (da sè, parte)
SCENA XIII.
Pantalone e Rosaura.
Pantalone. E cussì, fia mia, cossa me voleu dir?
Rosaura. Non me ne ricordo più.
Pantalone. Oh bella! Ch’avè sta bona memoria.
Rosaura. Ah sì, ora me ne ricordo. Ho fame.
Pantalone. Xelo questo quel che m’avè da dir?
Rosaura. Questo, questo.
Pantalone. E no se podeva dirlo in presenza de quel sior?
Rosaura. Mi vergogno.
Pantalone. Va là, va là, marzocca, va da to àmie, che ti starà ben.
Rosaura. Oh, un’altra cosa, signor padre, ma in verità questa preme assai.
Pantalone. Cossa xela?
Rosaura. Ho bisogno di quattro baiocchi per giocare all’oca.
Pantalone. (Da una banda la me fa rider). (da sè) Tolè, ve ne dago diese.
Rosaura. Oh belli, oh cari! Li voglio mettere nella mia borsetta. Questa bambola m’intrica, e non la vorrei guastare. Sta lì, carina, e aspettami, che or ora ti vengo a pigliare, sai? Cara, com’è bellina! (la mette sul tavolino)
Pantalone. Vardè se la par mai una putta de disdott’anni? Gnanca una fantolina da latte. E quel putto el la voleva per muggier: el stava fresco.
Rosaura. Li voglio mettere nella mia borsetta. Uno.... e due tre, e due sei... (conta i baiocchi, mettendoli nella borsa)
Pantalone. No, e do cinque.
Rosaura. Cinque e due sei...
Pantalone. No, e do sette...
Rosaura. Sette, otto, nove; oh, non ce ne sono altri.
Pantalone. Ti ha falla, cara ti, i xe diese: el sette ti l’ha messo do volte.
Rosaura. Il sette due volte? Di questi qual è il sette? (li tira fuori e li mostra)
Pantalone. Oh che sempia! Va via, va via, che vien zente.
Rosaura. Signor padre, ve l’ho detto?
Pantalone. Cossa?
Rosaura. Che ho fame?
Pantalone. Sì, ti me l’ha dito. Va dalla donna, fatte dar da marenda.
Rosaura. E dei quattro baiocchi ve l’ho detto?
Pantalone. No te n’oggio dà diese?
Rosaura. Ah sì, dieci son più di quattro?
Pantalone. Me par de sì.
Rosaura. Eh, lo so io. So contar fino al venti.
Pantalone. Va via, te digo, che vien zente.
Rosaura. Oggi mi condurrete dalla signora zia?
Pantalone. Sì, te menerò.
Rosaura. Giocheremo all’oca.
Pantalone. Vastu via? (con voce alta)
Rosaura. Oimè. (trema)
Pantalone. Mo via, destrighete.
Rosaura. Vado, vado. Uno, due, e due cinque... (parte contando i baiocchi)
Pantalone. Mi no so cossa dir per mi; aver una fia cussì gnocca la xe una disgrazia, ma per ella la xe felice; perchè no conossendo quel che conosse i altri, la xe esente da quelle passion, che per el più ne fa pianzer e suspirar.
SCENA XIV.
Ottavio e detto.
Ottavio. Servitore umilissimo, signor Pantalone.
Pantalone. Oh, gh’ho caro che siè vegnù avanti che vaga fora de casa. Me preme far sto conto. El xe un poco difficile, e no me fido de mi medesimo. Lo farò mi; felo anca vu, e l’incontreremo.
Ottavio. Sì signore. (lo prende franco, senza guardarlo)
Pantalone. (Cussì vederò cossa che el sa far). (da sè)
Ottavio. (Lo capisco. Mi vuol dar la prova come si fa coi ragazzi). (da sè)
Pantalone. Vardèlo quel conto, e diseme se ve compromette de farlo come el va fatto.
Ottavio. Eh, caro signor Pantalone, crede che io non sappia far conti? So sommare, sottrarre, partire, moltiplicare, col sette, col nove, coi rotti; eh via, si lasci servire. (va al tavolino)
Pantalone. Non occorr’altro. Fé pulito, e debotto torno. (El xe un francon, el doveria saver far). (da sè)
SCENA XV.
Ottavio solo.
A me se so far conti? Vediamo un poco, (apre) Ih! quanta roba! Leggiamo. Tizio in Londra ha posto sopra un vascello mercantile un capitale di mille lire sterline. Caio in Cadice, sei mesi dopo, ha caricato sul vascello medesimo tremila pezze da otto. Fabio a Genova, dopo altri quattro mesi, vi ha caricato sopra duemila cinquecento scudi d’argento. Il vascello è arrivato, dopo un anno che partì di Londra, in Venezia, ed esitate le mercanzie per conto di società dei tre medesimi, si sono ricavati, netti di spese, trentamila ducati veneziani. Si domanda quanto toccherà di utile a Tizio di Londra, a Caio di Cadice, a Fabio di Genova. Cospetto, che conto maladetto è mai questo? Ora mi trovo imbarazzato davvero. Non so come principiarlo. Non mi credeva mai, che si dessero conti di questa sorta: ma son nell’impegno, bisogna farlo. Tizio in Londra duemila lire sterline. Bisognerebbe che io sapessi quanto vale la lira sterlina. Oh! maladettissimo conto! Caio in Cadice tremila pezze da otto: di queste si fa presto il conto; ma se le ha caricate sei mesi dopo, doverà lucrar tanto meno di quello che ha messo il suo capitale sei mesi prima. Fin qui ci arrivo e capisco la ragione; ma non ho la regola per farlo. Io mi credeva che bastasse, per fare il mercante, saper fare i conti che fanno tutti; e per quello riguarda le lettere, non ho paura. Queste società, questi ragguagli, queste monete m’imbrogliano; eppure ne va della mia riputazione se non lo faccio. Mi proverò, (scrive borbottando)
SCENA XVI.
Rosaura ed il suddetto.
Rosaura. (Vorrei la mia bambola. Mi dispiace che vi sia quell’uomo), (da sè) La mia bambola. (a mezza voce verso Ottavio)
Ottavio. (Non faremo niente). (da sè, scrivendo)
Rosaura. No? Pazienza. (credendo abbia detto a lei)
Ottavio. Eh! Sia maladetto! (dà una botta al tavolino, e getta la bambola in terra)
Rosaura. Oh poverina! (la leva di terra e la accarezza)
Ottavio. (Piuttosto che fare il conto, mi divertirei con questa ragazza). (da sè, osservandola)
Rosaura. Poverina! (accarezza la bambola)
Ottavio. Poverina! che vi è di male?
Rosaura. Me l’avete buttata in terra. (lamentandosi)
Ottavio. Compatite; non l’ho fatto apposta.
Rosaura. Voglio dirlo alla signora zia.
Ottavio. Venite qua, signorina bella, non fuggite.
Rosaura. Ho da andare dalla signora zia.
Ottavio. Dove sta la vostra signora zia?
Rosaura. La signora zia sta colle sue sorelle.
Ottavio. Sono sorelle di vostro padre, o della vostra signora madre?
Rosaura. Mia madre è morta.
Ottavio. Ha fatto altri figliuoli la vostra signora madre?
Rosaura. Dopo che è morta no.
Ottavio. E prima?
Rosaura. Non lo so.
Ottavio. Ma siete voi figlia sola?
Rosaura. Oh signor no, con le signore zie vi sono dell’altre figliuole.
Ottavio. Sorelle vostre?
Rosaura. No sorelle, compagne.
Ottavio. (Con questa semplice io ci ho il maggior gusto del mondo). (da sè)
Rosaura. Voi chi siete, signore?
Ottavio. Io sono il primo ministro del negozio di vostro padre.
Rosaura. Non intendo. Non so che cosa sia.
Ottavio. Sono il suo complimentario.
Rosaura. Oh sì, insegnatemi dei complimenti. Quando vado dalla signora zia, me ne fanno tanti, ed io sto lì come una marmotta, e mi dicono che non so fare i complimenti. Se me l’insegnate, vi dono questa bambola.
Ottavio. Ve ne insegnerò quanti volete, senza interesse, perchè siete bellina, perchè siete graziosa.
Rosaura. Oh, lo voglio dire alla signora zia.
Ottavio. Non le dite nulla. Non andate, restate qui.
Rosaura. Mi aspettano, e poi vi anderò del tutto, e non tornerò più a casa.
Ottavio. Ho sentito dire, che vi vogliono cacciare in un ritiro. Ragazza mia, non vi consiglio a andarvi.
Rosaura. No? Perchè?
Ottavio. Perchè starete meglio con uno sposo al fianco.
Rosaura. Davvero?
Ottavio. Sì davvero.
Rosaura. Oh, lo voglio dire alla signora zia.
Ottavio. No, badate; se glielo dite, non fate niente.
Rosaura. Uno sposo?
Ottavio. Sì, uno sposo.
Rosaura. E che cosa si fa dello sposo?
Ottavio. (Oh bella innocenza!) (da sè) Si passa il tempo con pace, con allegria, si va con lui ai teatri, alle conversazioni, ai festini: altro che star lì tutto il giorno a piangere il morto colla signora zia!
Rosaura. Se ne trovano degli sposi?
Ottavio. Certo che se ne trovano.
Rosaura. Me ne troverete uno?
Ottavio. Perchè no? Lo diremo al vostro signor padre.
Rosaura. Costerà assai?
Ottavio. Eh, voi averete tanto che basta per trovarlo.
Rosaura. Io non ho altro che dieci baiocchi.
Ottavio. No, carina, gli uomini non costano così poco.
Rosaura. Eh! Lo sposo... è un uomo?
Ottavio. Sì, un uomo.
Rosaura. Oh, non ho bisogno di spender denari a comprarlo; posso valermi del signor padre.
Ottavio. Eh ragazza mia, il padre non serve.
Rosaura. Voi servireste?
Ottavio. Potrebbe darsi di sì. Ma io sono dato via. Sono impegnato.
Rosaura. Oh, mi dispiace.
Ottavio. (Eppure, se non avessi data la parola a Beatrice, questa ragazza sarebbe il mio caso. Ma sono un galantuomo, sono un uomo d’onore). (da sè)
Rosaura. Me lo troverà la signora zia.
Ottavio. Fate a mio modo, dalla zia non vi andate più. Se vi andate, non vi è più sposo.
Rosaura. Oh, voglio lo sposo; non vi anderò.
Ottavio. (Povera ragazza! ha volontà di marito, e le signore zie la vogliono sagrificare. Avviserò io suo padre, che badi bene... Oh eccolo... Il conto... Diavolo! non ho fatto niente). (da sè)
SCENA XVII.
Pantalone ed i suddetti.
Pantalone. Cossa feu qua, siora? (a Rosaura)
Rosaura. Son venuta a prendere la mia bambola.
Pantalone. Aveu fatto el conto, sior Ottavio?
Ottavio. Vi dirò, signore... Per dire il vero, è venuta qui la signora vostra figlia; mi ha dette tante cose graziose, che ho perduto il tempo, e non ho fatto niente.
Pantalone. Me despiase. L’ho fatto mi, vardè mo se el va ben?
Ottavio. (Legge piano, borbottando) Bene. Bravo. Va benissimo.
Pantalone. Via, adesso mo felo anca vu.
Ottavio. Eh, caro signor Pantalone, che serve? Quando l’ha fatto lei!
Pantalone. Ho gusto, co l’è fatto, de confrontarlo.
Ottavio. Se vuol vedere se io so fare i conti, è un altro discorso. Adesso è ora di andare a pranzo; se mi permette, lo porto con me, e oggi lo avrà fatto.
Pantalone. Benissimo, son contento.
Ottavio. All’onore di riverirla, (parte)
SCENA XVIII.
Pantalone e Rosaura.
Pantalone. Stè a veder, che costù el va a farse far el conto. Basta, avanti de torlo, ghe penserò. El gh’ha delle chiaccole assae, ma bisogna veder se i fatti corrisponde. E cussì, siora, cossa ve disevelo el sior Ottavio?
Rosaura. Chi è il signore Ottavio?
Pantalone. Quello col qual avè parla fin adesso.
Rosaura. Oh, mi ha dette tante belle cose.
Pantalone. Circa mo?
Rosaura. Dalla signora zia non ci vado più.
Pantalone. No? Per cossa?
Rosaura. Perchè la signora zia non mi vorrà trovare lo sposo, e lui me lo troverà.
Pantalone. Sposo? Cossa xe sto sposo?
Rosaura. Ah, non lo sapete che cosa sia lo sposo? Ve lo dirò io, signore.
Pantalone. (Oh poveretto mi! Cossa alo fatto costù con sta povera putta?) (da sè)
Rosaura. Lo sposo è quello che mena agli spassi, ai festini...
Pantalone. Via, via, siora, no savè cossa che ve disè. Sior Ottavio ha dito cussì per rider, el v’ha burlà, perchè sè una sempia. Parecchieve subito, e andemo da vostra àmia.
Rosaura. Oh, non vi vado certo.
Pantalone. No? Mo perchè?
Rosaura. Perchè voglio lo sposo.
Pantalone. Senti, sa, se ti dirà più ste parole, te darò una man in telmuso.
Rosaura. (Getta via la bambola con rabbia.)
Pantalone. Cussì ti fa? Xelo questo el respetto che ti gh’ha per to pare? Xeli questi i boni documenti, che t’ha dà la to povera mare? No ti gh’ha paura che el cielo te castiga? Ah desgraziada! El to povero pare ti lo tratti cussì.
Rosaura. (Piange forte.)
Pantalone. Tiò su quella piavola.
Rosaura. (La prende.)
Pantalone. Bàseme la man.
Rosaura. (Obbedisce.)
Pantalone. Andè in te la vostra camera.
Rosaura. (Senza dir nulla cogli occhi bassi parte.)
Pantalone. Come! Sior Ottavio sta sorte de descorsi el fa con mia fia? Elo fursi vegnù per sedurla, per sassinarla? Coss’è sta cossa? El gh’ha bisogno de impiego, e el primo zorno che el vien in casa mia, el fa le carte colla mia putta? Questa, oltre una malizia betona, la xe mo anca una imprudenza massizza. L’ho scoverto a tempo. Nol fa per mi. Povero desgrazià! Nol farà mai ben a sto mondo. No val virtù, no val spirito, no val talento per aver fortuna; ma ghe vol bontà de cuor, onoratezza de man, e prudenza de lengua.
Fine dell’Atto Primo.