Il mio delitto/II

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I III
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II.

Addio sale dai parati di damasco, dai soffici tappeti, e culla coperta di trine. Addio ninnoli eleganti, bambole dagli occhi azzurri, balocchi divertenti; addio gattino bianco e bambinaia svizzera; non so come mi foste rapiti tutt’a un tratto, nè so come fui trasportata in quei vasti stanzoni bianchi e disadorni, con una fila di letti allineati come tanti reggimenti di soldati, oppure con delle panche di legno e delle tavole lunghe lunghe interminabili.

E nulla, nulla che mi rammentasse la [p. 12 modifica] mia casa! Ah sì; trovai in mezzo alla mia roba un ritrattino della mamma. Chi ve l’avea posto? Forse la nostra vecchia cameriera? Forse il babbo? Non l’ho mai saputo e non l’ho mai domandato; ho sempre voluto immaginare che fosse venuto dal cielo a ricordarmi la mia casa.

Non descriverò tutta la mia vita di collegio; quella vita monotona, uguale, è stata troppo descritta nei romanzi e nelle novelle sentimentali e ve ne faccio grazia; parlerò solo delle mie impressioni e dell’influenza che quegli anni possono aver avuto sul mio carattere e sulla mia vita.

Io la vedo distinta in tre periodi; il primo, che chiamerei infantile, è composto di quell’età che si suol chiamare la più bella, ma che io chiamerei la più sciocca. Infatti, che cosa sappiamo noi della vita a quell’età? Si è più cose che persone, si vegeta, ma non [p. 13 modifica] si vive, si ha l’allegria dell’uccello che canta perché vede la luce, ma la vita la si apprezza assai poco e ci contentiamo facilmente, un dolce o un balocco ci rende felici, si studia per obbedienza, senza conoscere il valore del sapere, si piange per delle inezie, di dolori veri non si conoscono che quelli fisici, e specialmente in collegio s’è trattati come un gregge di pecore.

Il gregge va al passeggio, a tavola, allo studio; l’individuo non esiste, è abolito. Si dovrebbe essere senza desiderii, senza volontà, senza aspirazioni, ma questi sentimenti si sentono repressi fremere dentro di noi, pronti a scattare alla prima occasione.

Per me l’occasione fu quando nel 1866 venne dichiarata la guerra all’Austria e che mio padre, in quel tempo colonnello, mi venne a salutare prima di partire per il campo. [p. 14 modifica]

— Senti, — mi disse, — ora vado alla guerra e tu devi essere molto e molto buona e in ogni caso devi essere forte, coraggiosa, ricordati che sei la figlia d’un militare.

Egli aveva la voce dolce, come una volta quando parlava alla mamma, ed io mi sentivo salire le lagrime agli occhi. Parve accorgersene perché la sua voce prese un’intonazione imperiosa e disse:

— No, guai! sai bene che certe cose non mi piacciono.

Ricacciai con uno sforzo le lagrime, anzi le nascosi sotto ad un sorriso e dissi con voce supplichevole:

— È che vorrei venire anch’io con te.

— Sciocchina! non vedi che mi fai dispiacere dicendo di queste cose impossibili, — e mi lasciò bruscamente, forse per non mostrarsi commosso, mentre sotto a quella ruvida scorza palpitava un cuore femminile. [p. 15 modifica]

Da quel momento incominciai ad essere inquieta, nervosa e a ribellarmi alla disciplina del collegio.

Mio padre era al campo, forse in pericolo di vita, ed io non poteva sapere nulla di lui, perché i regolamenti vietavano che si leggessero i giornali politici: era proprio una crudeltà. Da quel giorno divenni una piccola rivoluzionaria, gridavo, strepitavo, volevo i giornali, ma non riuscivo ad ottener nulla, anzi pigliavo dei castighi che io sopportavo pazientemente con una fierezza assai superiore alla mia età. Vedendo che colla prepotenza non potevo ottener nulla, divenni diplomatica, e mi cambiai tutt’a un tratto in piccolo Macchiavelli. La necessità rende ingegnosi, e vi assicuro che avreste ammirato l’arte finissima con cui cercavo d’impietosire gl’inservienti del collegio.

Infine che cosa chiedevo? Semplicemente [p. 16 modifica] un giornaletto che mi recasse notizie di mio padre, avrei dato tutto quello che possedevo per averlo e non avrei detto niente a nessuno; pregavo, supplicavo, mi facevo buona, gentile, carezzevole, e regalavo i quattrini che m’avea lasciato il babbo prima di partire.

Non so qual buona fata siasi impietosita di me; so soltanto che tutte le sere trovavo sotto al mio guanciale il giornale tanto desiderato. Non vi fu mai cosa che mi recasse tanto piacere come quel pezzo di carta stampata, e i sotterfugi che facevo per leggerla di nascosto. Non leggevo, divoravo cogli occhi le notizie della guerra; sempre cercandovi un nome che non sapevo se desiderare o temere che vi fosse riportato.

Era stata dichiarata la guerra e le truppe si avanzavano e si dovevano incontrare fra pochi giorni ed io ero colla mia mente assai lontana dal collegio, e il cicaleccio delle mie [p. 17 modifica] compagne mi faceva l’effetto del ronzio di mille zanzare e non ci badavo.

Esse dicevano che ero superba, ma avevo altro pel capo che curarmi di loro.

Un giorno mentre spiegavo il mio giornale, mi saltò agli occhi il nome di mio padre fra la lista dei feriti, si diceva pure che aveva combattuto valorosamente e ch’era stato trasportato a Brescia. Non pensai più a nulla e corsi impetuosamente dalla direttrice col giornale in mano dicendo:

— Il babbo è ferito, voglio andare a vederlo.

— Come hai potuto avere quel giornale? — chiese severamente la direttrice.

— Non so, l’ho trovato, — risposi, — ma so che voglio vedere mio padre, — e mi posi a battere i piedi e a strillare come una forsennata.

— Ora calmati; domanderemo notizie e [p. 18 modifica] vedremo quello che sarà più conveniente di fare.

— No, voglio andare, voglio andare, — gridavo, — non aspetto nulla.

— Mettetela in cella, — disse la direttrice, — qui nessuno deve dir voglio. Così fui messa nel camerino che ci serviva di prigione. Cambiai sistema e rifiutai il cibo. Non credevano alla mia fermezza e dicevano che quando avessi avuto proprio fame mi sarei risolta a mangiare.

Mi misero davanti i cibi più squisiti, mi fecero andar a tavola colle mie compagne, ma io tenevo fermo, sentivo dei stiracchiamenti di stomaco, mi vacillava la vista, ma nulla entrava dalla mia bocca; nemmeno una goccia d’acqua.

— Voglio andare dal babbo, —e non c’era verso di farmi mangiare né con preghiere né con minacce. Finalmente vedendo il mio [p. 19 modifica] carattere inflessibile e pensando che sarei stata capace di lasciarmi morire di fame, la direttrice pensò di contentarmi.

— Andate pure, — disse, — ma sono molto in collera con voi.

M’affidò ad una signora di sua conoscenza che dovea pure recarsi a Brescia per vedere, un suo figliuolo e consegnandomi una lettera per mio padre mi lasciò partire.

Trovai mio padre con una palla in una gamba, e molto abbattutto moralmente. Il suo orgoglio militare avea ricevuto una ferita assai più crudele di quella fattagli dalla palla nemica. Nel giorno della battaglia di Custoza era riuscito ad occupare col suo reggimento una bellissima posizione strategica, sperava di andare avanti e cooperare ad una vittoria, invece nel più bello, gli venne l’ordine di ritirarsi e avea dovuto ubbidire suo malgrado.

— È un dolore che mi condurrà alla [p. 20 modifica] tomba, — mi disse colle lagrime agli occhi, — tu sei una bimba e non capisci quanto sia forte il dolore di doversi ritirare sul punto di vincere! e i miei poveri soldati tanto coraggiosi e pieni d’entusiasmo’ È stato proprio una cosa crudele.

Ebbe, un istante di soddisfazione quando lesse la lettera della direttrice nella quale narrava la mia fermezza nel volere andare a vederlo, e per giustificarsi raccontava il modo con cui ottenni il mio scopo.

— Tanto piccina ed hai tanta forza di volontà? Sei proprio mia figlia! — esclamò col volto illuminato da un sorriso.

Fu il solo lampo di gioia che vidi quel giorno sulla sua faccia, poi non fece che lamentare la vittoria perduta e volle assolutamente ch’io lasciassi quel luogo di tristezza.

Infatti era uno strazio per me vedere quei valorosi colla testa bendata, colle membra [p. 21 modifica] fasciate e sanguinose, udir continuamente dei lamenti, dei gridi di dolore senza poter dare alcun aiuto; mi sentivo venir i brividi, ma volevo esser forte.

— Parti, — mi diceva mio padre, — questo non è luogo per te.

— Sono forte, — rispondevo, — non son per nulla la figlia d’un militare. Mi fece ancora accostare al suo letto, mi tenne stretta al suo seno e mi baciò come non mi aveva mai baciato.

— Addio, — disse, — ci rivedremo presto, ma non piangere, sai.

— No, — diss’io, — vedi? sorrido, — e mi lasciai trascinare quasi mio malgrado lontano da lui.

Quando ritornai in collegio mi sentivo tutta cambiata; in apparenza ero sempre la fanciulla di nove anni, ma nel mio cuore mi sentivo più donna, ed ero tutta orgogliosa [p. 22 modifica] d’essere la figlia d’un prode che avea versato il sangue per la patria. Tutto quello che avevo udito narrare del suo coraggio e valore aveva tanto esaltato la mia fantasia che non parlavo che di battaglie, di mosse strategiche, come se fossi io stessa un generale. Che cosa m’importava che le grandi mi guardassero con aria sprezzante e che le fanciulle più ricche mi parlassero dei loro palazzi sontuosi, di equipaggi e di ville? Io era la figlia d’un eroe, il mio nome correva sulla bocca di tutti ed era ripetuto tutti i giorni, accompagnato da insiti elogi, sui giornali politici.

Come mi pareva tutto piccino, in confronto dell’aureola di gloria che circondava il mio nome! La promozione poi di mio padre al grado di generale, servì ad aumentare ancora il mio orgoglio, ed è certo che in quel periodo di tempo dovevo essere insopportabile [p. 23 modifica] colla mia aria di superiorità e coi miei discorsi sempre esaltati.

Le mie compagne mi burlavano e mi chiamavano ironicamente a «la generalessa », e dicevano che ero montata tanto in superbia, come se fossi stata io stessa sul campo di battaglia. Confesso che ne avevano tutte le ragioni.

Mi calmai quando rividi mio padre; era talmente accasciato, avvilito, che non era più riconoscibile; la sua ritirata forzata dal campo era divenuta la sua idea fissa e non se ne potea dar pace.

Le poche volte che mi trovavo con lui, cercavo di distrarlo, di raccontargli i piccoli avvenimenti del collegio, d’intrattenerlo con discorsi allegri: tutto era inutile, non potea pensare che a quel fatto, il quale era come una lima che gli rodeva l’esistenza.

Fu un amico di mio padre che mi recò la notizia della sua morte. Una sera, dopo [p. 24 modifica] aver parlato coi suoi amici, sempre dello stesso argomento, era caduto come una quercia colpita dal fulmine, senza proferire una parola, senza mandarmi la sua ultima volontà.

Tutti sanno il colpo tremendo che fu quello per me; non valsero per molto tempo a consolarmi nella mia sventura nè le parole degli amici, nè gli elogi che leggevo di lui in tutti i giornali e nemmeno una lettera che mi scrisse il re di suo pugno, rimpiangendo la perdita d’un amico sincero e d’un valoroso soldato. Fu questo il primo grande dolore che provassi nella mia vita. Mi trovai tutt’ad un tratto sola al mondo, senza amici, dopo aver veduto crollare quel raggio di gloria che negli ultimi tempi era stato il mio orgoglio, la mia consolazione.