Il tirannicida

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Luciano di Samosata Antichità 1862 Luigi Settembrini Indice:Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini - Tomo 2.djvu racconti Letteratura Il tirannicida Intestazione 7 maggio 2023 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini


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XXVII.

IL TIRANNICIDA,1


ARGOMENTO.


Uno monta su la rocca per uccidere il tiranno, non lo trova: invece uccide il figliuolo, e gli lascia la spada nel corpo: viene il tiranno, e veduto il figliuolo già morto, con la stessa spada si uccide. Quegli che andò ed uccise il figliuolo del tiranno, dimanda il premio come tirannicida.


Due tiranni ho ucciso in un sol giorno, o giudici, l’uno già provetto, l’altro nel fior degli anni e, succedendogli, più pronto ad opprimerci, e per ambedue vengo a chiedervi un premio; che io solo, tra quanti mai furono tirannicidi, d’un sol colpo ho spacciati due ribaldi; ho ucciso il figliuolo di spada, il padre di crepacuore. Il tiranno ha avuto bastante pena di ciò che ei fece: vivo ancora ha veduto il figliuolo morto; e sul morire è stato costretto maravigliosamente a divenire tirannicida di sè stesso. Il figliuol suo, che perì di mia mano, m’è servito anche morto, come strumento per uccidere un altro: vivo fu compagno delle ribalderie del padre; morto fece l’ultima che potè, divenne parricida. Quegli adunque che spense la tirannide son io, e la spada che tutto operò fu mia: solamente mutai l’ordine, e trovai nuovo modo di finir quei malvagi: il più forte, e che poteva far difesa, lo spensi io: il vecchio lasciai alla sola spada. Ed io che mi pensavo di averne maggior merito da voi, di ricevere per due morti due premi, come colui che vi ho liberati non pure dai mali presenti, ma dal timor dei futuri, e v’ho data salda libertà, non facendo rimanere [p. 122 modifica]erede della mala signoria, io intanto corro pericolo, dopo sì bel fatto, di non avere alcun premio da voi, di rimanere io solo senza compenso dalle leggi, che io salvai. Questo mio avversario adopera così non per amore del pubblico bene, come egli dice, ma perchè si addolora su gli uccisi, e vorria far vendetta di chi ne ha cagionato la morte.

Ma permettete, o giudici, che io discorra alquanto con voi, benchè voi li sappiate, di tutti i mali della tirannide; che così voi conoscerete la grandezza del mio benefizio, e più vi rallegrerete ripensando donde scampaste. Noi non sostenemmo, come già accadde ad altri, una sola tirannide, una sola servitù, nè sopportammo i capricci d’un solo padrone; ma tra quanti al mondo patirono tale sventura, noi avevam sul collo due tiranni, e da doppia maniera di oltraggi eravam straziati. Molto più moderato era il vecchio, e più placabile nell’ira, e più mite nei castighi, e più rimesso nei capricci, che l’età ne ratteneva la foga, e ne frenava gli appetiti disordinati. Anzi dicevasi che cominciò l’oppressura spintovi dal figliuolo, non di sua voglia: che d’indole ei non era tiranno, ma cieco per quel figliuolo, lo amava di troppo, come infatti dimostrò, lo secondava in tutto, faceva il male che quei voleva, puniva coloro che quegli indicava, gli obbediva in ogni cosa: insomma era tiranneggiato da lui, e ubbidiva a tutti i capricci del figliuolo. Il giovane poi per rispetto dell’età gli cedeva in onore, e si asteneva dal solo nome di principe; ma egli era il tutto e l’anima della tirannide; egli ne assodò ed assicurò la potenza; ed egli solo godeva il frutto delle ingiustizie. Egli era quello che s’accerchiava di satelliti, che comandava le guardie, che vessava i sudditi, che spauriva chi levasse il capo: egli lo storpiatore dei garzoni, l’insultator delle nozze, il rapitor delle vergini: le uccisioni, i bandi, le confische, i tormenti, gli oltraggi, tutto era opera sua. Il vecchio lo secondava, gli dava mano, e non faceva che lodarne le scelleratezze. Sicchè lo stato nostro era divenuto insopportabile: che quando mal volere s’aggiunge a gran potere trapassa tutti i termini delle ribalderie. Più di tutto ci cuoceva il sapere che la nostra servitù saria stata lunga, anzi eterna; che la città saria come per successione passata da un padrone ad un altro peggiore, [p. 123 modifica]ed il popolo divenuto una roba ereditaria. Per gli altri non è piccola speranza il poter pensare, e dire fra sè: Ma finirà, ma pur creperà, e subito sarem liberi. Per noi questa speranza non v’era: anzi vedevam già pronto il successore. Onde nessuno dei generosi, che come me fremevano, ardiva di tentar qualche fatto: la libertà era sfidata, la tirannide pareva invincibile, contro due non potersi tentare. Per me, io non m’atterrii; nè, pensata la difficoltà dell’impresa, mi scuorai; nè, veduto il pericolo, mi ritrassi per paura; ma solo, io solo contro sì potente e salda tirannide, anzi non solo, ma con la mia brava spada che fu anch’essa tirannicida, m’avviai avendo innanzi agli occhi la morte, e pur deliberato di riscattare la comune libertà col mio sangue. Scontrata la prima guardia, e fugatala non senza sforzo, uccidendo chi mi si para dinanzi, e rovesciando ogni ostacolo, giungo a chi faceva tutto il male, ed era la sola forza della tirannide, la sola cagione delle nostre miserie; nel cuor della rocca lo assalto, e benchè egli combatta valorosamente e resista, pur con molte ferite l’uccido. Allora fu distrutta la tirannide, compiuta la mia impresa; e da quel punto tutti fummo liberi. Rimaneva solo il vecchio, inerme, senza guardie, senza il figliuolo che era il suo grande sgherro, abbandonato da tutti, indegno di finire per una mano generosa. E qui, giudici, io così pensavo tra me: Tutto m’è riuscito felicemente, tutto è fatto, tutto va bene: in qual modo sarà punito l’altro? Non merita che l’uccida io con questa mano che ha operato quel fatto sì bello, sì splendido, sì nobile; ei disonorerebbe quel fatto: trovi un carnefice degno di lui: ma dopo la sua sventura non abbia neppure questa ventura. Veda, si strazii, abbia la spada innanzi gli occhi: a questo affido il resto. Preso questo consiglio, partii: e la mia spada fece ciò ch’io avevo preveduto, uccise il tiranno, pose fine alla mia impresa.

Ecco dunque che io reco al popolo la sua signoria, dico a tutti di star lieti, e vi do la buona novella della libertà, godete pure dell’opera mia. In palazzo non c’è più ribaldi: nessuno più vi comanda; la sola legge dà gli uffizi, regola i giudizi, e le discussioni: e tutto questo l’avete per me, pel mio ardire, per la morte di quel solo, dopo il quale il padre non poteva più vivere. Per questo adunque io chiedo il premio che [p. 124 modifica]voi mi dovete: e nol chiedo per cupidigia o avarizia, o perchè mi mossi per mercede a beneficare la patria, ma perchè voglio che la mia bella impresa abbia il suggello del premio, non rimanga spregiata ed ingloriosa, non sia stimata incompiuta ed indegna di premio.

E costui me lo contrasta, e dice, che a torto voglio essere onorato e premiato; che non ho ucciso io il tiranno; che non ho fatto secondo vuole la legge; ho mancato in qualche cosa, e non posso chiedere il premio. Or io dimando a costui: che altro vuoi da me? non ebbi cuore forse? non salii lassù? non l’uccisi? non vi liberai? forse qualcuno comanda ancora? qualcuno dispone? qualche padrone vi minaccia? qualcuno di quei ribaldi è fuggito? Non puoi dirlo. Per tutto è tornata la pace, le leggi valgono, la libertà è assicurata, la signoria ritorna al popolo, le nozze sono senza oltraggi, i garzoni senza paura, le vergini sicure, tutti i cittadini festeggiano la felicità comune. E chi è cagione di tutto questo? chi vi ha dato tanto bene, e tolti tanti mali? Se vi è altri più degno di me, gli cedo il premio, rinunzio alla ricompensa; ma se ho fatto io solo ogni cosa, io ardii, arrisicai, salii, uccisi, punii, con l’uno mi vendicai dell’altro: perchè tu calunnii questo bel fatto? perchè fai che il popolo mi sia ingrato?

Non hai ucciso proprio il tiranno, e la legge dà premio a chi uccide il tiranno. Ma dimmi: che differenza v’è tra ucciderlo, e dargli cagione di morire? Nessuna, cred’io. Il legislatore riguardò solamente gli effetti, la libertà, la signoria del popolo, la fine delle ingiustizie; e questi volle onorare, questi credette degni di premio: e di questi non puoi negare che la cagione son io. Se io uccisi chi fece uscir lui di vita, spensi anche lui: la morte fu opera mia, la mano fu sua. Non sottilizzare su la maniera della morte, non cercare il modo ond’egli è morto; ma se egli non è più, e se per cagion mia non è più. Così pare che tu voglia cercare un’altra cosa, e calunniare chi ha fatto un benefizio, se egli non di spada, ma d’un sasso, d’un bastone, d’un altro modo l’avesse ucciso. Oh che? e se io avessi assediata la rocca, e sforzatolo a morir di fame, diresti che io dovevo ucciderlo di mia mano, e che non ho eseguito appunto la legge, mentre quel ribaldo è morto di maggiore [p. 125 modifica]strazio? Una cosa devi ricercare, una cosa dimandare, d’una brigarti: v’è rimasto qualcuno di quei malvagi? v’è cagione di paura? v’è altro argomento di sventure? Se tutto è pace e sicurezza, è un calunniatore chi sottilizzando sul modo del fatto vuol privare di ricompensa le fatiche. Io mi ricordo che sia scritto nella legge (se pure la lunga servitù non mi ha fatto dimenticarne le parole) che sono egualmente colpevoli e chi uccide uno, e chi non l’uccide di sua mano ma dell’altrui; e l’uno e l’altro la legge punisce di egual pena. E giustamente; perchè non vuole che il fatto sia da meno del consiglio; e non cerca del modo. Or chi uccide per consiglio tu credi giusto che come omicida debba esser punito senza remissione; e chi per lo stesso modo fece un bene alla città non lo credi degno del premio dovuto ai benefattori?

Nè puoi dire che io l’ho fatto a caso, che il bene che n’è venuto non era nella mia intenzione. — E che potevo più temere, ucciso il più forte? E perchè gli lasciai la spada fìtta nella gola, se non perchè prevedevo ciò che è successo? salvo se tu non dici questo, che non era tiranno il morto, che non aveva questo nome, e che voi non volevate dare più d’un premio, se ei fosse morto. Questo non puoi dirlo. Ora, ucciso il tiranno, non darai tu premio a chi è stato cagione della sua morte? Oh quanti scrupoli! Godi la libertà, e ti curi del come egli è morto? e chiedi qualche altra cosa da chi ha restituita al popolo la signoria? Eppure la legge, come tu dici, riguarda il fatto principale; i modi accessorii li lascia, non se ne cura. Forse chi scaccia un tiranno non ha il premio come chi l’uccide? Sì giustamente, perchè egli badata la libertà, e tolta la servitù. Io non li ho scacciati, sì che v’è paura che ritornino, ma li ho distrutti interamente, ho spenta tutta la schiatta, ho sterpata dalle radici la mala pianta.

Or deh, considerate punto per punto ogni cosa, se ho tralasciato nulla che la legge vuole, se mi manca nulla che si richiede in tirannicida. Primamente ei dev’essere d’animo generoso, amante della patria, voglioso di mettersi a pericoli pel bene comune, non curante di morire per la salute del popolo. Ho temuto io? mi sono scuorato? o pensando a’ pericoli mi son ritirato indietro? No. Ritieni questo solo per ora, e [p. 126 modifica]credi che pel solo volere, poi solo consiglio, ancorchè non ne sia venuto effetto buono, e pel saldo proponimento dell’animo io voglia il premio dei benemeriti. Se io non avessi potuto: se altri dopo di me avesse ucciso il tiranno, saria forse irragionevole ed assurdo il darmelo? specialmente se io dicessi: O cittadini, io l’ho meditato, l’ho voluto, l’ho tentato, io pel solo buon volere son degno d’un premio: che mi risponderesti allora! — Ora io non dico questo: ma, io sono salito, ho affrontato il pericolo, ho fatto mille pruove prima di uccidere il giovane. E non credete che sia cosa facile ed agevole superar la custodia, vincer le guardie, uno solo rovesciar tanti: anzi questa è l’opera maggiore e capitale nel tirannicidio. Non è difficile cogliere e spacciare un tiranno, ma quelli che custodiscono e sostengono la tirannide: vinti questi, il meglio è fatto, l’altro è niente: ed io non poteva giungere a lui se non atterrati i suoi cagnotti, e vinte tutte le guardie. Or questo mi basta, a questo punto rimango: ho superate le guardie, vinti i custodi, ridotto il tiranno senza difesa, inerme, nudo. Ti pare adesso che io meriti onore, o vuoi anche un’uccisione? E se vuoi un’uccisione, eccotela: io son lordo di sangue: ne ho fatta una grande e forte; ho ucciso un giovane nel fior degli anni, terribile a tutti, pel quale il tiranno non temeva insidie, nel quale solo confidava, il quale gli valeva per mille guardie. Non son degno di premio ancora? dopo questo fatto debbo andare inonorato? E che, se avessi ucciso un cagnotto, un ministro, un servo prediletto? Non saria stato un grande ardire montare in palazzo, ed in mezzo a tante armi, uccidere uno degli amici del tiranno? Ma eccoti morto lui stesso. Era figliuolo del tiranno, anzi tiranno più fiero, padrone più aspro, punitore più crudele, insultatore più violento, e, quel che è peggio, erede e successore che avria potuto prolungare d’assai le nostre miserie. Vuoi tu che io abbia fatto solo questo? che il tiranno viva ancora e sia fuggito? Ebbene, e per questo io chiedo il premio. Che dite? non me lo darete? Non abborrivate anche colui? non era egli despoto? non era egli grave? non insopportabile? Ma veniamo al punto principale. Ciò che costui chiede da me, io, secondo mio potere, l’ho fatto benissimo: ho ucciso il tiranno [p. 127 modifica]con una nuova maniera, non d’un colpo solo, come egli avria voluto dopo tante ribalderie, ma con tutti gli strazi del dolore, mostrandogli innanzi agli occhi l’amor suo miseramente trafitto, un fior di figliuolo, benchè malvagio, pure simile al padre, tutto sparso di sangue e di sanie. Li si ferisce un padre: questa è la spada de’ veri tirannicidi, questa è morte degna di crudeli tiranni, pena conveniente a tanti misfatti. Subito morire, subito perdere la conoscenza, senza vedere nessuno spettacolo come questo, non è pena per tiranno. Io non ignorava, come nessun altro ignorava, quanto amore egli portava al figliuolo, e come non gli saria sopravvissuto d’un sol giorno. Tutti i padri sono così fatti verso i figliuoli, ma costui più degli altri: ed a ragione, perchè questo figliuolo era il solo custode e difensore della tirannide, presidio del padre, sostegno della signoria. Ondose non per amore, io ero certo ch’ei saria morto per disperazione, toltogli il sostegno del figliuolo. Con tutte queste punte io l’ho trafitto, con l’amore, la disperazione, il terrore, lo spavento del futuro. Con queste armi l’ho trafitto, e spinto a quell’ultimo passo. Eccovelo morto senza figliuoli, dolente, piangente, straziato da strazio breve sì, ma bastante per un padre, e morto di sua mano, che è morte miserrima, e più amara che quella di mano altrui.

Dov’è la mia spada? forse altri la riconosce per sua? forse apparteneva ad alcun altro? chi la portò in palazzo? chi l’usò innanzi al tiranno? chi gliela ficcò nel corpo? spada, compagna e continuatrice delle mie imprese, dopo tanti pericoli, dopo tante morti, siamo spregiati e tenuti immeritevoli di premio. Se io solamente per questa vi chiedessi un onore, e vi dicessi: «O cittadini, volendo il tiranno morire e trovandosi inerme, questa mia spada lo servì, e fu lo strumento della comune libertà;» non credereste voi degno di onore e di premio il padrone di uno strumento che ha fatto tanto bene al popolo? non la terreste come vostra benefattrice? non appendereste questa spada in un tempio? non l’avreste come cosa sacra?

Immaginate con me ciò che dovè fare e dovè dire il tiranno prima di morire. Poichè il giovane fu da me trucidato e trafitto di molte ferite nella faccia, affinchè più se ne dolesse [p. 128 modifica]il padre e se ne sconturbasse a vederlo; lamentavasi miseramente e chiamava il genitore, non suo aiuto e difesa (che sapevalo già vecchio e debole), ma spettatore delle domestiche sventure. Io che ero l’autore di tutta la tragedia mi ritiro, e lascio ad un altro attore il cadavere, la scena, la spada, e il resto della rappresentazione. Sovraggiunge egli, e vedendo l’unico figliuol suo già darei tratti, tutto insanguinato e pieno di ferite e di squarci profondi e mortali, così dice: Ohimè, figliuol mio, Siam perduti, siam morti, siamo uccisi come tiranni! Dov’è l’uccisore? perchè non uccide anche me? perchè mi risparmia, avendo ucciso te, o figliuolo? Forse mi spregia come vecchio, e per maggiore tormento vuole allungarmi la morte, ed uccidermi a poco a poco? — Così dicendo cercava una spada; che egli era disarmato, e confidava tutto nel figliuolo. E la spada non gli mancò: io già l’aveva preparata, e lasciata a quest’uso. E traendo dalla ferita la spada sanguinosa, dice: Poco fa mi uccidesti, ora ristorami, e vieni, o spada, a consolare un padre infelice, ad aiutare la vecchia mano: uccidimi, e toglimi di questo dolore. Oh t’avessi scontrata prima io! oh non si fosse mutato l’ordine del morire! Fossi morto, da tiranno sì, ma con isperanza di vendetta: non così senza figliuoli, senza neppur uno che mi uccida! — Così dicendo s’affrettò ad uccidersi, tremando, dibattendosi tra il desiderio e l’impotenza di morire.

Quante pene sono queste? quante ferite? quante morti? quanti tirannicidii? e quanti premii mi dovreste dare? Finalmente voi tutti vedeste quel giovane terribile fatto cadavere, e il vecchio abbracciato ad esso, e misto il sangue d’entrambi, libazione grata alla libertà vincitrice; vedeste la mia spada che tutto fece, e che stando in mezzo a tutti e due mostrava come non era stata indegna del suo padrone, e fedelmente mi aveva servito. Questo fatto mio solo era poca cosa: ora per la sua novità è splendidissimo. Il distruttore di tutta la tirannide son io: ma le parti sono state divise come in un dramma. La prima ho rappresentata io, la seconda il figliuolo, la terza esso tiranno; la spada servì a tutti.


Note

  1. Il Tirannicida, il Diredato, e i due Falaridi, sono quattro declamazioni scolastiche, piene di leziosaggini, concettini, lambiccatura di pensieri, svenevolezza di stile. Le traduco solo perchè mi sono proposto di tradurre tutte le opere di Luciano, o a lui attribuite.