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La Bellezza dell'Universo (1891)

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Vincenzo Monti

Alfonso Bertoldi 1781 Indice:Poesie (Monti).djvu Letteratura La Bellezza dell'Universo Intestazione 10 giugno 2024 100% Da definire

Prosopopea di Pericle (1891) Al Principe Don Sigismondo Chigi
Questo testo fa parte della raccolta Poesie (Monti)


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LA BELLEZZA DELL’UNIVERSO


Contenuto: Il p. si propone di cantare la Bellezza dell’univ., ch’egli invoca diva ausiliatrice (1-12). Ma donde il principio? Dalla creazione del mondo, quando la Bellezza, posti in pace i discordi elementi del càos, seminò il cielo di stelle, coronò di lampi il sole, della luna fece dono alla notte ed empí il grembo dell’aurora di rose (13-54). Venne poi alla terra; e fece nascere prima le erbe, i fiori, le piante (55-69); poi gli animali feroci e i domestici (70-105) gl’insetti, i vermicciuoli e i pesci (106-120). Ma che? Bellezza si manifesta anche nei nevosi monti, e sul giogo del fumante Etna, e ne’ venti e nelle tempeste, e ne’ tuoni e ne’ baleni: ivi però la scorgono solo i sapienti, che i fenomeni naturali studiano con occhio indagatore (130-165). E chi potrà dir degnamente delle bellezze dell’uomo, s’è la piú bella delle cose create e chiude in sé uno spirito immortale (166-204), che perde, è vero, la primiera innocenza e fu deturpato dai vizi, ma venne e viene pur anco adornato da virtú? (205-243). E dove vola il mio immaginare? Torna, o diva, in terra, e non altrove che in Italia e in Roma, dove già ti lasciasti vagheggiare da Orazio e da Virgilio, da Michelangelo e da Raffaello (244-267), dove troverai in Vaticano grandezza e maestà, tue sorelle, e dove per te parlano all’occhio e le tele e i marmi, s’elevano suntuosi gli edifizi e risuona la notturna scena di potenti armonie (268285). E di te spira questa selva d’Arcadia, che acclama oggi agli sposi, ambo a te cari (286-303). Vieni dunque. Il tempo ti combatte, che toglie presto giovinezza dal volto: ma se tu sia a virtú congiunta, egli passerà e non t’offenderà: cosí abbandonerai il mondo solo quando il nulla l’assorba: allora porrai tua sede in cielo (304-322). — Il 19 agosto del 1781 furono in Arcadia festeggiate le nozze del principe Luigi Braschi Onesti e della contessa Costanza Falconieri, che, per sommo onore, vennero acclamati arcadi: egli Almedonte Cleoneo, ella Egeria Caritea. Lo sposo era figlio di Giulia Braschi, sorella del pontefice Pio VI, e di Gerolamo Onesti; la sposa, ch’ebbe in dote trenta mila scudi, di Mario e della contessa Giulia Millini. Il matrimonio era avvenuto il 4 giugno nella cappella Sistina e la benedizione nuziale era stata data dallo stesso pontefice. I doni ricevuti in quell’occasione dallo sposo e dalla sposa furono moltissimi e preziosissimi; e moltissimi, se non valentissimi, furono i poeti italiani e latini ch’esse nozze cantarono. Cfr. Vicchi VI, p. 14 e segg. Fra questi il primo fu naturalmente il M., il quale nel giorno su detto recitò in Arcadia lo splendido canto presente, che, per usare le parole stesse del poeta al fratello Francesc’Antonio, fece strepito grande per Roma e fu non ultima causa del suo ingresso come segretario in casa Braschi, avvenuto nell’ottobre del medesimo anno. — La Bellezza dell’Univ. (su la principal fonte della quale — un luogo del canto VII del Paradiso Perduto del Milton, ove un angelo narra ad Adamo la storia della creazione — cfr. quel che dice lo Zumb., p. 28 e segg.) fu pubblicata subito, ed è l’unica edizione che se ne abbia a parte, con questo titolo: «La Bell, dell’Univ. canto dell’ab. V. M. [p. 10 modifica]rese colla versione libera in francese di M. Blauvillain: Roma, per Antonio Fulgoni, 1781.» Cfr. Vicchi VI, p. 94. — Il metro è la terza rima, che Dante quasi certo inventò e che da nessuno, dopo Dante, fu meglio usata che dal Monti.

Della mente di Dio candida figlia,
     Prima d’Amor germana1, e di Natura
     Amabile compagna e maraviglia;
Madre de’ dolci affetti2, e dolce cura
     5Dell’uom che varca pellegrino errante
     Questa valle d’esilio e di sciagura3;
Vuoi tu, diva Bellezza, un risonante
     Udir inno di lode, e nel mio petto
     Un raggio tramandar del tuo sembiante?
10Senza la luce tua l’egro intelletto
     Langue oscurato, e i miei pensier se ’n vanno
     Smarriti in faccia al nobile subbietto.
Ma qual principio al canto, o dea, daranno
     Le Muse? e dove mai degne parole
     15Dell’origine tua trovar potranno?
Stavasi ancora la terrestre mole
     Del càos4 sepolta nell’abisso informe,
     E sepolti con lei la luna e il sole;
E tu, del sommo facitor su l’orme
     20Spazïando, con esso preparavi
     Di questo mondo l’ordine e le forme.
V’era l’eterna Sapïenza, e i gravi
     Suoi pensier ti venia manifestando
     Stretta in santi d’amor nodi soavi.
25Teco scorrea per l’infinito; e, quando
     Dalle cupe del nulla ombre ritrose5
     L’onnipossente creator comando

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Uscir fe’ tutte le mondane cose,
     E al guerreggiar degli elementi infesti
     30Silenzio e calma inaspettata impose,
Tu con essa alla grande opra scendesti,
     E con possente man del furibondo
     Càos le tenebre indietro respingesti,
Che con muggito orribile e profondo
     35Là del creato su le rive estreme
     S’odon le mura flagellar del mondo;
Simili a un mar che per burrasca freme6,
     E sdegnando il confine, le bollenti7
     Onde solleva, e il lido assorbe e preme8.
40Poi ministra di luce e di portenti,
     Del ciel volando pei deserti campi,
     Seminasti di stelle i firmamenti.
Tu coronasti di sereni lampi
     Al sol la fronte; e per te avvien che il crine
     45Delle comete rubiconde avvampi;
Che agli occhi di quaggiú, spogliate alfine
     Del reo presagio di feral fortuna,
     Invian fiamme innocenti e porporine.
Di tante faci alla silente e bruna
     50Notte trapunse la tua mano il lembo,
     E un don le festi della bianca luna;
E di rose all’Aurora empiesti il grembo9,
     Che poi sovra i sopiti egri mortali
     Piovon di perle rugiadose10 un nembo.
55Quindi alla terra indirizzasti l’ali;
     Ed ebber dal poter de’ tuoi splendori
     Vita le cose inanimate e frali.

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Tumide allor di nutritivi umori
     Si fecondâr le glebe, e si fêr manto
     60Di molli erbette e d’olezzanti fiori.
Allor, degli occhi lusinghiero incanto,
     Crebber le chiome ai boschi; e gli arbuscelli
     Grato stillâr dalle cortecce il pianto11.
Allor dal monte corsero i ruscelli
     65Mormorando, e la florida riviera
     Lambîr freschi e scherzosi i venticelli.
Tutta del suo bel manto primavera
     Copría la terra: ma la vasta idea
     Del gran fabbro12 compíta ancor non era.
70Di sua vaghezza inutile parea
     Lagnarsi il suolo, e con piú bel desiro
     Sguardo e amor di viventi alme attendea.
Tu allor raggiante d’un sorriso in giro
     Dei quattro venti su le penne tese
     75L’aura mandasti del divino spiro13.
La terra in sen l’accolse e la comprese14,
     E un dolce movimento, un brividío
     Serpeggiar per le viscere s’intese;
Onde un fremito diede, e concepío;
     80E il suol, che tutto già s’ingrossa e figlia15,
     La brulicante superficie aprío.
Dalle gravide glebe, oh maraviglia!,
     Fuori allor si lanciò scherzante e presta
     La vaga delle belve ampia famiglia.
85Ecco dal suolo liberar la testa,
     Scuoter le giubbe, e tutto uscir d’un salto
     Il biondo imperator della foresta16.
Ecco la tigre e il leopardo in alto
     Spiccarsi fuora della rotta bica17,

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     90E fuggir nelle selve a salto a salto.
Vedi sotto la zolla che l’implíca
     Divincolarsi il bue, che pigro e lento
     Isviluppa le gran membra a fatica18.
Vedi pien di magnanimo ardimento
     95Sovra i piedi balzar ritto il destriero,
     E nitrendo sfidar nel corso il vento;
Indi il cervo ramoso, ed il leggiero
     Daino fugace; e mille altri animanti19,
     Qual mansueto e qual ritroso e fiero;
100Altri per valli e per campagne erranti,
     Altri di tane abitator crudeli,
     Altri dell’uomo difensori e amanti.
E lor di macchia differente i peli
     Tu di tua mano dipingesti, o diva,
     105Con quella mano che dipinse i cieli.
Poi de’ color piú vaghi, onde l’estiva
     Stagion delle campagne orna l’aspetto
     E de’ freschi ruscei smalta la riva,
L’ale spruzzasti al vagabondo insetto20
     110E le lubriche anella21 serpentine
     Del piú caduco vermicciuol negletto.
Né qui ponesti all’opra tua confine;
     Ma vie piú innanzi la mirabil traccia22
     Stender ti piacque dell’idee divine.
115Cinta adunque di calma e di bonaccia,
     Delle marine interminabil’onde
     Lanciasti un guardo su l’azzurra faccia.
Penetrò nelle cupe acque profonde
     Quel guardo; e con bollor grato natura
     120Intiepidille, e diventâr feconde;
E tosto vari d’indole e figura
     Guizzaro i pesci, e fin dall’ime arene23
     Tutta increspâr la liquida pianura24.

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I delfin snelli colle curve schiene
     125Uscîr danzando; e mezzo il mar copriro
     Col vastissimo ventre orche e balene.
Fin gli scogli e le sirti allor sentiro
     Il vigor di quel guardo e la dolcezza,
     E di coralli e d’erbe si vestiro.
130Ma che? Non son, non sono, alma Bellezza,
     Il mar, le belve, le campagne, i fonti
     Il sol teatro della tua grandezza.
Anche sul dorso dei petrosi monti
     Talor t’assidi maestosa, e rendi
     135Belle dell’alpi le nevose fronti.
Talor sul giogo abbrustolato ascendi
     Del fumante Etna25, e nell’orribil veste
     Delle sue fiamme ti ravvolgi e splendi.
Tu del nero aquilon26 su le funeste
     140Ale per l’aria alteramente vieni,
     E passeggi sul dorso alle tempeste:
Ivi spesso d’orror gli occhi sereni
     Ti copri, e mille intorno al capo accenso
     Rugghiano i tuoni e strisciano i baleni.
145Ma sotto il vel di tenebror sì denso
     Non ti scorge del vulgo il debil lume27,
     Che si confonde nell’error del senso.
Sol ti ravvisa di Sofia l’acume,
     Che nelle sedi di natura ascose
     150Ardita spinge del pensier le piume28.
Nel danzar delle stelle armonïose
     Ella ti vede, e nell’occulto amore29
     Che informa e attragge le create cose.
Te ricerca con occhio indagatore
     155Di botaniche armato acute lenti30
     Nelle fibre or d’un’erba ed or d’un fiore.
Te dei corpi mirar negli elementi

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     185E parte e riede, e or ratto ed or restio
     Varca pianure, e gioghi aspri sormonta;
E tutta la persona entro il cuor mio
     La maraviglia piove, e mi favella
     Di quell’alto saper che la compio.
190Taccion d’amor rapiti intorno ad ella
     La terra, il cielo; ed: Io, son io, v’è sculto,
     Delle create cose la piú bella.
Ma qual nuovo d’idee dolce tumulto!
     Qual raggio amico delle membra or viene
     195A rischiararmi il laberinto occulto?
Veggo muscoli ed ossa, e nervi e vene;
     Veggo il sangue e le fibre, onde s’alterna
     Quel moto che la vita urta e mantiene31;
Ma nei legami della salma32 interna,
     200Ammiranda prigion!, cerco, e non veggio
     Lo spirto che la move e la governa.
Pur sento io ben che quivi ha stanza e seggio,
     E dalla luce di ragion guidato
     In tutte parti il trovo e lo vagheggio.
205O spirto, o immago dell’Eterno33, e fiato
     Di quelle labbra alla cui voce il seno
     Si squarciò dell’abisso fecondato,
Dove andâr l’innocenza ed il sereno
     Della pura beltà, di cui vestito
     210Discendesti nel carcere terreno?
Ahi misero! t’han guasto e scolorito
     Lascivia, ambizïon, ira ed orgoglio,
     Che alla colpa ti fêro il turpe invito!
La tua ragione trabalzâr dal soglio34,

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     215E lacero, deluso ed abbattuto
     T῏abbandonâr nell’onta e nel cordoglio,
Siccome incauto pellegrin caduto
     Nella man de’ ladroni, allorché dorme
     Il mondo stanco e d’ogni luce muto35.
220Eppur sul volto le reliquie e l’orme
     Fra il turbo degli affetti e la rapina36
     Serbi pur anco dell’antiche forme:
Ancor dell’alta origine divina
     I sacri segni riconosco, ancora
     225Sei bello e grande nella tua rovina;
Qual ardua antica mole, a cui talora
     La folgore del cielo il fianco scuota
     Od il tempo che tutto urta e divora,
Piena di solchi37 ma pur salda e immota
     230Stassi, e d’offese e d’anni carca aspetta
     Un nemico maggior che la percota.
Fra l’eccidio e l’orror della soggetta
     Colpevole natura, ove l’immerse
     Stolta lusinga e una fatal vendetta38,
235Piú bella intanto la virtude emerse,
     Qual’astro che splendor nell’ombre acquista,
     E in riso i pianti di quaggiú converse39.
Per lei gioconda e lusinghiera in vista
     S’appresenta la morte, e l’amarezza
     240D’ogni sventura col suo dolce è mista40.
Lei guarda il ciel dalla superna altezza
     Con amanti pupille; e per lei sola
     S’apparenta dell’uomo alla bassezza41.
Ma dove, o diva, del mio canto vola
     245L’audace immaginar42? dove il pensiero
     Del tuo vate guidasti e la parola?
Torna, amabile dea, torna al primiero
     Cammin terrestre, nè mostrarti schiva

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     Di minor vanto e di minor impero.
250Torna; e, se cerchi errante fuggitiva
     Devoti per l’Europa animi ligi
     E tempio degno di sì bella diva,
Non t’aggirar del morbido43 Parigi
     Cotanto per le vie, né su le sponde
     255Della Neva, dell’Istro e del Tamigi44.
Volgi il guardo d’Italia alle gioconde
     Alme contrade45, e per miglior cagione
     Del fiume Tiberin férmati all’onde.
Non è straniero il loco e la magione.
     260Qui fu dove dal cigno venosino46
     Vagheggiar ti lasciasti e da Marone47;
E qui reggesti del pittor d’Urbino48
     I sovrani pennelli, e di quel d’Arno49
     «Michel piú che mortale angel divino»50.
265Ferve d’alme sì grandi, e non indarno,
     Il genio redivivo. Al suol romano51
     D’Augusto i tempi e di Leon tornarno52.
Vedrai stender giulive a te la mano
     Grandezza e Maestà, tue suore antiche,
     270Che ti chiaman da lungi in Vaticano.
T’infioreranno le bell’Arti amiche
     La via, dovunque volgerai le piante,
     Te propizia invocando alle fatiche.

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Per te all’occhio divien viva e parlante
     275La tela e il masso53, ed il pensiero è in forsi
     Di crederlo insensato o palpitante54:
Per te di marmi i duri alpestri dorsi
     Spoglian le balze tiburtine e il monte
     Che Circe empieva di leoni e d’orsi55,
280Onde poi mani architettrici e pronte
     Di moli aggravan la latina arena
     D’eterni fianchi56 e di superba fronte:
Per te risuona la notturna scena57
     Di possente armonia, che l’alme bèa
     285E gli affetti lusinga ed incatena.
E questa selva58, che la selva ascrea
     Imita e suona di febeo concento,
     Tutta è spirante del tuo nune, o dea;
E questi lauri che tremar fa il vento,
     290E queste che premiam tenere erbette,
     Sono d’un tuo sorriso opra e portento.
E tue pur son le dolci canzonette
     Che ad Imeneo59 cantar dianzi s’intese
     L’arcade schiera su le corde elette.
295Stettero al grato suon l’aure sospese,
     E il bel Parrasio a replicar fra nui
     Di Luigi e Costanza il nome apprese.
Ambo cari a te sono; e ad ambidui
     Su l’amabil sembiante un feritore
     300Raggio imprimesti de’ begli occhi tui;
Raggio che prese poi la via del core,
     E di virtù congiunto all’aurea face,
     Fe’ nell’alme avvampar quella d’amore.

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Vien dunque, amica diva. Il tempo edace60,
     305Fatal nemico, colla man rugosa
     Ti combatte, ti vince e ti disface61.
Egli il color del giglio e della rosa
     Toglie alle gote piú ridenti, e stende
     Da per tutto la falce ruinosa.
310Ma, se teco Virtú s’arma e discende
     Nel cuor dell’uomo ad abitar sicura,
     Passa il veglio rapace e non t’offende62.
E solo, allorchè fia che di natura
     Ei franga la catena, e urtate e rotte
     315Dell’universo cadano le mura,
E spalancando le voraci grotte
     L’assorba il nulla e tutto lo sommerga
     Nel muto orror della seconda notte,
Al fracassato mondo allor le terga
     320Darai fuggendo; e su l’eterea sede,
     Ove non fia che tempo ti disperga,
Stabile fermerai l’eburneo63 piede.

Varianti

[p. 9 modifica] [p. 10 modifica]N. B. Queste varianti sono state ricavate, oltre che dall’ediz. principe del Fulgoni, indicata con un ’81, da ambedue le citate ediz. de’ Versi dell’83 e dell’87, indic. co’ numeri stessi. Cfr. il N. B. a p. 2.

1. Oh leggiadra del ciel (’81). Del pensiero di Dio (’83, ’87).
2. Oh Germana d’Amore (’81).
4. Madre di dolci affetti (’81, ’83 e ’87).
22-24. Teco l’eterna Sapïenza i gravi Suoi pensier dividea mille alternando Di celeste amistà pegni soavi (’81). [p. 11 modifica]
23. Sbucar fe’ tutte (’81, ’83 e ’87).
41. Trascorrendo del ciel gli aperti campi (’81). [p. 12 modifica]
59. s’ammantaro (’81).
61-63. Delle frondi la pompa allor spiegaro Vagamente le piante, e i pinti augelli Del lor canto le selve innamoraro (’81).
73. dipinta d’un sorriso (’81, ’83 e ’87).
76. del divin sospiro (’81, ’83 e ’87). [p. 13 modifica] [p. 14 modifica]
142-3. Ivi di fosco orror copri i sereni Occhi fulgenti, e intorno al (’81).
147. Che s’avviluppa (’81). [p. 15 modifica]
172. che guarda il cielo e (’81, ’83, ’81). [p. 16 modifica]
187-89. E tutta la persona al guardo mio, Spettacolo gentil! tutta favella Della man di lassù che la compìo. (’81).
192. Delle cose create (’81).
194-5. Chi dell’umane membra a rapir viene Il mio pensier nel labirinto occulto? (’81). [p. 17 modifica] [p. 18 modifica]
250. errante e fuggitiva (’81).
273. a lor fatiche (’81). [p. 19 modifica] [p. 20 modifica]
319. Al rovesciato mondo (’81).
322. A quest’ultimo verso seguono nell’ediz. ’81 questi altri: Di Luigi scrivendo, e di Costanza Sul Cielo il nome; e di lor bella fede Rinnovando lassù la rimembranza.

Note

  1. 2. germana: sorella.
  2. 4. Madre ecc. Lucrezio De R. N. I, 20: Omnibus incutiens blandum per pectora amorem.
  3. 6. Questa valle... di sciagura: Ricorda l’in hac lacrymarum valle della nota preghiera Salve, regina.
  4. 17. caos: la confusione della materia prima che l’universo fosse. Cfr. Ovidio Metam. I, 5.
  5. 26. ritroso: Significa la opposizione che le ombre del nulla fecero a Dio perché non creasse; ma fu opposizione che per vincersi non importò piú d’un comando, Versi codesti, che tengono del sublime
  6. 37. mar che... freme: Ariosto X, 40: «Né cosí freme il mar, quando l’oscuro Turbo discende, e in mezzo se gli accampa».
  7. 88. Bollenti, perché nel moto è calore.
  8. 39. Assorbe in sé, e quindi tien sotto (preme).
  9. 45. «In antico le comete si ebbero come segni o di guerra o di pestilenze. E malgrado ogni argomento scientifico in contrario, dal volgo superstizioso si persiste a credere cosí. Il Tasso nel IV [st. 7] della Gerus. dice che di Plutone «Come infausta cometa, il guardo splende», mostrando pure come fosse inseparabile dalla cometa un’impressione di tristezza e un certo presentimento di disgrazie. L’aggiunto porporine qui non sta a significare la luce rossastra, essendo già quest’idea nell’attributo rubiconde, ma vale semplicemente splendenti. Poetae purpureum dixerunt quidquid nitet ac splendidum est. La voce cometa poi viene dal greco kóme, chioma, e il M. s’è qui in certo modo compiaciuto di riportare la parola alla sua etimologia». Pierg.
  10. 52. E di rose ecc.: Tasso (III, 1), dell’Aurora: «Ella intanto s’adorna, e l’aurea testa Di rose còlte in paradiso infiora». E l’Ariosto (XIII, 43): «uscì con la ghirlanda Di rose adorna e di purpurea stola La bianca Aurora al solito cammino». — 54. perle rugiadose: le stille di rugiada, illuminate dalla luce sorgente. Tasso VI, 103: «E già spargea rai luminosi e gelo Di vive perle la
  11. 63. il pianto: gocce d’aromi. Cfr. Serm. Mit., 77.
  12. 69. Del gran fabbro: del Creatore.
  13. 73. Costruisci e spiega: tu allora, raggiante d’un sorriso, su le penne tese dei quattro venti, cioè per tutto il mondo, mandasti in giro l’aura dello spirito divino (la forza creatrice di Dio).
  14. 76. comprese: contenne. Petrarca Trionf. Mort. I, 73: «Ed ecco da traverso Piena di morti tutta la campagna, Che comprender non può prosa né verso».
  15. 80. figlia: partorisce. Dante Purg. xxviii, 112; «E l’altra terra, secondo ch’è degna Per sé o per suo ciel, concepe e figlia Di diverse virtù diverse legna». Tasso XVIII, 26: «Quercia gli appar, che per sé stessa incisa Apre feconda il cavo ventre, e figlia».
  16. 87. Il biondo ecc.: il leone.
  17. 89. bica:
  18. 93. Isviluppa ecc.: L’accento su la terza rende armonia imitativa, come rendono bellissimo suono tutte queste terzine, una piú dell’altra maravigliosa.
  19. 98. animanti: esseri animati. Ariosto VIII,79: «Già in ogni parte gli animanti lassi Davan riposo ai travagliati spirti n.
  20. 109. al vagabondo insetto: alla farfalla.
  21. 110. lubriche: che sdrucciolano. — anella: quelle del suo corpo.
  22. 118. traccia: segno.
  23. 122. dall’ime arene: dal profondo del mare.
  24. 123. liquida pianura: Virgilio En. II, 780:
  25. 137. Etna: il monte della Sicilia, «che fa col fuoco Chiara la notte, e il dí di fumo oscura». Ariosto XLIII, 165.
  26. 139. aquilon: vento di Nord. Salmi XVII, 10: «Volò sull’ale de’ venti». Tutta la terzina ha intonazione biblica.
  27. 145. Ma sotto il vel ecc.: ma il volgo, offeso nel senso dai tuoni e dalle folgori (i tuoni sono, secondo Ovidio, della mente agitatori: cfr. Metam. I, 55), non intende quel che di bello hanno le tempeste.
  28. 150. Ardita Ecc.: «Frase tutta dantesca, per dire che la filosofia naturale spiega le cagioni dei fenomeni metereologici». Pierg.
  29. 152. nell’occulto amore ecc.: Accenna alla teoria della gravitazione universale. Cfr. la nota al v. 121, Al Sig. di Mont.
  30. 155. Di botaniche... lenti: di lenti
  31. 197. onde s’alterna ecc.: per le quali avviene la circolazione del sangue (effetto del movimento alternato del cuore quando si restringe sistole - e quando s’allarga - diastole -), che eccita (urta) e mantiene la vita.
  32. 199. salma: corpo. Secondo l’origine greca (ságma), significa propriam. soma, peso. Cfr. Petrarca P. I, canz. VI, 29 e XVII, 56. Oggi s’usa più spesso per corpo dell’uomo morto, o anche, come qui, per corpo umano. Cfr. Ariosto XXXVIII, 82; Parini Od. IV, 65; V, 78; VII, 82 ecc. ecc.
  33. 205. O immago dell’Eterno: Ovidio (op. e loc. cit.): in effigiem moderantum cuncta deorum.
  34. 214. La tua ragione ecc.: il Parini (Od. VI. 18), del Bisogno: «Oltre corri, e fremente Strappi
  35. 219. d’ogni luce muto: È un emistichio dantesco: cfr. Inf. V, 28.
  36. 221. Fra il turbo ecc.: fra il turbine e il vortice delle passioni.
  37. 229. di solchi: dei segni rovinosi del tempo.
  38. 234. stolta lusinga: quella di Adamo e d’Eva, di farsi simili a Dio. Cfr. Genesi III, 5. — fatal vendetta: la vendetta necessaria (fatal) del peccato. Anche il Manzoni (Il Nat., 17), dell’uomo peccatore: «un’ineffabile Ira promessa all’imo D’ogni malor gravollo».
  39. 237. E in riso ecc. Il Petrarca (P. III, canz. vii, 36), di Maria: «Vergine benedetta, Che pianto d’Eva in allegrezza torni».
  40. 239. e l’amarezza ecc.: «Qualunque sciagura, sopportata con rassegnazione, ha con sé un po’ di dolcezza, derivante appunto da ossa virtú». Pierg.
  41. 242. e per lei sola ecc.: Dio si fece uomo, solo per riacquistare l’uman genere a virtù. Dante Parad. vii, 30: «al verbo di Dio discender piacque U’ la natura che dal suo Fattore S’era allungata, unio a sé in porsona, Con l’atto sol del suo eterno amore».
  42. 244. Ma dove ecc.: Orazio Od. III, n, 70; Quo, Musa, tendis? Chiabrera (ode: Se gir per l’aria vòti): «Deh dove corro»? Cfr. anche Parini Od. II, 121 e XVI, 301. —
  43. 253. morbido: lascivo.
  44. 255. Della Neva ecc.: Nomina i fiumi invece delle città che essi bagnano (cfr. la nota al v. 39, p. 4): La Neva invece di Pietroburgo; l’Istro (Danubio) invece di Vienna; il Tamigi invece di Londra.
  45. 256. alle gioconde ecc.: alle liete e nobili (lat. alo: alimento e quindi che dà animo, vita) terre d’Italia. Petrarca P. III, canz. iv, 9: «Ti volga al tuo diletto almo paese».
  46. 260. dal cigno venosino: da Orazio, scrittore di liriche, di epistole e di satire latine celebratissimo, nato a Venosa nel ’65 e morto nell’8 av. C. in Roma. — cigno: uccello d’acqua bianchissimo e bellissimo, consacrato ad Apollo e a Venere, simbolo, fin dall’antichità, de’ poeti (cfr. Orazio Od. IV, ii, 23 e II, xx, 9), perché si credette erroneamente ch’egli, vicino a morte, spiegasse un dolcissimo canto. Cfr. Ovidio Metam. XIV, 430.
  47. 261, Marone: Pub. Virgilio Marone, il glorioso autoro dell’Eneide, delle Georgiche, delle Bucoliche ecc. nato ad Andes (Mantova) nel ’70 e morto a Brindisi nel 19 av. C.
  48. 262. del pittor d’Urbino: di Raffaello Sanzio (1483-1520), urbinate, il maggior pittore non pure d’Italia, ma del mondo, che lavorò gran parte di sua vita in Roma sotto i pontefici Giulio II e Leone X.
  49. 263. di quel d’Arno ecc.: di Michelangelo Buonarroti (1474-1563), fiorentino, sommo pittore, scultore e architetto, buon poeta, ottimo cittadino: uno de’ piú grandi uomini che siano apparsi su la faccia della terra. Lavorò, com’è noto, in Roma sotto Giulio II ed altri pontefici.
  50. 264. Michel ece.: È un verso dell’Ariosto: cfr. XXXIII, 2.
  51. 266. Al suol ecc.: cfr. le note a’ vv. 44 e 65, p. 4 e 5.
  52. 267. Augusto: Cesare Ottaviano Augusto, primo imperatore romano (63 av. C. - 14 d. C.), che, per le arti della pace ch’egli favorì grandemente, ebbe la gloria, a pochi serbata, di dar nome al suo secolo. — Leon: Giovanni de’ Medici (1475-1521), figlio di Lorenzo il Magnifico, che, eletto papa nell’11 marzo 1513, tolse il nome di
  53. 275. La tela e il masso: la pittura e la scoltura.
  54. 276. insensato o palpitante: o pura materia, o corpo vivente. Dante (Purg. x, 39), di gente incisa nel marmo, che sembra cantare: «a duo miei sensi Facea dicer l’un No, l’altro canta».
  55. 278. le balze tiburtine: le colline di Tivoli. Cfr. la nota al v. 9, p. 2. Le balze e il monte sono soggetti della proposizione. — il monte ecc.: il Circello nel circond. di Velletri, che forma dalla parte di levante il golfo di Terracina. Si favoleggia togliesse il nome dalla maga Circe, figlia del Sole, che vi avrebbe avuta stanza, mutando i suoi amanti in bestie. Cfr. Virgilio En. VII. 10.
  56. 282. D’eterni fianchi è dipendente da moli.
  57. 283. la notturna scena: il teatro (propriam. il palcoscenico). Cosí ha nominato la scoltura, la pittura, l’architettura e la musica. Resta la poesia, della quale dirà nelle terzine seguenti.
  58. 286. E questa selva ecc.: il bosco Parrasio, che voleva imitare la selva d’Ascra nella Beozia, ove tenevano le loro adunanze gli Arcadi e dove si festeggiarono le nozze Braschi. Peccato che il p. sia dalla necessità costretto a scendere in mezzo a questi poveri Arcadi e alle loro dolci canzonette, e che la bellezza dell’univ. debba venirsi a chiudere ne’ lauri e nelle erbette del loro bosco.
  59. 293. Imeneo: dio del matrimonio, che «Le salme accoppia, e con l’ardente
  60. 304. edace: che divora. che consuma. Ovidio Ep. ex Pon. IV, x,7: Tempus edax perdet omnia.
  61. 309. Il tempo si rappresenta in un vecchio con falce in mano, simbolo della distruzione.
  62. 310. Ma se teco ecc. Qui il p. viene, come dire, alla moralità, che ne’ componimenti d’allora per nozze, ci doveva sempre, bene o male, entrare. Non ne seppe far senza nemmeno il Parini nella sua canzonetta Le nozze. Cfr. Card. Con. Crit. p. 269. Se non che a proposito di questo luogo del M. a ragione osserva lo Zumb., p. 38: «Se dicendo: «Ma, se teco ecc.», intendeva il rivolger sempre le sue parole alla stessa Bellezza dell’Univ., egli erra; ché, congiunta o non congiunta a virtú, quella bellezza sí nei volti e sí in tutte le altre forme particolari, è sempre soggetta all’azione del tempo. — Se poi, a difesa del poeta, si rispondesse che qui non si tratta piú della bellezza fisica, sí bene della bellezza morale, ch’è la stessa Virtú, allora, peggio che peggio; perché il p., seguitando, verrebbe a dire che la sola bellezza morale, o Virtú che si voglia, non offesa mai dal tempo, durerà nel mondo quanto il mondo stesso. Ma il vero è che il medesimo poteva affermarsi della Bellezza fisica, della quale, nei due primi terzetti, erasi detto che il tempo la combatte e vince da per tutto: perocché anche la Bellezza, disfatta nei gigli e nelle rose di un volto, si rifà sempre in un muovo volto, finché esista la specie umana».
  63. 322. eburneo: bianco come l’avorio.