La Città dell'Oro/20. La prima minaccia dei figli del Sole

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20. La prima minaccia dei figli del Sole

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20. La prima minaccia dei figli del Sole
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XX.

La prima minaccia dei figli del sole.

Nei giorni seguenti l’indiano ed i tre uomini bianchi, che avevano fretta di partire, non perdettero tempo.

Caduto il gigantesco bambù, che era stato consumato dal fuoco alla base, Yaruri in breve tempo ne ricavò un canotto lungo dieci metri, largo quasi un metro e mezzo, leggero sì ma solidissimo. Non possedendo remi, i quali erano andati perduti nel naufragio della scialuppa, l’indiano fabbricò otto paia di tacarì, ossia di lunghe pagaie, non essendo gli uomini bianchi abituati ad adoperare quelle corte usate dagli indiani.

Don Raffaele intanto aveva preparato il cuac che poi trasformò in cassava, mentre il dottore ed Alonzo seccarono a lento fuoco una rispettabile provvista di [p. 288 modifica]pesci, raje spinose, piraia, pemecrù, storioni, traira e cascudo.

Sette giorni dopo il naufragio della scialuppa, tutto era pronto per la partenza.

Imbarcarono i viveri accomodandoli a prua ed a poppa per meglio equilibrare il canotto e la mattina del settimo giorno lasciavano le sponde della savana tremante, salendo, senza incidenti, la cateratta.

Il canotto si comportava bene. Era molto più leggero della scialuppa e scivolava sull’acqua con poca forza. Due remi erano sufficienti per farlo avanzare con una rapidità di quattro miglia all’ora, permettendo ai naviganti in tale modo di scambiarsi.

Due giorni dopo giungevano alla foce del Vichada o Vicciada, fiume grossissimo che scende da ponente, un tempo conosciuto dai gesuiti che nei loro primi tempi avevano radunato su quelle sponde delle borgate d’indiani Salivi, ma poi dimenticato. Sbocca quasi di fronte al Tépapue, affluente che nasce invece nelle pianure d’oriente.

È colà che l’Orenoco cambia nome, prendendo quello di Athiele, nome dato, a quanto sembra, dagli indiani Ascaqui e Catupli.

S’arrestarono qualche giorno per provvedersi di carne fresca, abbattendo alcuni formichieri che avevano [p. 289 modifica]... si vedevano emergere e sparire rapidamente dei grossi serpenti d’acqua (pag. 304). [p. 291 modifica]sorpresi presso un formicaio di termiti, poi proseguirono il viaggio passando dinanzi la foce del Zuma, affluente di sinistra e quindi a quella del Guaaviari chiamato anche Attavapa, uno dei più grossi che ha la sorgente presso Quito e che per lungo tempo fu creduto il tronco principale dell’Orenoco.

Dopo una nuova fermata per riposarsi, essendo sfiniti dal duro esercizio del remo, oltrepassavano le foci dell’Inirida, affluente pure di sinistra, poi dell’Atalapo che pare comunichi col Rio Guanini, affluente del Cassiquari, e undici giorni più tardi, dopo d’aver attraversato regioni deserte e assolutamente selvagge, giungevano all’imboccatura del Venituari, il fiume che doveva condurli alla tanto sospirata Città dell’Oro.

Nello scorgere le acque di quel fiume che si scaricavano nell’Orenoco con grande furia, Yaruri, per la prima volta, pronunciò il nome di Yopi.

— La vita d’Yopi è mia! — esclamò egli, con accento intraducibile.

Poi spinse il canotto verso la sponda, lo arenò profondamente su di un banco di sabbia, abbandonò i remi, incrociò le braccia sul petto e guardando fisso fisso don Raffaele con due occhi che lampeggiavano, disse:

— Parliamo, padrone. [p. 292 modifica]

— Cosa vuoi dire? — chiese il piantatore, un po’ sorpreso da quell’esordio inaspettato.

— Io ho mantenuto fedelmente la parola e ti ho condotto sulla via che conduce a quella famosa Città dell’Oro che i tuoi compatrioti, da secoli, invano cercano. Io tradisco la mia tribù, tradisco il segreto da tanti anni celato agli uomini della tua razza; forse io sarò il distruttore dei miei fratelli, dei figli di quegli uomini che scesero dalle lontane regioni ove il sole tramonta per sfuggire all’oppressione degli uomini bianchi, e tutto questo per vendicarmi di Yopi. Ora esigo da te, padrone per oggi, ma non domani perchè sono indiano libero, che mi aiuti nella mia vendetta.

— Parla, Yaruri, — disse don Raffaele.

— Sei sempre risoluto a seguirmi?

— Sempre.

— E ad aiutarmi nella rivendicazione dei miei diritti?

— E quali sono?

— Diventare capo supremo dei figli del Sole, innanzi a tutto.

— Noi ti aiuteremo nel limite delle nostre forze.

— Ed a uccidere Yopi.

— Questo è affare tuo e noi di ciò non c’immischieremo.

L’indiano parve sorpreso da quella risposta, ma dopo alcuni istanti di riflessione, disse: [p. 293 modifica]

— Forse hai ragione. Quando sarò capo supremo della tribù, penserò io a vendicarmi.

— Ora lascia parlare me — disse don Raffaele.

— Gli orecchi di Yaruri ti ascoltano.

— È numerosa la tribù dei figli del Sole?

— Conta parecchie migliaia d’indiani ed è alleata ad altre tribù pure numerose.

— E basteremo noi a vincere tanti indiani?

Un sorriso sfiorò le labbra di Yaruri.

— Ho dei partigiani fra i Cassipagotti — disse poi. — I figli del Sole non conoscono le armi da fuoco e calcolo sul tuono che producono per ispaventarli.

— Allora conta su di noi.

— Ho la tua parola?

— L’hai.

— Sta bene. Yopi è mio!... Partiamo!...

— Quanti giorni sono necessari per giungere a Manoa?

— Quattro.

— Sempre salendo il fiume?

— No, fra due giorni l’abbandoneremo e marceremo attraverso le montagne. Si potrebbe salirlo più oltre, ma non è prudente. Partiamo!...

Tornarono a riprendere i remi e si misero a salire il fiume che scendeva fra due sponde coperte da grandi [p. 294 modifica]foreste di palme d’ogni specie, le quali erano unite così strettamente, da non lasciar passare, nemmeno un uomo. Quel fiume pareva che fosse assolutamente deserto. Non si vedeva alcuna capanna sorgere su quelle rive, nè alcun canotto ormeggiato. Perfino gli uccelli erano radi e le scimmie mancavano affatto.

Verso le due, Yaruri additò la vetta di alcune montagne che si elevavano sulla sponda destra. Erano tre, assai acuminate, irte di foreste fino a metà e più oltre assolutamente aride.

— Manoa è là!... — diss’egli.

Ma nel pronunciare quelle parole, la voce gli tremava. Forse la sua coscienza ribellavasi contro la sua volontà, ed aveva esitato a tradire a quegli stranieri il segreto, così ben mantenuto per tre secoli dai suoi compatrioti.

Verso sera approdavano dinanzi ad una savana tremante che era divisa dal fiume da una lingua di terra larga pochi passi. Quasi nel medesimo tempo, fra gli alberi che costeggiavano la savana, si udì un grido stridulo. Yaruri trasalì.

— Cos’è? — chiese don Raffaele. — Un segnale forse?

— Un uccello che abita questi boschi, — rispose Yaruri. [p. 295 modifica]

— Ne sei certo?

— Non m’inganno.

Cenarono con un po’ di cassava ed un pezzo di selvaggina cucinata al mattino, non osando accendere il fuoco, poi si coricarono sotto la cupa ombra d’una palma jupatà, sotto la guardia dell’indiano, a cui spettava il primo quarto.

Non era trascorsa un’ora che il grido poco prima udito si ripetè, ma meno acuto e molto più vicino.

Yaruri si era alzato tenendo in pugno la carabina del piantatore. Diede uno sguardo ai compagni che dormivano tranquillamente, poi s’avanzò sulla lingua di terra e si arrestò dinanzi ad una cuiera, enorme pianta da zucche che ha foglie larghe e numerose, i rami sempre coperti da piante parassite, il tronco seppellito sotto un ammasso di muschi e che produce delle frutta lucenti, d’un verde pallido, di forma sferica, grosse come un popone, contenenti una polpa bianchiccia e molle. Quelle zucche, tagliate per metà, vuotate e seccate, servono agli indiani da recipienti e da piatti.

Sotto l’ombra di quella gigantesca pianta, stava un indiano di alta statura, col viso e il petto tatuato, colla fronte cinta da una pezzuola rossa come un tempo usavano gli Inchi del Perù e coi fianchi coperti da un [p. 296 modifica]sottanino pure di stoffa rossa. Era armato d’una cerbottana, ma l’aveva deposta ai propri piedi, come per dimostrare le sue pacifiche intenzioni.

Nel vederlo, Yaruri si era fermato mormorando:

— Tu, Sipana?

— Io, Yaruri — rispose l’indiano. — Avevi udito il segnale?

— Sì — rispose Yaruri con voce cupa.

— T’aspettavo da sette giorni.

— Come sapevi che io stavo per ritornare?

— Degli uomini fedeli t’avevano veduto cogli uomini bianchi.

— Erano quelli che ci affondarono la scialuppa?

— Sì.

— Chi sono?

— Cosa t’importa?... Sono indiani che non tradiscono la loro tribù.

— Ah! — fe’ Yaruri coi denti stretti. — E tu, cosa vuoi?... Perchè mi hai chiamato?... Chi è che ti ha mandato?...

— Yopi.

— Lui!... — esclamò l’indiano con voce rauca.

— Sì, Yopi.

— E cosa vuole da me?

— T’invita a ritornare nell’Orenoco. [p. 297 modifica]Tutti quei rettili si erano fermati intorno al gruppo formato da Yaruri e dai suoi compagni.... (pag. 316). [p. 299 modifica]

— Io!... Mai!... Mi occorre la vita di Yopi!...

— Yaruri — disse l’indiano con tono grave. — Sei un Cassipagotto, alleato degli Eperomerii, un figlio dei discendenti del Sole come me e come tutti quelli delle nostre tribù.

— Non lo sono più: sono un indiano senza tribù.

— Yaruri, tu tradisci la patria.

— Yaruri non ha più patria.

— Tradisci il segreto secolare.

— Ma mi vendico di Yopi.

— Yaruri, noi siamo potenti.

— E gli uomini bianchi sono più potenti di voi.

— Non hai più partigiani.

— Tu menti.

— No, perchè nessuno avvicinerà un traditore.

— Non importa: ho con me gli uomini bianchi.

— Yaruri, ritorna, e Yopi promette di lasciarti andare libero.

— Mai!...

— Ti farai uccidere.

— Ma prima ucciderò Yopi.

— Vuoi la guerra?

— Sì, la voglio.

— Sventura a te ed agli uomini bianchi!

L’eperomero raccolse la cerbottana, si cacciò in [p. 300 modifica]mezzo ai rami d’una cuiera e sparve nel vicino bosco. Yaruri rimase immobile alcuni minuti, assorto in profondi pensieri, poi ritornò lentamente all’accampamento e si sdraiò a fianco degli uomini bianchi, mormorando:

— Yaruri non ha più patria: l’indiano che odia non ha che la vendetta!...

Quando Alonzo lo surrogò nel quarto di guardia, l’indiano tacque sul colloquio avuto con quel primo nemico, ma lo consigliò a vegliare attentamente.

L’alba spuntò senza che nulla fosse avvenuto. Yaruri, che aveva nascosto anche a don Raffaele l’incontro fatto, diede il segnale della partenza prima del solito. Voleva guadagnare via prima che i suoi compatrioti si preparassero alla difesa? Era probabile?

Il fiume era sempre disabitato, ma le sue sponde erano coperte, come prima, di boschi interminabili. Di tratto in tratto erano interrotte da immense savane tremanti, entro le quali si vedevano apparire dei lunghi serpenti d’acqua.

Navigavano da quattro ore, quando verso l’alto corso del fiume udirono dei tonfi formidabili.

— Oh! — esclamò Alonzo. — Cos’è questo fragore? Che vi siano delle centinaia di coccodrilli lassù?...

— Dei caimani che fanno questo baccano!... — esclamò don Raffaele. — Io ne dubito. [p. 301 modifica]

— Cosa volete che sia, cugino?

— Non lo so. Cosa credi che sia, Yaruri?

L’indiano non rispose; egli scrutava, con sguardo, inquieto, le acque del fiume.

— Ebbene? — gli chiese il piantatore, dopo alcuni istanti. — Hai finite le tue osservazioni, Yaruri?

— Sì, — rispose l’indiano con voce sorda.

— E cos’hai notato?

— Che la corrente è diventata meno rapida.

— Oh! — esclamarono tutti.

— Sì, — ripetè Yaruri.

— E da che cosa credi che provenga ciò? — chiese il dottore.

— Ciò indica che nel fiume sono stati gettati degli ostacoli?

— Ma quali?

— Lo sapremo presto; avanti!

Ripresero i remi e si misero ad arrancare con lena, curiosi di sapere quali ostacoli ingombravano il fiume.

Intanto i tonfi continuavano ad echeggiare verso l’alto corso. Pareva che delle masse enormi precipitassero in acqua.

Il piantatore ed i suoi compagni cominciavano a diventare inquieti; anche Yaruri era diventato cupo ed i suoi occhi tradivano le sue apprensioni. [p. 302 modifica]

Superata una curva del fiume, il canotto si trovò dinanzi ad un enorme numero di tronchi d’albero che occupavano tutta la larghezza compresa fra le due sponde.

Dei grossi pali, piantati nel letto del fiume, li trattenevano; per di più i loro rami s’intrecciavano fra di loro, impedendo, a quell’ammasso galleggiante, di separarsi.

— È una foresta intera caduta in acqua, — disse Alonzo.

— Caduta! — disse Velasco. — Precipitata nel fiume dai nemici per impedirci il passo, vuoi dire.

— Dagl’indiani che ci precedono?

— E dai loro compatrioti, poichè questo lavoro non può essere stato fatto che da qualche centinaio d’uomini — disse don Raffaele. — La nostra navigazione, amici miei, è terminata.

— Non credi che si possa aprirci il passo?

— No, Alonzo. Perderemmo una e forse due settimane, è vero, Yaruri?

— Sì, padrone, — rispose l’indiano. — Senza contare poi che avremmo addosso i nemici.

— Allora bisogna sbarcare.

— No, padrone.

— Dove troverai un passaggio? [p. 303 modifica]

— Attraverso le savane.

— Ci sarà acqua sufficiente?

— Sì.

— Conosci la via?

— Un indiano sa trovarla sempre.

— Da qual parte deviamo?

— Bisogna ritornare.

— Ritorniamo.

Volsero la prua e ridiscesero il Venituari a grande velocità, senza venire importunati, quantunque fossero certi della presenza degli indiani, avendo udito poco prima i tonfi degli alberi precipitati nel fiume.

Verso il tramonto, Yaruri spingeva il canotto in una savana che comunicava col fiume mediante un canale aperto sulla sponda destra.