La Donna e i suoi rapporti sociali/La donna e la società

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La donna e la società

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LA DONNA E LA SOCIETÀ


Ovunque pensa, parla e si agita una esistenza, la sua vita importa a necessaria conseguenza un movimento, una modificazione, uno spostamento, per così esprimermi, fra le altre che sono intorno a lei, che cercano stabilire e conservare con essa armonici rapporti.

Così, fin da quando natura ci dà, al dire di madama Sand, alla libera espansione della vita, noi ci vediamo circondati da una piccola società composta da amici e consanguinei, raccolti a festeggiare la nostra entrata nel mondo, a stringere con noi vincoli di benevolenza, alla quale per dovere di esseri sociali dobbiamo rispondere. Ma i diritti ed i doveri datici ed impostici da codesti rapporti sono troppo noti, troppo naturali, troppo costanti perchè occorra arrestarvici. Il naturale buon senso, e gli usi della nostra società rispettano ed amano questi rapporti, che, cresciuti e sviluppatisi con noi, fanno parte delle nostre abitudini, ed estendono per così dire i confini della famiglia.

I rapporti più importanti per noi sono quelli che noi stessi formiamo col nostro carattere speciale, coll’educazione che ci viene impartita, che ci porta verso un dato elemento sociale piuttosto [p. 122 modifica]che verso un altro. I doveri scaturiscono e dallo elemento col quale siamo assiduamente a contatto, e dal grado di suscettibilità che con noi rechiamo intellettivo e morale, e dai bisogni dei tempi e dei luoghi. Laonde, sviluppato lo spirito, il cuore educato, più non rimane a farsi da noi che la semplice applicazione delle apprese dottrine.

Farà egli bisogno per esempio di dire ad una creatura, che ha cuore, chè si faccia al letto del malato, o di chè abbisogni il poverello, o che cosa diffetti l’ignorante?

A niuna di voi, gentili signore, che onorate questo mio libro della vostra lettura, a niuna di voi, per fermo, mancò nella colta educazione, che riceveste, nozioni sì elementari di virtù e di morale, e già tutte le praticate. Non foste voi viste pochi anni or sono, durante la guerra dell’indipendenza, tutte quante trasformate in infermiere? Gli annali della beneficenza non si adornano dessi forse dei vostri nomi dalla prima all’ultima pagina? E non forse voi fondaste sotto mille forme e denominazioni scuole, asili, istituti d’educazione pei figli del popolo? Io non posso che altamente lodare queste espressioni moltiplici e proteiformi dell’innata gentilezza e sensibilità che fa l’onore del sesso femminile, e mi rende orgogliosa d’appartenervi; ma se tutto ciò bastava in altri tempi di più scarsa luce intellettuale a far di voi gli angioli della umanità, ciò è troppo poco per oggi in cui la filosofia deve averci meglio illuminate sui veri interessi della umana specie.

Fare ad altrui del bene non solo è dovere per tutti, è anche per tutti un diritto, ed un diritto che l’anima generosa si divora nell’impotenza di compiere; ed oh quale ingiustizia se al sol denaro fosse possibile questa suprema gioia del cuore! Ma no; a tutti la rese il vangelo possibile rivelando agli uomini l’amore, e facendone loro una [p. 123 modifica]soavissima legge all’infuori della quale l’umanità si travaglierà in un affanno perpetuo nella confusione delle idee e dei sistemi.

Sì, la sapienza degli uomini è all’apice. E statisti e filosofi, legislatori, ed economisti portarono alternativamente, esperienze e principii, istituzioni e sistemi, ma nessuno di questi farmachi riescì ancora a guarire l’umana società dall’angoscia intestina. Il quadro dell’umanità ci presenta una lunga scala sulla quale sfilano i dolori e le miserie di tutti i secoli, dalla bestiale antropofagia fino alla servitù dei due terzi della specie, fino ai sistemi applicati del più satanico macchiavellismo.

Nelle vergini foreste del nuovo mondo abbiamo uomini tuttora ai quali non è dato notizia neppur d’umana favella; interi popoli abbiamo viventi di preda come le belve in fertilissime terre; in Africa è l’esportazione dei negri che fende il cuore; nella China è l’infanzia esposta e derelitta; in tutto l’oriente è la servitù della donna, è l’evirazione di tante migliaia, è l’infame abrutimento degli oppressori. In tutto il mondo incivilito è la lotta della oppressione e della tirannide, dei principii e degli interessi, della ragione e della forza, del sentimento e dello egoismo. Oh chi soccorre a tanti mali, chi diraderà sì fitte tenebre d’ignoranza, chi consolerà tante miserie, chi domerà tante passioni, chi imporrà silenzio a sì spudorati interessi, chi curerà questo gran malato che è l’umanità, che indarno sempre esperimentò medici e trattamenti? l’abbandoneremo noi alla sola forza medicatrice che dà natura col suo perpetuo desiderio d’equilibrio e di benessere? Sì, il tempo avvanza e non indarno; ma questo cammino non ci condurrà alla meta che con dei secoli, e frattanto? e frattanto si demoralizza la società, si comprano e si vendono anime umane, [p. 124 modifica]si sparge sangue di popolo, si versano lagrime, si combatte, si soffre, si bestemmia e si muore!

Faremo noi coro alla filosofia del diritto solo, e facendo alla nostra malata la diagnosi del suo malore le diremo, è l’inerzia che arresta nelle tue vene la potente circolazione, e mentre lascia dracciate ed anemiche le fonti vitali, produce parziali congestioni restando così deviato quell’umor prezioso che deve diffondere vita e calore in tutto il corpo? oppure, è la servitù e la ignoranza che ti travolgono piedi e mani legate nel sudario, e ti lasciano dissanguata in preda a tetanici sussulti? Alzati dunque e cammina, tu hai diritto al moto; respingi da te le bende mortuarie, tu hai diritto al benessere ed alla gioia! Sì è vero, i diritti stanno, ma non è ella una spietata ironia dire alla puppilla inferma, tu hai diritto di vedere! all’ignorante, tu hai diritto di sapere! al zoppo, tu hai diritto di correre?

Oh curiamo prima l’occhio malato, eppoi diciamogli guarda! coltiviamo quel cervello eppoi diciamogli studia! distendiamo quei tendini eppoi diremogli cammina!

L’umanità ha bisogno d’essere amata, sinceramente e vivamente amata, ed amata senza altra passione che del suo bene, senza altro interesse che del suo meglio.

Amare! Ecco il divino concetto, ecco il miglior dei sistemi, la prima delle filosofie, il più efficace dei farmachi, la più sapiente delle legislazioni, il principio e la fine della scienza sociale.

Quel malato migliora, che ha nel suo medico gran fiducia. Quell’esercito marcia infallibilmente alla vittoria, che è condotto da un duce che adora. Niuno dorme sonni più beati del bambino in grembo alla madre.

L’umanità sarà di chi saprà amarla, e di chi saprà provarglielo meglio. Ciò non capirono in [p. 125 modifica]nessun tempo i despoti, e non fecero; egli è perciò che sono ora ridotti a tremare, circondati da mille spade; egli è perciò che sentono con ansio spavento i fremiti dei popoli servi' perenne minaccia allo edifìcio loro, sull’arena fondamentato.

L’uomo, dal più grande al più piccolo, dal più dovizioso al più mendico, dal più sapiente al più ignorante, e selvaggio e civile, ha bisogno d’affetto, e dall’affetto solo si lascia vincere e domare, per l’affetto è qualche cosa, egli ne ha fame e sete, è la sua vita e la sua forza, senza di questo egli si isola, poi si deprava, quindi odia mortalmente tutta l’umanità.

L’intelletto è orgoglioso, ed osa nella sua alterigia sfidar la ragione, e per non curvarsi al suo supremo arbitrato trova il cavillo e chiama il sofisma, e la civilizzante filosofia trovasi in faccia alla insuperabile barriera d’una volontaria ignoranza. La materia è sostanza bruta, i suoi desiderii hanno angusti i confini. «Il molto studio è fatica alla carne» disse Salomone; e la filosofia trovasi in faccia alla resistenza della massa inerte e massiccia. Il cuore solo è il lato debole dell’uomo, ed è questo che dovete cinger d’assedio e prender d’assalto; preso e domato, il resto non chiederà bentosto che di capitolare.

Cristo insegnò una dottrina e ci diede un esempio; e l’una e l’altro importano a seguirsi sforzo e violenza, abnegazione e sagrificio; e queste cose cotanto difficoltose alla umana natura veniva egli a chiederle nel secolo il più depravato e corrotto di cui le storie ci parlino. Ma questa dottrina era la teoria dell’amore, quell’esempio era la pratica dell’amore e gli uomini amarono il Cristo e la sua legge; a migliaia ed a milioni si coscrissero nella sua chiesa; per lui spregiarono la vita e versarono il sangue; per lui si scoronarono i principi, e nello intendimento [p. 126 modifica]di onorarlo e di piacergli, ozii e libertà, gioie e mollezze lasciarono a mille e a mille per le perpetue reclusioni e le aridi solitudini dei deserti.

L’umanità da educare ed incivilire, da illuminare e soccorrere, ecco il lavoro che incombe a tutti coloro che avendo una educazione avuta e dei lumi, trovansi in grado di dare ad altrui ciò ch’essi stesso han ricevuto.

Mi chiedete voi del mezzo a ciò fare? Io rispondo, coll’amore; A qual fine? Affinchè gli uomini si amino. Con qual ricompensa? Gli uomini si ameranno. Ed io concepirei ben sinistra opinione di quella che queste pagine leggendo, trovasse quel fine e quella mercede insufficienti a quel mezzo ed a quella fatica.

Ora chi mai convinto, che colla potenza dell’amore soltanto si potrà consolare, soccorrere, civilizzare questa povera umanità; chi dico, non si volgerebbe tosto alla donna? Non è ella quella creatura, sublime scialaquatrice d’affetti nella quale ogni pietà è innata, e tutta di sensibilità è plasmata? L’uomo non è giovine, che una volta sola in sua vita; ma la donna non reca ella in sè stessa i facili entusiasmi, l’indomabile speranza, la generosa ammirazione del grande, l’amore del sacrificio, che serbano intatta ai tardi anni la balda gioventù dell’anima? Non è dessa quella creatura nella quale così difficilmente s’insinuano i freddi consigli d’una egoista prudenza che medita per secoli, discute con dei volumi, e non trova un dito mai per operare? Non è alla donna il cui cuore è il serbatoio del sacro fuoco dell’amore, al quale Iddio affidava tutte le generazioni, a fecondare in esse i germi degli affetti, che fanno cogli entusiasmi giovanili le fronde ed i fiori, e i frutti recano nella matura età di sociale benessere? Non è egli alla sua voce insinuante che natura [p. 127 modifica]sposava la persuasiva? Non è egli davanti al suo dolce sorriso, ed al suo sguardo innocente che il figlio del popolo può deporre i secolari rancori contro le caste che sì a lungo l’oppressero?

Gli uomini hanno fra loro vecchie ruggini; essi lottarono e colla forza brutale e colla astuzia ridotta a sistema, laonde si guardano tra loro torvi talora e diffidenti: ma la donna vittima sempre fra i grandi e fra i piccoli, nell’antichità e nell’attualità, la donna porta le mani pure di sangue non suo, e la mente vergine di errori volontarii. la sua puppilla ebbe lagrime per tutti i dolori; la sua borsa si aprì a tutte le miserie; le sue simpatie si pronunciarono per tutte le sventuro, e non indarno mai le fu additato un bene che da lei dipendesse.

Faccia pur Cicerone ad Augusto una lunga orazione con tutte le risorse dell’eloquenza per indurlo al perdono; lusinghi la sua vanità, si raccomandi allo splendor del suo nome, ed ottenga così dalle titillate passioni, ciò che non otterrebbe dal duro cuore. Vincenzo de’ Paoli invece, dirà ad Anna d’Austria «Madama il vostro popolo ha fame». Ho dato tutto, ella risponde. Anche le vostre gioie? insiste egli; ed ella non ripeterà verbo, e correrà al suo scrigno, e glielo consegnerà quale si trova.

Non è duopo di lunghe orazioni a muovere il cuore della donna; veda ella il bisogno e lo comprenda, e basta. Il suo cuore istesso serve d’oratore e d’argomento, di peroratore e di convinzione. Sia dessa o no, frivola e leggiera, non monta. Il suo volubile spirito si arresta, medita, si solleva, un angoscia lo preme; l’immagine di quella sventura la perseguita come l’ombra il corpo e la tormenta; ella non resiste più, si sente infelice, ha bisogno di togliersi quella mestizia; ed ecco che astraendo un momento da ciò [p. 128 modifica]che il mondo chiama la sua vita brillante, dimentica l’umido e le infreddature, gl’incomodi e le molteplici esigenze della vanità; supera il fango e la polvere, il sole e la neve, e va instancabile, viene e ritorna, ascende la scala del povero, infrange la consegna del ricco, e tanto fa e si adopera col cuore, colla parola e colla mano che ha raggiunto alfine lo scopo, e lieta ritorna e fiera del suo trionfo più assai che della ammirazione e dei plausi che tante volte l’accolsero nei brillanti convegni del mondo gaudente.

Non crediate però, lettrici mie, ch’io non vi parli, che dello sterile soccorso, che voi deponete nella mano che si stende verso di voi supplichevole. Fra tutti i modi di soccorrere ai materiali bisogni è questa la più imperfetta, e lasciatemi dirlo, la meno morale, e non può essere giustificata che dell’urgenza del bisogno, ma è quella pure che ridotta a sistema ed organizzata su larga scala, perpetua la mendicità, ed abrutisce lo spirito. Come può mai un essere dalla mente civilizzata vedersi davanti supplichevole e seminuda una creatura qual’è l’uomo ricco d’intelligenza, forte di braccio, non ad altro occupando la inerte sua vita, che nel distendere servilmente al suo simile la mano colla voce piagnolosa ed il languido sguardo? E qual diritto ha egli mai un uomo d’imporre al suo simile una tanta degradazione? Qual diritto ha egli di subordinare al suo arbitrio e capriccio l'esistenza d’un suo fratello? Questo sconcio che è l’accatonaggio va scemando più sempre coi progressi della industria che distribuisce più universalmente la ricchezza, laonde le mie parole non andando a colpire un fatto che vi si presenti su grandi proporzioni vi parranno per avventura troppo severe.

Certo i nostri tempi differiscono assai dagli [p. 129 modifica]scorsi secoli nei quali ogni convento (e ve n’erano ad ogni svolto di via) vedeva ogni mattina raccôrsi sotto gli esterni portici una sterminata quantità di mendici d’ambo i sessi, e di tutte le età, che aspettavano la quotidiana limosina. Che ne derivava da ciò? Ne derivava, che la maggior parte della umanità nelle nostre contrade vivesse pendente dallo arbitrio dei meno; ne derivava, che tutte quelle misere genti fossero serve consacrate di quei signori; ne derivava, che intere popolazioni non per altro vivessero che per stendere umile e timida la mano alla scodella limosinata, curvarsi fino a terra all’aspetto di un frate, baciar servilmente il lembo della sua tonaca e la corda della sua cintura. Ne derivava, ch’elleno si educassero al sentimento demoralizzatore della propria nullità, alla tolleranza della più provocante tirannide, all’ozio eterno donde la miseria perpetua.

Lo stesso avveniva intorno ai forti castelli dei signori, dove una pietosa faceva distribuire costanti e quotidiani soccorsi. Quei costumi erano fatti per perpetuare il dispotismo feudale e la schiavitù personale. Come avrebbe mai potuto quella plebe emanciparsi dalla sistemata concussione de’ suoi signori, senza cominciare dal rifiutare il loro pane, e dal vivere senza la loro sprezzante limosina? Ed ecco ciò che si fece, ed oggi quei terreni, che allora erano incolti, sono ricchi ed ubertosi, e l’agricoltore mangia il pane sudato all’ombra degli alberi da lui piantati, ed accosta il ricco colla fronte alta dell’uomo che nulla cerca, fuorché il credito suo.

Ora, diminuite le proporzioni e l’accatonaggio, in faccia ai principii dell’umana libertà e dignità, presenta tuttavia la sconvenienza medesima. Soccorriamo al corpo provvedendo il lavoro, suppliamo alla debole potenza dell’operaio largheggiando [p. 130 modifica]nella mercede: ma non dimentichiamo mai la sua dignità d’uomo, il suo sacro diritto di vivere indipendente dal capriccio nostro; nè vogliamo colla impertinente elemosina buttargli in viso quell’insolente concetto che la limosina esprime e che vai quanto dire: vivi anche oggi, te lo concedo.

So pur troppo, che taluni fra gl’indigenti privi affatto di luce morale (e come l’avrebbero?) e vieppiù demoralizzati da una falsa beneficenza, che apre la borsa e la porge senza abbadare alla mano che vi si immerge, non sentono la umana dignità, e volontieri fanno inchini e genuflessioni, ed a tutto si abbasserebbero purché oziosa trar possano e vagabonda la vita. Lo spettacolo di questi uomini doppiamente infelici, perchè spinti dalla stessa beneficenza nello stato selvaggio, ed accoppianti la miseria dello spirito ai cenci del corpo, anzichè scoraggiare la buona volontà, deve vieppiù eccitarla.

Pur troppo ben poco può farsi sulla generazione già adulta, incallita nell’ozio e nel vizio, ma tutto può farsi e con esito certo sulla nascente. Oh si dilati l’istruzione; si dia al figlio del popolo la coscienza di sè e della umana dignità, si incoraggi colla stima che mostriamo portargli, non dimentichiamo che egli è il più importante dei sociali elementi. È il popolo che costituisce gli eserciti; è il popolo che innonda le nostre città; è il popolo che provvede a tutti i nostri agi e bisogni; è il popolo che coltiva le nostre terre; il popolo farà senza di noi, ma noi meschini senza di lui. Donde emerse lo spregio della plebe adunque se non dal guardare leggermente ogni cosa? Il popolo è tale una potenza che perfino il dispotismo più sfrenato sente bisogno d’aversi la sua sanzione o di fingersi averla. Ogni setta, ogni partito vuol averlo amico, [p. 131 modifica]perchè cessa col popolo d’essere partito e setta, e diviene coscienza universale. Ma mentre ognuno, per poco rifletta, è forzato d’ammettere la vera sovranità del popolo, pure, illusi dalle apparenze, sedotti noi dalla lunga abitudine di guardarlo dall’alto, ed egli stesso avvilito della sua povertà, abrutito dalla lunga servitù e dallo spregio, perde ogni senso di dignità e tenta stordire i bisogni, ed attutire i dolori, abbandonandosi inerte alla miseria, affogando nelle orgie la troppo scarsa mercede d’improbe fatiche, donde poi sempre più misero n’esce ed abrutito.

Eppure questo colosso, i cui fermenti fanno talora impallidire i tiranni, e che, spinto al colmo d’ogni sua pazienza, si erge gigante, recide teste coronate, intere caste travolge nei flutti dell’ira tremenda, e di tutta una regione non lascia che un oceano di sangue, nel quale si affoga la tirannide di tanti secoli (e così bene, che niuno sforzo di potere o di casta saprà tutta risorgerla) questo terribile elemento non si cura, non si educa, non si tenta dargli alcun principio, non si rispetta, e non si smettono sul conto suo pregiudizii ch’egli così ben vendicò sui padri nostri.

Urge, e sommamente urge che il popolo s’illumini, si civilizzi, senza di chè vane saranno le nostre aspirazioni alla prosperità nazionale. Indarno tentano svolgersi, in seno alla libertà, libere istituzioni, se, applicato poi, trovansi gravide di disordini per la incoltura del popolo. Indarno noi guardiamo ansiosi ed impazienti ai confini che Iddio segnava al bel paese struggendoci in desiderii, se il popolo non sarà convinto, che combatte per interessi suoi, e per migliorare le sue misere condizioni.

Forse avravvi fra voi, lettrici mie, taluna, santamente desiderosa del bene, e che a null’altro aspira che a vedersi tracciata una via; poichè [p. 132 modifica]gli è a voi specialmente affidata l’educazione del popolo. L’uomo è assorbito dagli affari, è sviato dagli interessi, è incatenato ad impieghi; voi siete libere del vostro tempo; oh non si sciupi in frivolezze e nonnulla. Non è lecito passar la vita nell’ozio, al passeggio, alle feste, scarozzando la nostra cara personcina dalla città in campagna e dalla campagna in città, custodendoci gelosamente da ogni cosa che disturbi la nostra pace, non guardando in viso mai la miseria ed il dolore, per non averne male ai nervi delicati; ciò tutto è egoismo e nullità; non è per questi fini che Iddio ci arrichiva d’intelligenza e ci faceva battere in petto un cuore capace di portenti se avvenga che abbracci la santa causa del bisogno.

Non crediate degnarvi di troppo parlando famigliarmente col bravo figlio del lavoro; la sua mano incallita è più nobile assai della vostra bianca manina sepolta ne’ pizzi, chè da lei tragge il pane e la casa tutta una famiglia. Sentite i suoi bisogni, provvedetegli lavoro, incoraggiatelo, mostrategli la stima e la riverenza ch’egli si merita, parlategli dell’associazione dell’industria e del capitale, che sola può emanciparlo dalla tirannide capitalista, provategli i vantaggi della coltura e della civilizzazione, onde assiduo intervenga a quelle istruzioni serali che mercè benemeriti cittadini già sono organizzate in tutte le nostre città. Parlate loro delle patrie speranze, della parte maggiore che a lui spetta nelle battaglie e nei trionfi, e combattete quella scoraggiante parola ch’egli ha sempre in bocca «qualunque sia l’evento noi saremo poveri sempre!»

Mostrategli invece che l’interesse suo sopratutto si propugna nella causa nazionale, e come non sia che in grembo ad una potente e libera nazione che svolgersi possa l’abbondanza e la prosperità. [p. 133 modifica]Ed accennandovi i patrii interessi io già vi supponevo tutte, a non dubitarne, informate ai sacri doveri di cittadine. Nè crediate che le convinzioni vostre poco giovino alla causa nazionale. Voi partorite ed educate la generazione nascente, alla quale incombe di compiere i destini dell’Italia; succhi dessa dunque col vostro latte la religion della patria. Veggano i vostri sposi, amanti, fratelli ed amici la sacra fiamma che il petto vi riscalda; veggano i sacrificii che liete e sollecite recate sull’altare dei patrii bisogni, sacrificii d’oro e di figli, sacrificii d’amore e di famiglia, e ne siano punti a generosa emulazione. Animata la donna dal supremo culto della patria, supera sè stessa, scorda la debolezza della fibra e la delicatezza dei nervi, e giunge talora a far arrossire l’uomo coi prodigi del suo valore.

Allorchè Mario nella guerra contro i Teutoni ed i Cimbri volse in fuga una nazione di barbari detti Ambroni, le costoro donne si fecero loro incontro armate di spade e di scudi rimproverando loro la vile fuga, uccidendo e ferendo nemici e fuggitivi, e non rinculando mai fino agli estremi. Lo stesso fecero le donne Cimbre.

I racconti di Tacito intorno alle donne britanniche ci fanno manifesto che, più degli uomini, erano in quella nazione valorose le donne.

Quando Svetonio Paolino assalì l’isola di Mona possente di popolo e ricetto dei rivoltosi, stavansi armati e stretti i nemici sul lido frammisti a molte donne. Dopo la presa dell’isola, Svetonio dovette affrontare le schiere britanniche capitanate da Baodicea moglie dell’estinto Prasutago, la quale circondata dalle sue figlie gridava esser le donne use in Brettagna a maneggiar la guerra; ma non venir ella allora a diffondere quel regno, sibbene a vendicare i colpi di bastone ricevuti dai Romani e l’onore oltraggiato delle sue figlie. [p. 134 modifica]Fatta finalmente prigioniera, Baodicea si tolse col veleno all’onta della servitù.

Allorchè la Signoria Turca minacciava di estendersi in Ungheria ed in Italia, le donne, paventando la vergogna del serraglio, spiegarono una energia, ed un valore di cui non sempre furono capaci i più intrepidi eroi. In una città di Cipro frammischiate ai soldati respinsero i Turchi combattendo sulle aperte brecce. Nell’isola di Lenno una donzella, imbrandita la spada e lo scudo dello spento genitore, arrestò i Turchi che già forzavano una porta, e li respinse fino al mare. Le Ungheresi fecero miracoli di valore nelle battaglie e negli assedii contro i Musulmani; le donne di Rodi e di Malta gareggiarono colle Ungheresi e le superarono per la persistenza del loro freddo e paziente coraggio. Così gli annali di quella nazione, come la storia della Veneta Repubblica, sono zeppe dei nomi di donne che eclissarono la gloria dei più prodi cavalieri.

Immolare per la patria la vita è cosa tanto comune all’uomo quanto alla donna. Agesistrata, madre di Agide re di Sparta, appendendosi da sè stessa al capestro al quale la dannava l’Eforo Anfare diceva «Volentieri muoio se ciò può giovare a Sparta».

Aretafila (contemporanea di Mitridate) tentò ogni via di liberare la patria sua Cirene dalla tirannia di Nicocrate. Benchè questi le fosse amante appassionatissimo e marito, pure veggendo ella soffrire il suo popolo non sapea consolarsene. Vedendo che niuno sorgeva a vendicar Cirene, tentò ella stessa il colpo, ma fallitole e sottoposta ad ogni fatta di tormenti, non però confessò il fatto, finchè Nicocrate, che pur sempre l’amava, si pentì d’averla fetta soffrire, e tentò consolarla con ogni onore e cortesia. Ma Aretafila fissa nel proposito di liberare l’afflitta [p. 135 modifica]patria, persuase la sua giovine figlia a sposar Leandro fratello del tiranno e ad eccitarlo con ogni arte a voler tentare la libertà di Cirene. Leandro così pregato dalla sposa, uccise il fratello; ma non però fu libera Cirene, ch’egli molto ben succedè a Nicotrate nel dispotismo e nella ferocia. Aretafila cominciò allora a tendere insidie a Leandro e chiamò Anabo capitano della Libia coll’esercito suo sopra Cirene, e presi con lui segreti accordi, persuase Leandro a venir con Anabo a parlamento. Egli vi andò, ed Anabo circondatolo nella sua tenda lo consegnò ai Cirenaici che, messolo in un sacco, lo gittarono nel mare. Cirene liberata, pregò Aretafila di accettare le redini del governo, ma la generosa donna, che la patria aveva amata sempre più di sè stessa, consigliò la repubblica a voler volgere ella stessa a meglio le cose sue e si ritirò a menar vita privata.

Epicaride, semplice schiava, aveva con tutto il fiore della nobiltà romana congiurato contro Nerone. Scopertasi la cospirazione, arrestati a cento a cento i congiurati e sottoposti alle torture, confessano e scoprono i fili della congiura. Epicaride sola, resiste ad otto giorni consecutivi di torture, e vinta alfine dalla violenza del fuoco, si taglia la lingua coi denti e la sputa innanzi all’imperatore onde porsi nella impossibilità di svelare.

Arria, moglie a Cecina Peto personaggio consolare, difendeva sè stessa ed il consorte davanti all’imperatore Claudio, accusati essendo siccome complici nella congiura di Scriboniano contro di lui. Avendo l’imperatore intimato a Peto di uccidersi, e vedendo Arria che la destra gli tremava, sicchè non sapeva decidersi a vibrare il colpo, le strappò di mano il pugnale se lo piantò nel petto, eppoi lo porse allo sposo dicendogli, «prendi che non fa male» e spirò. [p. 136 modifica]Nel Medio Evo è Giovanna d’Arco che salva la Francia dall’invasione straniera ed impedisce lo sfacelo della Monarchia.

Ai nostri tempi è Carlotta Corday che sbarazza la Francia dal terribile Marat. (Vedi Levati, Donne Illustri).

Ma lasciamo il campo delle unità, che ci condurrebbero troppo lungi, e che d’altronde potrebbero essere da taluno riguardate come puri fatti personali che poco costituir possono sulla totalità.

La donna, che supera generalmente l’uomo in forza morale, e sa sopportare il lento e penoso martirio a cui la condannano, contro lei congiurati, la natura e le leggi, i costumi e gli individui; la donna, che sa trovare nell’anima sua quella virtù perseverante e silenziosa da tutti ignorata, da niuno applaudita, non incoraggiata e sorretta che dall’intima coscienza del dovere; la donna, dico, seppe sempre al par dell’uomo soffrire e morire per le sue convinzioni, dalla madre dei Maccabei che offriva, olocausti d’eroica fede, sè ed i suoi sette figli al Dio d’Israele, fino a madama Roland, che la testa lasciava sotto la scure della rivoluzione, benedicendo pur sempre alla rivoluzione.

Che se tutti i Martirologi si adornano copiosamente di nomi femminili, ne sono per sovrappiù altrettanto poveri i vergognosi cataloghi delle apostasie e delle transazioni. La tenacità dei propositi e la inespugnabilità delle convinzioni nella donna, sono un fatto altamente constatato, e che ne farà sempre per ogni partito un elemento della massima importanza.

In tutte le guerre, in tutte le insurrezioni, in tutte le reazioni che hanno per morente un’idea, un sentimento, la donna vi porta tutta la foga d’un’anima giovine ed entusiasta. Sono le donne [p. 137 modifica]italiane che insegnano ai loro bambini l’odio dello straniero, che serbano vivo ed immortale, come le vergini di Vesta, il sacro fuoco dell’amor di patria, lo abborrimento d’ogni transazione contro l’insolente usurpazione e, nè dalle carceri, nè dalle flagellazioni vengono domate. Sono le donne polacche che a cento a cento sfidano lo knout e la Siberia, impavide davanti ad una lotta titanica, che altro soccorso non trova che nell’inaudito valore di tutta una nazione di eroi.

E farei dei volumi, se tutti volessi porvi sott’occhio i fatti antichi e moderni che provano essere stato sempre il culto della patria principalissimo nei petti femminili.

Certo ai tempi nostri non occorre, siccome negli scorsi secoli adoratori della conquista, che una nazione invocar debba in faccia ad un supremo pericolo tutti i suoi elementi a combattere, per cui è la forza morale, è il lieto sacrificio che tocca alla donna. La guerra, ch’è per noi suprema necessità, sarà pei nostri posteri supremo ridicolo, e noi certo non chiameremo a prendervi parte anche chi vi è dai costumi nostri dispensato, chè sarebbe davvero retrocedere il mondo in luogo di spingerlo avanti; ma finchè quel giorno non sorga, finchè problema di vita e di morte si agita per tante nazioni, oh lasci la donna i gravi nonnulla di che finora occupossi e, vergognando di starsene inerte davanti a tanto lavoro, rechi ognuna la sua pietra al nazionale edificio colla parola, coll’opera, coi mezzi.

Non è egli tempo che la donna si ridesti alla coscienza dei doveri sociali, e più non si creda impotente ad utili e serie cose? Non è egli tempo che le sue giornate ed i suoi anni d’altre cose si riempiano che di quelle fastose bagatelle, che lo spirito le impiccioliscono, ed i più generosi sensi le atrofizzano? Non è egli tempo che il [p. 138 modifica]suo spirito d’altre cose si faccia curioso che di indagare

«Le vicende ascose
«Degli instabili amor, le cagion lievi
«Dei frequenti disgusti e i varii casi
«Del dì già scorso, le gelose risse,
«Le illanguidite e le nascenti fiamme,
«Le forzate costanze, e le sofferte
«Con mutua pace infedeltà segrete,
«Dolci argomenti a femminil bisbiglio?»

Non è egli tempo, che la sensibilità di cui natura la adornava e che di tanta potenza al bene è fonte, più non si sprechi per cause, che non la meritano, e più non si dica di lei ciò che il gran satirico disse della donna del tempo suo,

«Del suo diletto passerin la morte
«Fe’ rossi gli occhi e li gonfiò di pianto?»

Non è egli tempo, che la donna senta essere chiamata a lavorar di concerto col resto dell’umanità alla diffusione dei lumi, al benessere universale? Non è egli tempo ch’ella ogni lode, ogni ammirazione, ogni simpatia conceda al genio ed alla virtù, trascurando affatto quegli uomini neghittosi, che la vita passano siccome gli accattoni ad esaurire i tesori ereditati dai padri loro, credendosi modestamente l’incarnazione d’ogni eccellenza, e nulla pur facendo per l’umanità; sicchè non continui a meritarsi il severo strale, che Casti le vibrò adombrandola nella leonessa regina, alla quale presentandosi un nuovo cortigiano, siccome

«L’asino lo protesse e lo propose,
«Ciò fu bastante, il merto si suppose?»

La conversazione della donna deve essere all’uomo non dilettevole solo, ma utile. I Musulmani gemono sotto la sferza d’una intollerabile noja, si abbandonano ad orgie sfrenate che mettono [p. 139 modifica]capo alla totale alienazione, i loro modi sono rozzi e selvaggi, ed i costumi loro ne rilevano il completo abrutimento. Gli è perchè non educando dessi la donna che all’esclusivo fine della femmina essi non ponno a lei rivolgere il moto e le idee. Prive di quello stimolo potente, ch’è per ogni spirito generoso la simpatica ammirazione della donna, prive della forza che scaturisce dalla sua feconda ispirazione, quelle infelici contrade condannando la donna, dannano sè stesse all’abrutimento ed alla stazionarietà. Tutto si agita, tutto si muove, tutto si svolge nella libera espansione della vita dove non è servitù e reclusione di donna.

In occidente, dove quelle funebri istituzioni non penetrarono, benchè la donna si senta attortigliata da mille legami, ha tuttavia tanto di libertà quanto basta per incuorarsi al lavoro, alla lotta, alla conquista del molto e del troppo che ancora le manca.

Ed il mezzo diretto, infallibile, è di rendersi utile all’umanità, è di farle sentire la potenza del suo intervento, il valore intrinseco ed affermativo della sua personalità, gl’immensi vantaggi che le derivano dal tenerne calcolo, dal riconoscerla e dall'impiegarla.

In fondo a tutti i problemi v’ha pur sempre un segreto movente d’interesse, dal quale la più generosa filosofia non saprebbe astrarre, e la storia ci presenta a provarcelo tutte le sue pagine, ogni sua riga. L’uomo dunque asservì la donna credendo suo interesse di farlo. Tocca a lei a provargli, ch’egli s’è ingannato, e che dalla sua emancipazione gliene ridonda ben più ricco interesse, vantaggi ben più preziosi.

E parlando dello intervento della donna nell'opera universale, reclama di pien diritto un cenno particolare tutto l’elemento femminile insegnante, che dà sì splendide prove della speciale sua idoneità al grave e difficile ministero. Ed [p. 140 modifica]invero la pazienza longanime, la innata tolleranza, la voce insinuante, il pronto intuito fanno della donna l’educatrice per eccellenza; e ben desiderabile cosa ella è che i programmi della educazione femminile si allarghino tanto, da rendere possibile alla donna il continuare ed estendere il suo insegnamento oltre gli attuali confini.

Non tema la legislazione di affidare alla donna un largo insegnamento. I confini della sua intelligenza furono dessi esplorati? Le risorse del suo spirito son esse dunque esaurite? E come, se da tanti secoli di nullità morale e di morale oppressione, è risorta più animata, più intelligente che mai; e nei tempi in cui l’urto potente delle idee, la lotta delle opinioni, il cozzo dei sistemi, l’agitazione delle filosofie abbujano lo intelletto virile, adesso appunto ella principia a capire, ed ha afferrato la segreta parola che stassene latente nell’umanità, impossibilitata a farsi strada dagli inverecondi rumori che sollevano nel mondo gli interessi dei pochi?

L’umanità e la patria, la civiltà e la morale hanno bisogno della donna. Una più lunga assenza morale le confermerebbe sul capo la sentenza, che non fu finora che abuso di forza e figlia di pregiudizio, sentenza di morale inettitudine, che la consegna piedi e mani legati, e colla bocca imbavagliata, in balìa dello spregio insolente, dello scherno inverecondo.

Ed invero non puossi negare ch’ella non abbia sentito la loro chiamata e risposto sollecita al loro appello.

Essa ha risposto con madama Sand, nome caro alle lettere ed alla filosofia e che di tanta luce d’intelligenza fe’ risplendere il suo sesso con quella miriade di volumi, che combattono ad oltranza ogni regresso ed oscurantismo; ha risposto con Miss Beeker Stow, apostolo della [p. 141 modifica]civiltà e del diritto nel nuovo mondo, che sola alzò già da tempo la voce poderosa e la parola eloquente a far arrossire l’umanità, che tollera la schiavitù ed il commercio delle anime umane; ella ha risposto coll’indirizzo delle donne del Nord alle donne del Sud, contro la schiavitù dei negri; ella ha risposto con Catterina II, nei suoi tentativi di civilizzazione nelle Russie, che facevano dire al signor di Voltaire, la lumière nous vient du Nord. Ella ha risposto colle centinaia, che diffusero e diffondono nella Società utili produzioni letterarie, filosofiche e scientifiche; ella ha risposto colle migliaia che si consacrano al conforto dell’umanità sofferente (sia col pubblico esercizio della medicina come nell’Inghilterra e nell’America; sia coll’assistenza agli infermi negli spedali come in tutta la cristianità) all’insegnamento dell’infanzia d’ambo i sessi, e della gioventù femminile; ella ha risposto fondando, dotando, dirigendo asili, spedali, orfanatrofii e ricoveri per ogni sventura, per ogni bisogno; erigendo dei comitati e delle associazioni per provvedere alle vittime delle patrie guerre, ai rifuggiti delle serve provincie: ella ha risposto e risponde tuttavia con quell’entusiasmo, che s’allieta dei sacrificii alla patria chiamata in tanti anni di reazione, e nella aperta lotta in Italia, ed in Polonia; e di troppa luce rifulge la sua solenne risposta perchè altro non sia mestieri dire al miscredente se non che, aprite gli occhi e vedete.

Se taluna di voi, che mi leggete, vita neghittosa e vacua trascinasse, si desti al generoso esempio e vergogni la inutile esistenza in faccia a tanto lavoro ed a tanto bisogno. Pensi, che non è lecito viver quaggiù la vita parassita dell’edera che s’aviticchia intorno all’albero e ne succia l’umore, arrampica sul muro e ne rode il cemento. Chi è inutile quaggiù non è inutile solo, [p. 142 modifica]è nocivo, epperò nemico dell’umanità, la quale a giusta vendetta lo opprime sotto il pondo del suo più tremendo disprezzo.

Non chiamate lavoro la insignificante direzione d’una casa o le industrie d’Aracne; le son queste manualità e dettagli opportuni, e necessarii eziandio, ma che non costituiranno mai un’essere utile alla Società, parlo a voi, donne ricche e colte. Fra voi, più d’una ammazzerà la vita in cotali cose, ch’io chiamerò, e tutta con me l’umanità, esistenza parassita. Ogni vita importa moto, epperò che il nostro corpo agiti più o meno utilmente le sue membra sta bene, ma che lo spirito nostro debba starsene eternamente latente e sopito, egli che è vocato a progredire, egli che vive della vita ragionevole, egli che dai bruti e dai vegetali vi scerne, la è cosa questa, che non da altri mai verravvi predicata che da chi trovi interesse nelle tenebre della vostra mente, nella nullità dello spirito vostro.

Non ammettendo io, per natural corollario dei principii fin qui espressi, l’esclusione della donna dalla produzione industriale che importa abilità o vigore di membra, non la posso egualmente escludere da quella parte del lavoro sociale, che esige sviluppo ed applicazione delle facoltà intellettive.

Partendo io dal principio, che ogni diritto ed ogni dovere ha per base e per ragion d’essere la facoltà, la quale colla sua legittima pretesa d’esercizio ce ne dà la coscienza, e questo principio reggendo esattamente in ogni essere umano a qualunque sesso egli appartenga, non vedo con qual ragione questa facoltà dovrebbe nell’uno esercitarsi liberamente e talora forzatamente, e nell’altro seppellirsi e soffocarsi affatto; tanto più che, nelle miserrime condizioni in cui versa la società nostra, la donna priva di mezzi di [p. 143 modifica]fortuna, impotente pel genere infimo del lavoro attualmente concessole, a sostenersi in faccia alle molteplici esigenze della vita civile, trovasi trascinata da fatale necessità al distruttor mercimonio delle sue membra infelici.

Che se parlasi della donna agiata, la cui virtù è dalla educazione fortificata, se avvenga che un rovescio di fortuna la colpisca, chi non freme di vederla precipitare, senza via di mezzo, dalla splendida atmosfera d’una vita irradiata dalla luce dell’intelligenza sotto la sferza d’un’indefessa manuale fatica, che, mentre lo spirito generoso le preme ed angoscia, tanto pur non le acquista da calmare le smanie del dente digiuno?

Invero è questo tale problema che reclama potentemente d’essere avvertito dai governi ben intenzionati, ai quali premer debbono il cuore le piaghe sociali, e che la mente si travagliano indefessamente nella ricerca di un rimedio e di un riparo al degeneramento fisico e morale della specie; ed invero il bisogno nella donna non esprime nullameno che questo.

Là dove la donna ha duopo dell’uomo per vivere, la suà schiavitù è ben altrimenti dura, che dove questa non trova la sua ragione che nella forza del muscolo. La forza può distruggere l’opera della forza, ma la sferza del bisogno è tremenda; ella doma la più fiera natura, ella espugna la rôcca più salda, e dalla lotta deplorevole e funesta non ne escono che due demoralizzati ed una derelitta posterità.

Se non che, dovendo io tornare sull’argomento del lavoro femminile, mi basterà per ora di avvertire le mie colte lettrici, che non si lascino sì leggermente sedurre dalla mania di classificare gli esseri, ed assegnar loro delle funzioni prima di aver ben studiata la natura; poiché gli è per lo appunto uno sterminio di classificazioni [p. 144 modifica]che ci abbisogna ora fare per riabilitare la donna e risollevarla dal fango, in cui fu per secoli trascinata.

Ci abbisogna ora scernere in lei, attraverso ai pregiudizi antichi, la vera sua potenza, sceverare in lei l’opera della natura dall’opera fittizia della educazione, affinchè più non ripetano i nostri posteri le stolte sentenze, che con sì solenne gravità proclamarono fin qui le menti pregiudicate, la donna dev’esser così! Illusi! Studiate la natura in luogo di ammaestrarla; e ricevete voi le sue leggi anzichè volerle imporre le vostre.

Ovunque la natura mostra ragione, là v’è dovere e diritto di progresso; ovunque mostra attitudini, là v’è dovere e diritto di funzione; ovunque presenta intelligenza e volontà nell’essere stesso accoppiati, là v’é in un colla capacità un diritto incontestabile al libero ed autonomico svolgimento della vita morale.

Certe dottrine, che non riconoscono le unità umane, ma che veggono dovunque degli esseri incompleti, favorendo assai il sistema d’assorbimento inaugurato e gelosamente propugnato dal sesso ora felicemente regnante, trovano facili adesioni e caldi campioni.

In quanto a me, sendomi dichiarata nemica di ogni dispotismo, col quale non scenderò mai a transazioni, principio dal rifiutare quelle dottrine coi loro pii corollarii, assumendomi di provare a luogo e tempo, che ogni unità umana ha in sè, da natura, quanto basta per fermare la base d’ogni diritto, pel compimento d’ogni dovere; e che però qualunque limitazione, rappresentanza e tutela esercitata ed applicata oltre i confini assegnati dalla vera e non fittizia natura delle cose, è un attentato mostruoso alla base d’ogni diritto che, non dall’uomo, ma dalla natura fu creata; e qui, come dovunque, dovremo poi constatare, che non si lotta mai con vantaggio contro la natura e le sue leggi morali.