La Marfisa bizzarra/Canto VII

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Canto VII

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Canto VI Canto VIII
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CANTO SETTIMO.


ARGOMENTO.


     Custode del sigillo alfin rimane
Angelin di Bellanda. Ganellone
Filinor mette per vie nuove e strane
per cavalier di camera a Carlone.
Tra Marfisa e il guascpn, Cupido cane
fa delle scene. Terigi dispone
d’annullare il nuzial. Nasce un bordello,
e lo sposo è sfidato ad un duello.


1
     Chi potesse veder dentro al cervello
di chi sceglie agli uffizi col suo voto,
e ricercar perché piú questo o quello
rimanga eletto e col suo bossol vuoto,
credo che rideremmo nel vedello,
e ci riuscirebbe il caso ignoto,
e che daremmo a tutti alfin ragione
della diversa lor disposizione.
2
     Ha gran poter malizia ed impostura;
non è spenta ragione né giustizia.
Delle prime i seguaci ho gran paura
sien piú per ignoranza che malizia.
Ognun col suo cervello ha sua misura;
e tal crede ire al santo di Galizia,
ch’entra in bordello, e d’aver fatto male
s’avvede a stento, giunto allo spedale.

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3
     L’odio e i rispetti umani han molta parte
a far piú l’un che l’altro abbia pallotte;
pur, quantunque ignoranza è ignuda d’arte,
lusinga le persone d’esser dotte,
e un numero infinito poi comparte
il voto suo per vie bistorte e rotte;
ma ognun Caton si crede e lo disperde
contro anche a san Francesco, e va nel verde.
4
     Io ballottai talor qualche piovano,
e credei pel migliore dar la fava.
Discorrendo tra me dicea pian piano:
— I piú faran lo stesso, — e m’ingannava.
Dall’altre opinioni ero lontano,
e quando le pallotte annoverava,
ero tra ventí, e cento aveano detto
ch’io avevo mal pensato e mal eletto.
5
     E non avendo uman rispetto alcuno
o fine d’interesse o di Hvore,
credei d’esser almen tra novantuno,
pensando col mio capo in sul migliore.
Vidi ch’errai nel scegliere quell’uno,
e rimasi col numero minore,
poiché cento pallotte a me davante
m’han detto ch’io pensavo da ignorante.
6
     Vidi certo de’ Gani per la chiesa,
delle Marfise in sui veron di fuori;
ma so che nel mio cor feci difesa,
né vezzi ebbero parte né impostori.
Basta, giustízia è stata sempre illesa,
ch’anche Angelin da’ gran persecutori
trasse alla fine, e mi convien pur dillo,
d’un voto, ma custode del sigillo.

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7
     Credo p)erò anterior fosse una patta:
Turpin dubbioso lascia questo fatto.
Marfisa pel furor fu quasi matta:
si chiuse nel zendale, e di soppiatto
tra gente e gente va fuggendo ratta.
Ipalca l’ha perduta qualche tratto.
Questo laudando il nome di Maria,
e l’altra bestemmiando andaron via,
8
     Ganellon traditor per mano prese
Filinor, col baston dall’altra mano.
Va via pronosticando che il paese
presto verria in poter dell’Alcorano.
— Le veritá a’ miei giorni erano intese —
diceva: — il buon pensar ito è lontano.
Confida in Cristo, caro figlio mio:
non sbigottir, che ognun prò vede Dio. —
9
     Il conte Orlando e Dodone e Rinaldo,
che la sinceritá non han perduta,
uscir dal parlamento ognuno caldo:
corrono ad Angelin, che gli saluta.
Dicean: — Quell’impostore, quel ribaldo
di Gano, a questa volta l’ha perduta; —
e il povero Angelin vanno abbracciando.
Piangea per l’allegrezza il conte Orlando.
10
     Con bella grazia alcuni paladini
diceano ad Angelino: — Io t’ho voluto; —
ed alle figlie sue faceano inchini,
narrando il lor buon core per minuto.
Angelin gli ringrazia oltre a’ confini,
dicendo: — Se m’avete conosciuto
buon custode al sigillo, anche si vuole
ch’io via conduca queste mie figliuole.

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11
     Dodone. udendo, disse ad Angelino:
— Perdio! meglio a’ tuoi giorni non dicesti;
menale in casa e chiudi l’usciolino;
ogni buon core in ciarle di fuor resti.
Costoro attaccherebbono l’uncino
con mille falsitá, mille pretesti,
e l’ospitalitá saria tradita
con l’amicizia in bocca piú forbita. —
13
     S’accrebbero le risa, e i spiritosi
piantaron prestamente la questione
con testi e passi di scrittor viziosi,
che avean spregiudicate le persone;
e provar s’ingegnavano furiosi
che parlava da stolido Dodone,
che l’ospitalitá non s’offendea
con qtielle cose ch’egli s’intendea.
13
     — Andate a disputar queste dottrine
— dicea Dodon — con le vostre sorelle.
Conduci via, Angelin, queste meschine,
che le question divengon troppo belle. —
Rinaldo a que’ discorsi pose fine;
e accompagnate a casa le donzelle,
in una malvagia, per la salute
d* Angelin, sei guastade ha poi compiute.
14
     Fu bella cosa il vedere i votanti,
ch’eran dugento al parlamento stati:
novantanove certo poco avanti
contrari ad Angelino erano andati;
pur van tutti dugento allegri, ansanti,
a casa del meschin che gli ha accettati;
e ognuno si rallegra e ride e balla
e giura: — Io t’ho voluto con la palla. —

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15
     Tanto che se Angelin saper volea
chi gli avesse il suo voto o tolto o dato,
per miglior segno solamente avea
a conoscer colui che l’ha burlato,
che quel s’affaticava e s’accendea
per farsi creder molto affaccendato.
La troppa affettazione ed il giurare
faceva del contrario dubitare.
16
     Oh quanti alle miserie del meschino
negato avean due scudi poco pria,
d’impuntuale il povero Angelino
accusando e di poc^ economia!
Venuti or sono a dirgli: — Io mi t’inchino:
sento un piacer che, per l’anima mia,
sono per impazzare: g^á tu sai,
quanto ben t’ho voluto sempremai. —
17
     Frattanto Gano col cervel mulina
come potesse risarcire il danno
delle cere consunte la mattina
e dell’util perduto in capo all’anno;
e tanto e tanto un suo pensier raffina
sopra un certo tranello, un certo inganno,
che finalmente gli piaceva molto,
e a visitar Marfisa si fu vòlto.
18
     Trovolla col zendale ancora in testa,
ch’era sopra una scranna in sfinimento.
Ipalca Tassa fetida le appresta
e le fa crocioni sotto il mento.
Col fumo della carta la molesta,
e con una raccolta le fa vento.
Mise un gran mugghio alfin la disperata,
traendo calci come spiritata.

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19
     Gli occhi tien chiusi e spinge il petto in fuori,
torce la bocca ed ha chiavati i denti,
strappa ciò ch’ella piglia, e merli e fiori;
non sa se donne o uomin sien presenti,
né qual atto l’onori o disonori,
che trae le lacche e l’alza, occhi veggenti;
or si rannicchia ed or si stende in fretta,
si torce, s’aggomitola e gambetta.
20
     Sei damigelle le tenean le braccia:
Marfisa tutte quante le rintuzza.
Chi l’imbusto di dietro le dilaccia,
chi di molt’acqua nella fronte spruzza.
Ipalca era graffiata, meschinaccia,
le mani, e piange e le ciglia strabuzza;
e perch’è giunto Gano, si dispera
a ricoprirle il sen che scoperto era.
21
     Quel tristo ipocriton del conte Gano
disse: — Un effetto isterico gli è questo.
Le porrò sopra il seno una mia mano:
poiché son maschio, ella guarisce presto. —
E giá stendea la man quel luterano
con gli occhi chiusi ed un visino onesto;
ma volle il caso che Marfisa a un tratto
rinvenne, e Gan rimane a mezzo l’atto.
22
     Tornata in sé la dama a poco a poco,
languidetta s’andava rassettando;
veduto Gano, il viso fé’di foco,
e che partan le dame dá comando.
Poi disse al conte: — Che di’ tu, dappoco?
in capo ci ha cacato il conte Orlando.
Ch’è del giiascon? non ebbi in vita mia
tal dolor, per la Vergine Maria. —

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23
     Gano a quel detto ha la testa inchinata,
e si fece la croce e aggfiunse tosto:
— Laudata sempre e non mai bestemmiata.
Voi potete ben credere — ha risposto —
che per me indifferente non sia stata
questa faccenda. Io sperava all’opposto;
ma le cose avvenute, o bene o male,
arcani son del giudice immortale.
24
     E’ mi dispiace sol che il giovinetto
di tanto merto impiego alcun non abbia;
ma pregherò Gesú mio benedetto
che in pazienza ei soffra e non in rabbia.
— S’altro unguento non hai nel bossoletto
— disse Marfisa, — tu mi par da gabbia;
e’ si vuol ben pensar ch’egli abbia stato
un uom che non ha pari e nobil nato. —
25
     Rispose Gano: — Un posto oggi è vacante
di cavalier di camera al re Carlo,
ch’è di trecento e piú zecchin fruttante
il mese; e so ben io come vi parlo.
Ma v’è di mezzo non so qual brigante,
senza di cui non si può guadagnarlo;
certa persona incognita v’è sotto,
per seimila zecchini in un borsotto.
26
     Io non n’ho che tremila e gli sacrifico,
ma per gli altri tremila non ho modo. —
Disse Marfisa: — Assai di te m’edifico,
ma per gli altri tremila è duro il chiodo.
Fammi parlare al mezzo, e mi certifico
ch’io ridurroUo vizzo, s’egli è sodo:
saprò toccar le corde e tórre il vento
fer far che de’ tremila sia contento.

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27
     — Per meno di seimila non sperate,
^^né la persona palesar vi posso
— diceva Gan; — ma se i tremila date,
noi vedrem tosto Filinor riscosso.
— Io non so — dicea l’altra — se sappiate
che in questa casa non dispongo un grosso,
e e’ ho un fratello e una cognata intorno,
che ascoltan prieghi come il ciel del forno. —
28
     Risponde Gan: — Se voi saprete fare,
il marchese Terigi è buon cristiano;
io so che gli farete fuor schizzare,
che a lui son come un soldo al g^an soldano.
Gridò Marfisa: — Oh poffare! oh poffare!
si vede ben che sei l’antico Gano,
Di Filinor Terigi è in gelosia.
Questo mi basta. Io t’ho inteso. Va’ via. —
29
     Gano levossi, e: — Il ciel vi benedica,
vi lascio con la grazia del Signore —
disse partendo. Or converrá ch’io dica
del marchese Terigi senza core,
che tra il martello e l’amor per l’amica
se gli era liquefatto in un favore.
Dopo la notte della ricreazione
era smagrato trenta libbre buone.
30
     S’egli era a mensa, a mezzo non mangiava;
s’egli era a letto, non dormiva un’ora:
ansava, si lagnava, sospirava;
gran pianto gli occhi tondi caccian fuora.
Una bocca facea, che somigliava
le denonzie scerete e peggio ancora;
talor da sé facea qualche lamento,
come gli permetteva il suo talento.

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31
     — Gran crudeltá, gran cor, gran tirannia
— dicea — dell’illustrissima Marfisa!
Chi l’avria detto mai? Gesú! Maria!
a un uom com’io son fatto, in questa guisa?
per un bardasso, ch’io non so chi sia,
che fé’Parigi scoppiar dalle risa,
giugnendo di Guascogna con la rozza
e con quel suo staffiere e la carrozza!
32
     Io nella stalla ho sessanta corsieri,
svimèr, landò, carrozze, venti legni
d’intaglio e d’oro con belli origlieri,
fodere di velluti ricchi e degni.
Otto lacchè, trentacinque staffieri,
possessioni, castella e quasi regni;
e posso, per la grazia del Signore,
pisciare in letto e dir che fu sudore.
33
     Non son si brutto poi della persona,
quando un ricco vestito in dosso metto,
e quando ho una parrucca in testa buona
e un manichin di merlo che sia netto.
Io so che, quando alcuno mi ragiona,
sta sempre in riverenze e gran rispetto.
Ma che mi giovan tante belle scene,
se la Marfisa non mi vuol piú bene? —
Cosi dicendo, si metteva a urlare
come un fanciul che al culo abbia un cavallo.
Prete Gualtier lo corre a conforure,
gridando: — Voi parete un pappagallo.
Qui non vi convien piangere e gridare:
cotesto amore alfin convien lasciallo.
Di troppo offeso siete: io vi consiglio
a lacerar la scritta dal periglio.

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35
     Non vi tirate in casa quel demonio:
di non volerlo gran ragione avete.
Se passate con quello in matrimonio,
perdio, marchese, rovinato siete.
È un diavol che non teme sant’Antonio;
ed io noi scaccerò, benché son prete.
Liberatevi tosto dall’impegno,
o fuggo via, da sacerdote indegno.
36
     — Per caritá, Gualtier, non mi fuggfire,
— disse Terigi; — tu di’ bene assai.
Io voglio andare a quel dimonio, e dire
e far quel che non credi e che udirai.
La mia ragion saprò farla sentire:
lacererò la scritta, lo vedrai;
e poiché avrò esaltato il mio gran merito,
voglio voltarle tanto di preterito. —
37
     Cosi detto, Terigi indosso mette
il piú ricco vestito ch’egli avesse,
Dimenando le sue corte gambette,
va via che par che il vento lo spignesse.
— La regina vo’ far delle vendette,
né baderò a menzogne né a promesse, —
giva dicendo, e gli occhi tondi tira:
giunse a Marfisa che sembrava l’ira.
38
     Eran scorsi otto giorni dalla sera
della conversazion che v’ho narrata,
che pe’ disgusti ritirato s’era
Terigi e non l’avea piú visitata.
Marfisa lo guardò d’una maniera
la piú bizzarra che fosse inventata,
e non gli ha dato campo a parlar prima,
ma lo rimproverò di poca stima.

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39
     — Meritereste — disse — che l’amore
e’ ho per voi se n’andasse alle calcagna.
Mi lasciaste otto giorni contar l’ore,
come s’io fossi qualche vostra cagna.
O un asin siete, o non aete core,
o un core avete fatto di lasagna.
In parola d’onor, meritereste^
le corna, ancor che mille capi aveste.
40
     A questo modo si trattan le spose!
senza creanza, rozzo villanzone!
Da dama, paion cose fabulose,
da farvi sii capitolo o canzone.
Fatemi un’altra ancor di queste cose,
perdio! non vi varrá star ginocchione. —
Il marchese rimase stupefatto
e pareva briaco, anzi pur matto.
41
     E cominciò: — Illustrissima... — ma quella
non gli lasciava dire una parola.
Ei ripiglia: — Illustrissima... — e pur ella
gli va serrando le sillabe in gola.
— Tacete lá — gridava, e pur martella
che non dovea lasciarla un giorno sola,
e che una sposa, sviscerata amante,
si tratta meglio, e chiamalo forfante,
42
     E perch’ei pur r«illustrissima» intuona,
ella ebbe fínta alcuna lagrimetta.
Terigi allora a un pianto s’abbandona
con una bocca quasi di berretta,
dicendole: — Illustrissima padrona,
per l’amor di Gesú, datemi retta.
Io vi chiedo perdon, ma... — Dopo questo
gl’impedieno i singhiozzi il dire il resto.

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43
     La dama lo scusò per quella volta;
il resto non lo volle piú sapere.
— La vostra villania resti sepolta:
siate per l’avvenir piú cavaliere. —
Cosi diceva, e Terigi l’ascolta,
e non sapeva parlar né tacere.
Marfisa pur lo guarda e ha replicato:
— Si, vi perdono; si, v’ho perdonato.
44
     Anzi, perché un bel pegno tosto abbiate
dell’amor mio, della mia confidenza,
vo’ che tremila zecchin d’or mi diate,
che supplir degg^o a certa mia occorrenza.
A un tal segno d’amor vi rallegrate:
speditemeli tosto in diligenza;
ma in avvenir non fate mal egrazie,
perch’io non vi farò si belle grazie. —
45
     A si gran colpo il marchese novello,
che nell’interno è gabelliere ancora,
sentissi gran rivolta nel cervello,
pulsare il cor che gli balzava fuora.
La soggezion, l’amore in un fardello
coir interesse, e il dubbio lo scolora,
che lo sborsar tremila zecchin d’oro
non gli sembrava picciolo lavoro.
46
     Volea dir si, volea dir no, volea
promettere e mancar: va ruminando.
Gran pagamenti fatti ch’egli avea,
riscossion dure andava balbettando.
Sorridendo Marfisa soggiugnea:
— O vile, o pidocchioso, o miserando I
voi mi movete il vomito, da dama;
non dite piú, questo parlar v’infama.

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47
     C’è Filinor guascon, che^ benché paia
un poveruomo, ha in cor de’ gran luig^ ;
e basterá ch’io mandi una ghiandaia,
che gli fo grazia a chiedergli servigi.
Credei farvi finezza, allocco, baia,
cavalier delle fogne di Parigi!
Or vo’ farvi veder come un signore
tratta le dame che gli fanno onore. —
48
     Cosi detto, s’appressa al calamaio
fingendo dissegnare un suo viglietto.
Non dimandar se Terigi fu gaio
o se fu per morirsi di dispetto.
Avrebbe dato il cuore, non che il saio,
piuttosto ch’ella scriva al giovinetto:
non pensa s’ella dica bene o male,
ma l’ammazza il viglietto al suo rivale.
49
     A’ giorni suoi non fu tanto eloquente
quanto in quel punto il gabellier marchese.
Le chiedeva perdono umilemente,
giurava non aver le cose intese;
che i tremila zecchin subitamente
le avría mandati, i piú bei del paese,
e ventimila e trentamila in oro,
purch’ella non scrivesse a Filinoro.
50
     Quella bizzarra, dentro a sé ridendo,
fece per molte scosse l’ostinata;
ma perché alfin Terigi va soffrendo
e cominciava faccia rassegnata,
lasciò la penna e disse: — Io mi vi arrendo,
che sono alfin di zucchero impastata.
Maledico il mio cor, che buon non sia
d’usar con chi l’offende tirannia. —

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51
     Terigi d’allegrezza è di sé fuori,
le bacia in fretta tutte due le mani.
— Perdio — dicea, — illustrissima, i sudori
fareste uscir dalle midolle a’ cani. —
Cosi detto, correva a’ suoi tesori,
e tremila zecchini veneziani
tosto spedi. Marfisa a Ganellone
gli manda per l’incarco del guascone.
52
     Or qui potrebbe dirmi alcun lettore
che una dama alle truffe non discende.
Ed io rispondo che Matteo scrittore
faceva in quell’etá commedie orrende,
e che mettea le dame, traditore
piú che le putte, ove il buon vin si vende;
onde Marfisa il costume apparava,
e a tempo e luogo poi l’adoperava.
53
     Una commedia avea Matteo formata,
detta /m buona moglie, e posta in scena,
dove una dama finta spasimata
d’un mercante vedeasi, molto amena.
Sei zecchin d’oro avea chiesti l’ingrata
in prestanza a colui, ch’io il credo appena;
con que’ zecchini poi col suo marito
avea barato il mercante e tradito.
54
     Questo è il costume che s’usava allora
nelle commedie e ne’ libri novelli.
Ora torniamo a Gan, che s’innamora
de’ tremila zecchini, che son belli:
gli tocca e con la vista gli divora;
poi gli ripon ne’ sacri suoi cancelli;
poi ride e dice: — Questi gli sparagno,
perch’io sono il mignon di Carlo Magno.

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55
     Volle che Filinoro grli facesse
una scrittura, in viso assai cortese,
con la qual dell’incarco promettesse
a Gan cento zecchin pagar il mese.
— Di questi celebrar fo tante messe
e marito fanciulle del paese —
diceva il conte; e Filinor fu tosto
per questa via nell ’incarco riposto.
56
     Non si potria mai dir la i)etulanza
del guascon, quando egli ebbe il posto altero.
Tutti disprezza, e con poca creanza
trattava ogni piú antico cavaliero.
— Il parlamento ebbe una gran baldanza
a non darmi il sigillo dell’impero
— diceva; — per sua parte n’ho vergogna
e gliene incaco e peggio, se bisogna.
57
     Marfísa a’ paladini aveva detto
€ assassini» e «briccon» con insolenza,
che non aveano Filinoro eletto:
gli discacciava dalla sua presenza.
Veniva il buon Terigi, poveretto;
ma lo trattava con indifferenza.
De’ tremila zecchin piú non parlava:
la trama col guascone seguitava.
58
     Chi avesse detto a Terigi: — Marchese,
la somma de’ zecchini avete data
perché il guascon sia glande a vostre spese
e possa corteggiar la vostra. amata, —
credo che in un pilastro del paese,
fuori di sé, la testa avrebbe data;
che certo dopo quell’opra famosa
Marfísa e Filinor sono una cosa.

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59
     Era, come abbiam detto, quel guascone
un garzonaccio del nuovo costume,
e la trattava con adulazione,
con un ruscel di lodi, con un fiume.
Partito dalla sua conversazione,
dicea: — Son secco, piú non vedo lume:
son pur noiose queste innamorate; —
e s’inventava cose da stoccate.
60
     Talor diceva: — Io fui da quella matta;
non poteva sbrigarmi dall’assedio:
quand’io ci son, non vai che la combatta
perché mi lasci andar; non c’è rimedio.
La mi guarda languente, contraffatta;
la trae sospiri, ch’io muoio di tedio.
Le puzza il fiato si, quando l’ho presso,
ch’io soffrirei piú volentieri un cesso. —
61
     La dama gli avea dato qualche volta
del matrimonio con Terigi un cenno.
Il guascon detto avea: — Siete sepolta;
pur le promesse mantener si denno:
ma se goffo è il marito, ha fatto còlta
la donna, ed ha fortuna s’ella ha senno.
Voi m’intendete giá: questi imenei
son per comoditá dati dai dèi. —
62
     Rideva la fanciulla estremamente,
dicendogli: — Tu sei pur spiritoso. —
Quel garzonaccio aggiungea prestamente
detti peggior, sicch’io dirli non oso.
Quando partia, Marfisa diligente
Ipalca gli spedia senza riposo,
e sali, e dolci accuse si mandavano,
e viglietti infocati che fumavano.

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63
     Terig^ in casa non trova la sp)osa,
e s’anch’ell’era in casa, ella non v’era.
Ognuno al meschine! narra qualcosa,
e s’inventava, ed egli si dispera.
Chi l’aveva veduta furiosa,
chi travestita a’ ridotti la sera;
ond’egli era geloso e riscaldato,
e mandava spion per ogni lato.
64
     Se alcuna volta in casa la trovava,
or sbavigli, or rabuffi riscuoteva.
Eccoti Filinoro che arrivava,
e appresso la bizzarra si metteva.
Il marchese sudava e sospirava
per qualche gesto che lo trafiggeva,
e ieggio, che il gnascon mai non partia.
ma volea ch’egli primo andasse via.
65
     Correa d’aprile il bel mese ridente,
e s’aspettava il giugno agli sponsali.
Il Tauro in ciel minacciava sovente
alla teda d’imen futuri mali.
Nascean de’ gran sospetti veramente
di scioglimento ancora in fra i mortali.
Tutto Parigi stava in attenzione
su’ scherzi di Marfisa e del guascone.
66
     Terigi fece dir da don Gualtieri
a Rugger che troncasse quella trama.
A Filinoro avea detto Ruggeri
che cercasse altra casa ed altra dama.
Il guascon gli rispose: — Volentieri; —
ma fé’peggior effetto il porre in brama,
che la difficoltate ed il timore
fé’cercar nascondigli e punti ed ore.

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67
     Liberamente lo voleva in casa
Marfisa, e non voleva opposizioni;
ma Filinor l’aveva persuasa
che, rubati, miglior sono i bocconi.
Ed ella per amor cheta è rimasa,
cercando or buche, or tane ed or cantoni.
Se n’andava l’onor di male in peggio
per le altrui vigilanze ed il motteggio.
68
     La mascheretta a’ furtivi sospiri
era alla dama opportuna sovente.
Finito il carnoval, per i raggiri
veniva la quaresima assistente,
i sermon sacri ed i santi ritiri,
e il zendal era un mezzo onnipossente:
ch ’è la finezza dell’usanza nuova
far quel che alletta, e quel che alletta giova.
69
     Nuovamente a Rugger Terigi accocca
il cappellan Gualtieri, a dirgli aperto
che troppo l’onor suo Marfisa tocca
e che il nuzial rimanderá per certo.
Rugger afflitto non apriva bocca;
e poich’agli ebbe sofferto e sofferto,
a Carlo Magno un giorno fece istanza
che a Filinoro facesse aver creanza.
70
     Non s’usavan duelli, e le vendette
s’erano riformate dall’antico:
per vie nascoste dirette e indirette,
chi mente avea domava l’inimico.
Narrò Rugger a Carlo e cinque e sette
bricconerie del guascon ch’io non dico,
le corna di Terigi e di Marfisa
e il disonor della magion di Risa.

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71
     Carlona, vecchio rimbambito, ascolta;
e perch’egli era d’impression gagliarda,
appena ebbe Rugger data la volta,
chiama il guascon, che un momento non tarda,
e disse: — Sappi che, se una sol volta
andrai dov’è Marfisa, ben ti guarda,
io te lo giuro da quel re che sono,
che ti farò morir senza perdono. —
72
     A Gano Filinor racconta il caso.
Il Maganzese corre a Carlo Magno,
e come bufol menalo pel naso,
narrando la faccenda da mascagno;
tanto che il rimbambito è persuaso,
e in rabbia con Rugger batte il calcagno;
e rivocando i primi ordini suoi,
disse al guascon: — Va’ a far ciò che tu vuoi. —
73
     Io so che mi dirá qualche lettore:
— È impossibil per queste frascherie
s’incomodasse un tanto imperatore. —
Rispondo ch’io non dico mai bugie,
e ch’egli avea ricorsi a tutte l’ore
per odii, per timor, per gelosie.
Dame e serventi, come le formicele,
volean dall’imperier cose ridicole.
74
     Ecco di nuovo incomincia la tresca
de’ nascondigli e degli amor secreti.
Terigi le minacce pur rinfresca,
quando il garbuglio stran Rugger non vieti.
Don Guottibuossi don Gualtier ripesca
e trova scuse, e gridano tra preti:
rattaccónanla un tratto, e quattro e diece;
ma alfin non c’è piú stoppa né piú pece.
e. Gozzi, La Marfisa bizxarra.

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75
     Era un di di quaresima, e nel duomo
per il predicator v’era gran piena,
che si teneva inarrivabil uomo
per eloquenza e mente e voce e lena.
Predicava ogni di che il volean domo
i suoi persecutor; ma: — La balena
— dicea — non teme il morsecchiar de’ granchi, e
Dio non vuol che l’uditorio manchi,
76
     Un fraticei piú franco non fu visto.
Usa argomenti e prove non piú intese.
Saltava dalla passion di Cristo
ad una descrizion del mal francese.
Poiché dell ’«attrazione» avea provisto
e «parti eterogenee» il paese,
e d’un trattato bel di notomia,
faceva il crocione e andava via.
77
     La «predestinazione» usava farla
di sabato, perché gli altri oratori,
non predicando il sabato, ascoltarla
potessero con gli altri ascoltatori.
Ma la ragion probabile, a pensarla,
ch’ei spargesse di sabato i sudori,
era ch’essendo solo quella volta,
facea nel borsellin maggior raccolta.
78
     Scrive Turpin che in questa sua fatica
avea detta una cosa bella assai,
cioè che Cristo nella storia antica
a Pietro disse: — Tu mi negherai; —
e che Pietro risposto avea: — Né mica;
ciò che dite, maestro, non fia mai; —
ma che Pietro alla fin l’avea negato,
siccome Cristo avea pronosticato.

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79
     — E sapete perché — gridava il frate —
Pietro avea detto il falso, e il vero Cristo?
Questo fu: state cheti e m’ascoltate.
Perché di Pietro piú ne sapea Cristo. —
Turpino scrive che le sputacchiate,
a questa distinzion tra Pietro e Cristo,
furon tremila cento e settantotto,
e che rise Dodon che gli era sotto.
80
     Ma ripiglio la storia. Il fraticello
de’ costumi del secol predicava.
Sedea Terigi proprio in faccia a quello,
che con gli occhi suoi tondi l’ascoltava.
Un sedil vuoto ha innanzi, e il frasconcello
del guascon con disprezzo Io pigliava;
gli siede avanti, e talor si volgea
e lo guardava in viso, e poi ridea.
81
     Parecchie asinitá, simili a questa,
dice Turpin che gli andava facendo;
ma l’ultima gli fu tanto molesta,
che fu quasi per trarre un guaio orrendo.
Una lettra il guascon poco modesta,
che ancor fresco ha l’inchiostro, va leggendo,
e la tien tanto aperta e si palese,
che leggerla potesse anche il marchese.
82
     In fronte avea la lettera: «Cor mio!»
il contenuto non lo voglio dire;
basti saper che il fine era un addio
da far di tenerezza un uom svenire.
— Miserere di me, che mai vegg’io! —
disse Terigi e si potè sentire;
perch’ell’era una lettera, una manna,
di pugno proprio della sua tiranna.

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83
     Non si ricorda piú d’esser in chiesa,
né del predicador, né dell’udienza.
Si leva e corre con la faccia accesa,
come se lo cacciasse la scorrenza.
Dá d’urto negli astanti e fa contesa;
s’è scordato il «con grazia» e il «con licenza»:
fece rivolta come un Truffaldino,
arrabbiato, grassotto e piccolino.
84
     Esce dal tempio alfine, a casa è giunto,
e don Gualtier, suo mansionario, chiama.
— Prete — gli disse, — è questo il duro punto,
ch’abbandono Marfisa, che non m’ama.
Non m’ama, mi tradisce! Son consunto:
si freghi dietro il suo titól di dama.
Vestiti in lungo tosto, e m’ubbidisci:
questa scritta nuzial restituisci. —
85
     Poi della lettra e del guascon sfacciato
gli narra. Don Gualtier facea stupori:
poscia in veste talare s’è avviato
alla magion di Risa a far rumori;
e poiché il caso e il comando ha narrato
del padron suo, la scritta trasse fuori.
Sopra d’un tavolin la pose, e poi
volge le spalle e va pe’ fatti suoi.
86
     Bradamante è caduta in sfinimento;
don Guottibuossi corre per l’aceto;
Ruggero è saggio e prova un gran tormento:
volea gridar, voleva starsi cheto.
Marfisa seppe il fatto e, come il vento,
spedisce Ipalca al guascone in secreto
a dirgli che, se il mondo rovinasse,
ella gU vorria bene, e ch’ei l’amasse.

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87
     Queste difficoltá, questi fracassi,
questi accidenti grandi da narrarsi,
eran per la bizzarra giuochi e spassi,
perocché andava dietro a immaginarsi
che nelle brutte e ne’ talenti bassi
la vita cheta sol potesse darsi.
— Le marmotte — diceva — di pel tondo
non sono buone a tener desto il mondo.
88
     Chi ha merito — diceva — il mondo tiene
sempre in discorso e in sé col guardo vòlto.
Che dica bene o male, o male o bene,
di questa cosa non mi curo molto.
De’ bacelloni han delle sciocche pene,
ma i scempi non gli curo e non gli ascolto.
L’invidia e l’ignoranza può contendere,
ma il mondo è per meta sempre da vendere. —
89
     Dalle commedie e da romanzi nuovi
traea gran parte de’ suoi bei riflessi.
Nelle pubbliche piazze e ne’ ritrovi,
nelle botteghe, e tra birri e tra messi,
si fanno ciarle intanto, e par che provi
ognun che il caso nato ben non stessi,
che buona cosa avea Terig^ fatta
e che Marfisa era una bella matta.
90
     Di Filinor la voce universale
dicea ch’egli era un cavalier briccone.
Ei va pensando riparare al male:
sfida Terigi con un cartellone;
che scelga il campo e l’arma; che a mortale
duello il vuol per la riputazione.
Terigi, grasso, pigro e piccoletto,
fu per morir quando il cartello ha letto.

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91
     L’onor non vuol che tardi alla risposta,
né che ricusi la disfida certo;
ma se guarda alla trippa mal disposta
e ascolta il cor, si ritrova diserto.
Chiama il prete Gualtieri: — Dch! t’accosta,
dicendo, ed il cartel gli dava aperto.
Don Gualtier legge. Il caso del duello
non vo* dirvi per or, ch’è troppo bello.



fine del canto settimo