La Stella Polare ed il suo viaggio avventuroso/Parte seconda/3. Il mar Bianco

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Capitolo III

Il mar Bianco


Nel mar Bianco pochi ghiacci friabili, che non possono opporre la menoma resistenza.

Il tempo è oscuro: le nubi che coprono la vôlta celeste dànno un senso di tristezza indefinito e tingono di grigio le acque del mare, con dei riflessi color dell’acciaio; ma il vento è buono e le onde che scendono dall’Artico non hanno la violenza che acquistano nelle burrasche. La Stella Polare s’avanza arditamente, coi flocchi e le gabbie al vento, mentre la macchina, ancora accesa, mugge sordamente, facendo gemere i fianchi di legno dell’antica baleniera.

S. A. R. sulla tolda, guarda attentamente verso il nord; sembra che cerchi i ghiacci coi quali è ansioso di misurarsi.

I suoi ufficiali gli stanno accanto, interrogando l’orizzonte coi cannocchiali. Anch’essi cercano i fantasmi bianchi della regione artica.

A prora e a poppa, i marinai norvegesi, mescolati alle guide alpine ed ai due marinai italiani, chiacchierano e discutono animatamente.

– Quando si giungerà alla Terra di Francesco Giuseppe? – Questa è la domanda che corre su tutte le bocche. [p. 169 modifica]

Cardenti giura che vi giungeranno in quattro bordate a dispetto dei ghiacci; Canepa, più calmo, più riflessivo, prolunga quelle bordate alla durata d’una settimana, se tutto andrà bene.

Andresen, il cicerone dell’equipaggio, li ascolta, li guarda e sorride.

– Tu che sei stato ancora laggiù, di’ qualche cosa. – disse Olanssen, il carpentiere. – Questa Terra di Francesco Giuseppe non sarà già al polo?

– Tutto dipende dai ghiacci, miei cari, – rispose il giovane nostromo. – Credete voi che non se ne debba incontrare? Certi anni anche in pieno luglio se ne trovano in gran numero molto prima di giungere alla Terra di Francesco Giuseppe. Conoscete voi la storia della Fraya?

– Non so che cosa sia, – disse Olanssen.

– Ve la racconterò più tardi, quando giungeremo in vista della Nuova Zembla.

– E cosa c’entra quella nave con noi? – chiese Torgrinsen, il secondo macchinista.

– Perchè è stata presa dai ghiacci sulle coste di quelle isole e vi assicuro che l’inverno non era ancora sopraggiunto.

– Tu dunque credi che i ghiacci ci arresteranno prima di giungere all’arcipelago Francesco Giuseppe? – chiese Olanssen.

– Io non dico questo. Da una parte o dall’altra, la Stella Polare passerà, non dubitate. S. A. R. non è uomo da dare indietro ed il capitano Evensen non è un marinaio da aver paura dei ghiacci.

– In conclusione quando credi che giungeremo al Capo Flora? – domandò il carpentiere.

– In una diecina di giorni se il tempo si mantiene buono e se Dio ci aiuta, – rispose il nostromo.

– Tu conosci quelle terre?

– Vi sono stato più volte.

– Come sono?

– Splendide in estate, orribili d’inverno.

– Troveremo orsi bianchi? – chiese il secondo macchinista.

– Ve ne sono molti.

– E foche?

– Non mancano. [p. 170 modifica]

– Allora faremo delle grandi cacce. Vi è nessuna baleniera su quelle coste?

– Forse incontreremo la Cappella, partita qualche mese prima di noi per rintracciare una spedizione americana.

– Quale?

– Quella di Wellmann.

– Ne ho sentito parlare, – disse il carpentiere. – Si dice che quella spedizione avesse l’intenzione di spingersi verso il polo.

– È già il secondo tentativo che fa il signor Wellmann, ma dubito che vi riesca. Ad ogni modo, se non è morto, lo incontreremo di certo.

– Si sa dove ha passato l’inverno?

– Al capo Tegetthoff sembra, – rispose il nostromo.

– E noi lo passeremo? – chiese il secondo macchinista.

– Oh!... A questo penserà il Duca.

– E che cosa faremo al Capo Flora?

– Al Capo si farà un deposito di viveri, poi avanti verso il nord. È lassù che si vuole andare e vivaddio, tutti noi faremo il possibile per arrivarci. –

Mentre l’equipaggio chiacchierava, la Stella Polare continuava la sua corsa verso il nord, aiutandosi con le vele e col vapore.

Il tempo si manteneva grigio, plumbeo, coperto da alti nebbioni, però una calma quasi completa regnava nelle alte sfere.

Qualche ondata di quando in quando veniva a rompersi sulla prora della nave, frangendo dei ghiacciuoli poco consistenti e la sollevava bruscamente con poco piacere delle guide alpine, nemiche giurate dell’infido elemento.

Numerosi uccelli marini venivano di tratto in tratto a volteggiare sopra l’alberatura, salutando i naviganti con strida gioconde e senza manifestare nessuna apprensione.

Alcuni si posavano perfino sui pennoni, guardando tranquillamente i marinai, poi riprendevano il loro veloce volo, radendo le onde o tuffandosi fra la spuma per pescare i granchiolini di mare.

Erano sempre i soliti gabbiani e le solite procellarie, volatili che s’incontrano anche a delle distanze incredibili dalle coste.

L’orizzonte appariva deserto. Solamente una nave, che fu [p. 171 modifica]riconosciuta per inglese, fumava verso il nord-ovest, in rotta per Arcangelo.

L’indomani, la Stella Polare, sempre favorita dal tempo tranquillo, imboccava lo stretto della penisola di Kola facendo rotta verso quella di Kanin, terra che si protende verso il nord per molte diecine di miglia e che ha vagamente la forma di un dente.

Anche là numerosissimi uccelli marini, mescolati a non poche oche bernide, a gazze marine ed a labbi. Fra le onde invece qualche narvalo e presso la costa qualche foca sdraiata fra le rocce.

Il 14 luglio la Stella Polare doppiava la penisola di Kanin salutando l’ultima terra europea. Infatti al di là non doveva incontrare più nessuna costa del vecchio continente, eccettuate le due isole della Nuova Zembla.

Entrava allora nell’ampio mare di Barentz che bagna contemporaneamente le isole summenzionate, quelle dello Spitzbergen e la Terra di Francesco Giuseppe, campo di pescatori di balene, essendo ancora numerosi quei cetacei, non ostante le cacce secolari continuate, con feroce accanimento dagli inglesi, dai danesi, norvegesi e dagli olandesi.

Un tempo quel vasto bacino era frequentato da un gran numero di velieri, ma ora è percorso solamente da poche baleniere.

I cetacei, troppo perseguitati, si sono ritirati più al nord, cercando un asilo più sicuro fra i campi di ghiaccio del polo.

Trecent’anni or sono, una vera lotta si era impegnata in questo mare, ora così poco frequentato, fra gli olandesi, gli inglesi ed i norvegesi, per avere il monopolio della pesca delle balene.

Intere flotte salpavano, in quei tempi, per i mari Artici per dare la caccia a quei giganti del mare. Le isole dello Spitzbergen erano allora forse più note del giorno d’oggi, e così pure le coste della Siberia.

Si narra che dal 1696 al 1722 furono impiegati dagli olandesi l’enorme numero di cinquemila e ottocento vascelli, catturando trentamila e novecento balene.

Fu la distruzione della balena franca, chiamata dagli inglesi black-wale. Questa specie si crede che ormai sia se non scomparsa, prossima a scomparire. [p. 172 modifica]

Infatti dal 1840 non fu possibile incontrarne più una in quel mare.

In quelle epoche, fortunate per le nazioni marinaresche, vi erano perfino degli stabilimenti nello Spitzbergen, all’isola Cherie, a Juan Mayen, posseduti da tedeschi di Brema e d’Amburgo, da olandesi, da francesi, da danesi, da russi e perfino da spagnuoli.

Si fondeva il grasso delle foche, allora numerosissime, delle morse, delle balene, si preparavano le pelli degli orsi bianchi, delle renne, delle volpi azzurre, delle lontre marine. Potenti società si erano costituite all’uopo, le quali mandavano marinai, cacciatori e pescatori, ma dopo il 1750 decaddero.

Scomparse le balene, diminuite le foche e le lontre, a poco a poco le società si sciolsero, le navi divennero più rade finchè cessarono del tutto dal frequentare quei paraggi, che avevano insanguinati per oltre duecento anni.

Oggi, solo poche navi baleniere, quasi tutte norvegesi, frequentano il mare di Barentz, occupate a distruggere quel poco che hanno lasciato quelle potenti flotte.

Il giorno seguente la Stella Polare, che aveva messo definitivamente la prora al nord, avvistava Colguev, isola perduta fra la costa russa e la Nuova Zembla, tutta rocce e nevi, frequentata soltanto da pochi pescatori russi, i quali vanno a cacciare le ultime foche.

Due giorni dopo la Stella Polare si trovava attraverso la Nuova Zembla, vasta terra divisa in due isole, che serve di barriera al mar di Kara.

Essa è divisa in due dallo stretto di Matokin ed è separata dalla costa russa da quello di Jugor, il quale bagna le coste d’una terza isola, di gran lunga minore delle due prime e che si chiama Vaigatz.

Questa terra è inospitale, poco nota, disabitata, non essendo visitata che dai pescatori di foche, i quali vi soggiornano il meno possibile, in causa del freddo eccessivo che vi regna e della furia del vento polare.

Quantunque così vicina alle coste russe, in novembre il termometro scende perfino a 32° sotto lo zero nei pressi della baia di Seichelen e nel luglio a malapena risale a +5°. [p. 173 modifica]

È assai montuosa, con spiagge dirupate, composte di michaschisto e di malachite, e ricca di selvaggina. Non mancano nè orsi, nè renne, nè lupi, nè volpi, ma la sua vegetazione è poverissima, essendo limitata a soli licheni e muschi.

– Andresen, – disse il carpentiere, accostandosi al giovane nostromo, il quale con un cannocchiale osservava attentamente le coste. – Mi pare che la Nuova Zembla sia in vista. La scorgi tu?

– Non sono ancora diventato cieco, amico, – rispose Andresen.

– E la Fraya, la vedi?

– La Fraya?...

– Ci avevi promesso una certa storia a proposito di quella nave. È vero Torgrinsen?

– Verissimo, lo ricordo anch’io, – rispose il secondo macchinista, ridendo.

– Io finirò col diventare il narratore di bordo, – disse Andresen.

– Una carica da aggiungere a quella di nostromo, – seguitò Torgrinsen.

– Infruttifera però.

– Ti pagheremo una bottiglia.

– Vada per la bottiglia. È così eccellente quel vino d’Italia! –

Girò intorno gli sguardi, osservando attentamente le velature, guardò il Duca che stava facendo delle osservazioni assieme ai suoi ufficiali, poi disse:

– Lasciate che accenda la pipa e preparatevi a rabbrividire. La storia della Fraya è una delle più tremende ed è anche una delle più recenti. –

In quell’istante si udì il capitano Evensen gridare:

– Ghiacci a babordo! –

Il giovane nostromo piantò in asso il carpentiere ed il secondo macchinista e si precipitò a prora, dicendo:

– A più tardi la Fraya. Pensiamo a noi, per ora. –

Al grido del capitano tutti erano saliti in coperta issandosi sulle murate per meglio vedere quei primi messaggeri delle regioni polari. Anche le guide, quantunque abituate ai ghiacci delle loro eccelse montagne, erano accorse salendo sul castello di prora.

S. A. R. ed i suoi ufficiali vi erano già. [p. 174 modifica]

Non si trattava di un vero campo di ghiaccio, nè di un ice-berg. Era una flottiglia di hummoks, ossia di montagnole di pochi metri, staccatesi da qualche palk e che andavano lentamente alla deriva, urtandosi rumorosamente tra loro. Ve n’era almeno un centinaio, tutte di poca elevazione e di debole resistenza, assolutamente incapaci di opporre qualsiasi ostacolo all’avanzarsi della nave.

– Sono questi i famosi monti di ghiaccio? – chiese Cardenti, con disprezzo.

– Andresen, – disse Hansen, il velaio. – Se le barriere di ghiaccio che circondano le terre artiche sono come queste, noi andremo molto lontano, mio caro. Le tue paure mi pare purtroppo che siano esagerate.

– Non correre tanto, velaio, – rispose il nostromo. – Domanda al signor Stökken, che non è al suo primo viaggio, cosa ne pensa.

– Questi hummoks non sono che le avanguardie delle vere montagne, – rispose il primo macchinista. – Quando saliremo più al nord, vedrai dei massi di ghiaccio che ti faranno impallidire.

– Vere montagne, avete detto?...

– E di dimensioni enormi, mio caro Hansen.

– È vero signore? – chiese la guida Ollier, che aveva compreso, volgendosi verso il tenente Querini che gli si trovava a fianco, intento a osservare i ghiacci.

– Il signor Stökken ha ragione, – rispose l’ufficiale, il quale, al pari degli altri, cominciava a capire un po’ la lingua norvegese. – Più al nord noi troveremo un numero infinito di montagne galleggianti.

– La cosa mi sembra molto strana, signore, – disse la guida.

– E perchè, mio bravo Ollier?

– Che vi siano dei banchi di ghiaccio, immensi finchè si vuole, lo comprendo; ma non so spiegarmi come in pieno mare si possano formare delle montagne. Forse che sono onde gelate istantaneamente?

– Credete voi che vi possano essere delle onde alte quattro o cinquecento metri? – chiese il tenente, sorridendo. – Sappiate, innanzi tutto, che ordinariamente le onde non hanno, anche durante le grandi tempeste, che una elevazione di undici a tredici metri. [p. 175 modifica]Solo al Capo Horn se ne sono osservate di quelle che toccavano i trenta metri, ma sono eccezioni.

– Allora come spiegate la formazione di montagne di ghiaccio d’una simile altezza? – chiese Ollier, che non riusciva a raccapezzarsi.

– Nelle vostre montagne non vi sono dei ghiacciai?

– Sì, signor tenente, ed in gran numero.

– Ebbene, anche nelle terre polari ve ne sono e forse più immensi, poiché se ne sono veduti di quelli che misuravano perfino cento chilometri di larghezza, specialmente nella Groenlandia.

– Altro che quelli delle nostre Alpi!... – esclamò la guida.

– Sono quei fiumi di ghiaccio che vomitano in mare quelle enormi montagne, che poi le correnti ed i venti spingono verso il sud. Ghiacciai ve ne sono un po’ dappertutto: allo Spitzbergen, alla Nuova Zembla, alla Terra di Francesco Giuseppe, in Groenlandia e sulle isole siberiane, senza contare quelli che vi sono sulle isole settentrionali dell’America.

– E queste montagne di ghiaccio scendono tutte verso il sud?

– No, girano attorno al polo, andando da oriente ad occidente.

– Credete che vi siano altre terre verso il polo, oltre quelle scoperte?

– Lo si suppone. I geografi ed i naviganti credono che intorno al polo si estenda una vasta terra, la quale separerebbe il bacino polare in due parti distinte, di cui una, l’europea-asiatica, sarebbe stata toccata dal Fram di Nansen e l’altra, più isolata, più fredda, coperta di ghiacci più spessi, si estenderebbe al nord dell’America.

– Sicché intorno al polo, durante l’inverno non si avrebbe una medesima temperatura.

– No, e la regione più gelida si troverebbe verso le isole dell’America settentrionale, nell’arcipelago di Parry.

– Credete, signor tenente, che questi ghiacci abbiano qualche influenza sui nostri inverni?

– Certamente, – rispose l’ufficiale. – Dalla maggiore o minor quantità di ghiacci che scendono dal nord, dipendono i nostri inverni, dolci quando i ghiacci sono pochi, rigorosi quando sono abbondanti. Al di sopra di queste distese di ghiaccio, che coprono una [p. 176 modifica]superficie più o meno grande dell’oceano, riposa uno strato d’aria fredda, reso pesante da quel freddo stesso che s’abbassa sulla crosta gelata, come uno sciroppo più pesante che cade e riposa in fondo ad un bicchiere. I venti marini agitano e spingono questa massa d’aria fredda, strappandola dal suo letto di ghiaccio e mandandola a raffreddare l’Europa, l’Asia e la Siberia. Quelle correnti gelate, al contatto coll’aria tiepida dell’Atlantico e del Pacifico condensano l’umidità, e formano le piogge, le nebbie e fanno turbinare le tempeste.

– Sicchè senza i ghiacci del polo nord, l’Europa potrebbe godere, anche l’inverno, una temperatura più mite.

– E non avrebbe che rare nebbie e rarissimi uragani, mio caro Ollier.–