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La buona famiglia/Atto II

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Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Costanza e Fabrizio.

Costanza. Sarà ora, cred’io, di mandar a prendere Franceschino.

Fabrizio. Nardo fa qualche cosa in cucina, m’ha detto, e poi anderà.

Costanza. Povero Nardo, non si può negare che non sia un servitore attento per la nostra casa.

Fabrizio. Sì certo; fa egli solo quello che non farebbono due.

Costanza. In fatti, quando ne avevamo due, eravamo serviti peggio. Principiano a dir fra di loro: tocca a te, tocca a me; e non fa niente nessuno.

Fabrizio. E poi quel!’altro aveva il cervello sopra la berretta. Questo ha un po’ più del sodo.

Costanza. E quel che mi piace, dalla sua bocca non si sente mai dir mal di nessuno. [p. 368 modifica]

Fabrizio. Nella servitù non è sì facile un tal contegno...

Costanza. Anche Lisetta è una buona ragazza, di buona indole, amorosa, castigata assai nel parlare.

Fabrizio. Fortuna averla ritrovata così, per ragione della figliuola. Dalla servitù imparano per lo più i figli le male cose che sanno.

Costanza. Io le bado assaissimo, e non ho motivo di dolermi di niente della cameriera.

Fabrizio. Ringraziamo il cielo di tutto. Si sentono certe cose che accadono altrove, che mi farmo tremare.

Costanza. Il mondo peggiora sempre, per quel che si sente.

Fabrizio. Eh cara Costanza, il mondo è ognora il medesimo. De’ buoni e de’ cattivi sempre ce ne sono stati; le virtù e i vizi hanno trovato loco in ogni età, in ogni tempo. Chi ha avuto la buona educazione che aveste voi in casa de’ vostri, non ha avuto campo di sentire quante pazzie ci sono nel mondo; ora che sentite discorrere, vi pare il mondo cambiato, e non è così. Anche adesso ci sono delle persone dabbene, che vivono come voi siete vissuta, e ci sono degl’infelici dominati dal mal costume.

Costanza. Gran disgrazia per chi si trova in certi impegni coll’animo e colla persona.

Fabrizio. Basta, pensiamo a noi, e lasciamo che il cielo provveda agli altri. Se possiamo far del bene, facciamolo, ma senza intricarsi1 troppo negli affari altrui.

Costanza. Sapete ch’io sono nemica di certe curiosità. Ma mi rammarico per gli altri, quando mi arrivano all’orecchie cose che sien di danno o di dispiacere a persone, anche che non conosco. Quella povera signor’Angiola mi ha contaminato davvero.

Fabrizio. Ma! la povera donna è in una pessima costituzione.

Costanza. Non è egli stato da voi il di lei marito?

Fabrizio. Sì, c’è stato, e a me pure ha fatto venire il mal di cuore per compassione di lui. [p. 369 modifica]

Costanza. Vi ha confidato ogni cosa dunque?

Fabrizio. Pur troppo mi ha fatto egli la dolorosa leggenda.

Costanza. Lo stesso ha fatto con me sua moglie. Che vuol dire, vanno d’accordo se non altro in questo, nel dire i fatti suoi a chi non li vuol sapere.

Fabrizio. (È molto, per altro, che la signor’Angiola dica da sè i suoi difetti. Questi è un principio buono). (da sè)

Costanza. Ho sentito delle gran cose.

Fabrizio. Ma non bisogna parlarne.

Costanza. Oh, non v’è dubbio. Dirò come dite voi: farle del bene, se si può; ma non intricarsi.

Fabrizio. Certo il bisogno fa fare delle gran cose.

Costanza. Vi ha detto il signor Raimondo lo stato di casa sua?

Fabrizio. Sì, me l’ha confidato.

Costanza. Anche a me la signor’Angiola. Convien dire, che si sieno accordati nella massima per provvedere al bisogno.

Fabrizio. Quando s’aniva a intaccar le gioje, è segno che la necessità stringe i panni addosso davvero.

Costanza. Vi ha detto anche delle gioje dunque?

Fabrizio. Si è trovato in necessità di dirmelo.

Costanza. E la signor’Angiola mi diceva, che non voleva che si sapesse.

Fabrizio. Per me sono certi che non lo dico a nessuno.

Costanza. Nemmen io certamente.

Fabrizio. Le gioje staranno lì, fin che verranno a riprenderle.

Costanza. Sono sicuri che saranno ben custodite.

Fabrizio. Con dugento scudi potranno rimediare a qualche loro maggior premura.

Costanza. No dugento scudi; cento solamente2.

Fabrizio. V’ha detto forse cento la signor’Angiola?

Costanza. Sì, mi disse che tale era il di lei bisogno.

Fabrizio. E il signor Raimondo, che sa più lo stato delle cose sue, m’ha detto dugento. [p. 370 modifica]

Costanza. Ma io non gliene ho dati che cento soli.

Fabrizio. Voi avete dato cento scudi?

Costanza. Io sì.

Fabrizio. A chi?

Costanza. Alla signor’Angiola.

Fabrizio. Così colle mani vuote? senza sicurezza veruna?

Costanza. Non signore; non lo sapete voi pure, che mi ha dato le gioje in pegno? Non ve l’ha detto il marito suo?

Fabrizio. Il marito suo ha dato a me un giojello e due spilloni; ed io su questi gli ho prestati dugento scudi.

Costanza. E a me la signor’Angiola ha portato un pajo pendenti e un anello, e mi ha pregato che le prestassi cento scudi.

Fabrizio. E a lei li avete prestati? (un poco alterato)

Costanza. Sì, io. Ho fatto male?

Fabrizio. Dar fuori cento scudi, senza dir niente ne al suocero, ne al marito, non mi pare cosa molto ben fatta.

Costanza. Mi ha pregato che non lo dicessi.

Fabrizio. Tanto peggio. Una donna prudente non lo doveva fare. Dovevate dirle, che le mogli savie non fanno le cose di nascosto dei mariti loro.

Costanza. La compassione m’ha indotto a farlo.

Fabrizio. La compassione, la carità, tutto quel che volete, ha da cedere il luogo al rispetto e alla convenienza.

Costanza. Non mi pare aver fatto gran male.

Fabrizio. Che paia a voi, o non paia, vi torno a dire che avete fatto malissimo. E poi dar cento scudi, acciò sieno cagione di nuovi scandali, è molto peggio ancora.

Costanza. Peggio voi, compatitemi, che ne avete dati dugento. Fabrizio, lo li ho dati a buon fine.

Costanza. Ed io colla migliore intenzione di questo mondo.

Fabrizio. Orsù, non vo’ contendere; ma non mi aspettava da voi un arbitrio simile.

Costanza. Mi dispiace nell’anima averlo fatto; ma non credo poi di meritarmi un sì fatto rimprovero. Dacchè son vostra moglie, non mi avete detto altrettanto; pazienza. [p. 371 modifica]

Fabrizio. Non intendo trattarvi male; vi dico, che la dipendenza della moglie al marito deve essere costante ed illimitata.

Costanza. Non sono poi la serva di casa.

Fabrizio. Ma nè anche l’arbitra di disporre.

Costanza. Pazienza. (si ritira un poco piangendo)

Fabrizio. (Non vorrei averlo saputo). (da sè, con afflizione)

Costanza. (È tanto buono, e non vuol perdonare una cosa fatta senza malizia). (da sè, come sopra)

Fabrizio. (Si principia così, con poco; guai se prendesse piede). (da sè, come sopra)

Costanza. (Poteva pure non esser venuta la signor’Angiola). (da sè)

Fabrizio. (Gran cosa, che s’abbia d’avere per altri dei stracciacuori). (come sopra)

SCENA II.

Anselmo e detti.

Anselmo. È ora di desinare? (Fabrizio e Costanza salutano, senza dir niente) Che c’è, figliuoli? Che è accaduto di male? Oimè, dov’è Cecchino? (a Fabrizio)

Fabrizio. Credo che Nardo sarà andato a prenderlo dalla scuola.

Anselmo. Isabellina dov’è? (a Costanza)

Costanza. Nella mia camera, che lavora.

Anselmo. È accaduto niente di male?

Costanza. Niente, signore.

Fabrizio. Niente.

Anselmo. Ma io mi sento morire a vedervi così. Qualche cosa ci ha da essere certo. Siete corrucciati, figliuoli? Perchè mai? In tanti anni che siete marito e moglie, quest’è la prima volta che vi vedo in un’aria che pare sdegnosa. Vi sentite male? (a Fabrizio)

Fabrizio. Non signore, per grazia del cielo.

Anselmo. Vi sentite male voi? (a Costanza)

Costanza. Ah! (sospira, voltandosi verso Fabrizio) [p. 372 modifica]

Anselmo. Eh, il cuor me lo dice. Siete in collera, avete gridato. Per carità, se mi volete bene, palesate a me la cagione del vostro dispiacere, del vostro sdegno. Cari figliuoli, non mi date questo tormento. Sapete quanto vi amo; mi si stacca il cuore.

Costanza. Io, signore, sono la rea, e vi confesserò la mia colpa. Ho prestato cento scudi alla signor’Angiola sopra alcuni diamanti, mossa dalle sue preghiere, e l’ho fatto senza dirlo nè a voi, nè a mio marito. Domando perdono a tutti e due, e vi prometto in avvenire di non prendermi più3 una simile libertà. (piangendo)

Anselmo. Vi è altro, Fabrizio, che questo?

Fabrizio. Poteva dirlo, e non dare a divedere... che ella... (con qualche lagrima)

Anselmo. Vi ha maltrattato per questo? (a Costanza)

Costanza. Mi ha rimproverato... e quando penso... che mai più...

Anselmo. Via, acchetatevi; non piangete per così poco: non vi affliggete per un sì leggiero motivo. Fabrizio non ha tutto il torto a pretendere che vogliate mostrare quest’umile dipendenza da lui, che sapete quanto vi ama, e che non è capace di negarvi una giusta, onesta soddisfazione. Non lo fa egli per li cento scudi; e non lo farebbe, se fossero anche meno sicuri di quel che sono; ma io so il suo dispiacere: è geloso del vostro affetto, e dubita che in faccia di quella donna siate comparsa meno amante di quel che siete. Ma voi, caro figliuolo, per un dispiacere così leggiero, perchè mortificare una consorte che ha per voi tanto amore e tanto rispetto? Non siamo infallibili in questo mondo. Siamo tutti soggetti ad errare, e il cuore si attende nelle operazioni, non l’effetto che ci rappresentano agli occhi. Via, siate men rigoroso. E voi, cara, non vi dolete sì fieramente d’un leggiero rimprovero ch’ei vi possa aver dato. Questo vuol dire non aver mai avuto motivo di dolersi l’uno dell’altro; un picciolo neo vi agita, vi conturba. [p. 373 modifica]Venite qui; accostatevi; voglio che facciate la pace; e presto fatela, prima che ritorni a casa Cecchino; prima che se ne avveda Isabella; prima che sappiasi dalla servitù. Datemi la vostra mano, (a Costanza) Fabrizio, la mano. Se mi volete bene, pacificatevi, abbracciatevi, consolatemi per carità.

Costanza. Vi domando perdono. (a Fabrizio)

Fabrizio. Ed io a voi, cara.

Anselmo. Via, via, stiamo allegri; che non si pianga più; che più non vi sieno dissensioni, dispiaceri, contese. Pace, pace; sia benedetta la pace. Questa sera dunque verrà il compare, il dottore e lo speziale, che già loro l’ho detto, e staremo in buona compagnia con quegli uomini veramente da bene; e dopo la merenda, voglio che facciamo una burla allo speziale. So ch’egli ha un fiasco di vino buono, voglio che in compagnia andiamo a beverglielo tutto; e ha da venire Cecchino e Isabellina, e voglio che si stia allegramente, sì, allegramente.

Costanza. Oh signore, Isabellina non l’ho condotta mai fuori di notte.

Anselmo. Verrà con me; le darò mano io; e se alcuno la vorrà nemmeno guardare, gli farò il grugno io. Oh, ecco il nostro Cecchino.

SCENA III.

Franceschino, Nardo e detti.

Franceschino. (Entra, si cava il cappello, e va a baciare la mano a tutti, e parte.)

Anselmo. Ora ci siamo tutti; mi pare di essere più contento. Nardo, come stiamo in cucina?

Nardo. Io per me posso far quanto presto vuole. Ma all’ora solita del desinare ci mancheranno due ore.

Anselmo. Tanto ci manca?

Costanza. Si sente in buono appetito il signor suocero?

Anselmo. Io sì, per dir il vero; ma non tanto per me ho sollecitudine, quanto per Fabrizio, che stamattina si è alzato presto; e sarà bene anticipare un poco. [p. 374 modifica]

Fabrizio. Per me non ho questo bisogno. Sapete quante volte, per ragione degli affari di piazza, sono solito a star così fino alla nera notte.

Anselmo. Oh, io poi sì fatte cose non le ho volute mai. Ho saputo prendere il mio tempo; non ho trascurato gl’interessi miei; ma mangiare ho voluto sempre; ed ora che son vecchio, grazie al cielo l’appetito mi serve, e quando è una cert’ora, bisogna ch’io mangi.

Costanza. Sollecitatevi, Nardo.

Nardo. Farò più presto che potrò.

Anselmo. Che cosa c’è di buono stamane?

Nardo. C’è una minestra d’erbe...

Anselmo. Coll’ovo dentro, eh?

Fabrizio. Fino che venga l’ora del desinare, anderò avanzando tempo, per non istare così colle mani in mano. Principierò a rispondere a qualche lettera4.

Anselmo. Sì, bravo; farete bene; così nel dì della posta vi troverete un po’ sollevato, e potrete scrivere a più bell’agio.

Costanza. Non verreste prima con me un poco? (a Fabrizio)

Fabrizio. Avete bisogno di nulla?

Costanza. Vorrei mostrarvi una cosa.

Anselmo. Via, andate a vedere quello che vostra moglie vi vuol mostrare. (a Fabrizio)

Fabrizio. Si può sapere cos’è che mi volete mostrare?

Anselmo. Andate con lei; ci vuol tanto? Oh, se fosse viva la buona memoria della mia Cassandra, non me lo farei dire due volte.

Costanza. Vorrei mostrarvi le gioje...

Anselmo. Sentite? Le gioje vi vuol mostrare. Oh figlio mio, che bella gioja è la moglie!

Fabrizio. Io credo che non vi avrete fatto ingannare, e però non vi è bisogno ch’io veda...

Costanza. Pazienza! conosco che non siete ancora coll’animo pienamente sereno. [p. 375 modifica]

Fabrizio. Quel che è stato, è stato; io non ci penso più.

Anselmo. Ma va con seco: tu mi faresti montar in collera. (a Fabrizio)

Fabrizio. Ciò non sia mai, signor padre. Eccomi, Costanza, andiamo.

Anselmo. E ti fai tanto pregare?

Costanza. Il mio cuore non è mai stato angustiato come oggi. (parte)

Anselmo. Andate, andate, che vi consolerà. (dietro a Costanza)

Fabrizio. Povera donna! Mi dispiace ora d’averla mortificata. (parte)

SCENA IV.

Anselmo e Nardo.

Anselmo. Va, va a terminare di consolarla. (dietro a Fabrizio) Gioventù benedetta! E così tu non solleciti il desinare? (a Nardo)

Nardo. Aspettava che volesse sapere il desinare che c’è.

Anselmo. Bene, che c’è oggi?

Nardo. Che hanno i padroni, che mi sembrano corrucciati?

Anselmo. Curiosaccio! sei stato qui per sentire, eh? non per dirmi del desinare.

Nardo. Mi dispiacerebbe tanto, che i padroni si adirassero fra di loro; non ne siamo avvezzi noi a vederli adirati.

Anselmo. E non lo sono nemmeno adesso. È stato un poco di pissi pissi di certe genti; ma non è niente. E così, che abbiamo noi da desinare?

Nardo. L’erbe, l’ho già detto.

Anselmo. Coll’uovo, l’hai detto.

Nardo. Una pollastra bollita.

Anselmo. Tenera, veh.

Nardo. Un arrosto di piccioncini.

Anselmo. C’è da star poco bene per me.

Nardo. E ci saranno delle polpette.

Anselmo. Oh, queste sì. Fanne molte di queste, che sono per me una gioia. [p. 376 modifica]

Nardo. Vi sarà poi...

Anselmo. Vanne, vanne, che il tempo passa.

Nardo. Vado subito. (Son curioso di sapere che cosa è stato; può essere che Lisetta lo sappia). (da sè, e parte)

SCENA V.

Anselmo e poi Isabella.

Anselmo. Oh come per poco, se non veniva io, principiavano a bisticciarsi que’ due colombi. Dice bene il proverbio: ogni biscia ha il suo veleno. Per buoni che sieno gli uomini, si danno di que’ momenti, ne’ quali si prendono le pagliucce per travi; ma chi è buono, come son eglino, presto presto si rasserena.

Isabella. Ci posso stare qui, signor nonno?

Anselmo. Perchè mi domandate questo? Non potete stare in casa dove vi piace?

Isabella. Dico così, perchè io era nella camera della signora madre; è venuta col signor padre, e mi hanno cacciata via.

Anselmo. Averanno degl’interessi fra loro...

Isabella. Me ne ho a male io, che m’abbiano cacciato via.

Anselmo. Vi averanno mandato via, acciò venghiate a stare un poco con me; ch’io non ci sto volentieri solo. Dov’è Cecchino?

Isabella. Studia, signore.

Anselmo. Oh il buon ragazzo! studia senza che gli si dica. Si vede che nello studio trova piacere, trova dilettazione.

Isabella. Anch’io ho piacere a leggere, a studiare, e mi piace tanto tenere a mente quello ch’io leggo. La sapete voi la canzone5 della colezione?

Anselmo. No, io so che mi piace far colezione la mattina, e merenda il giorno, e non ne so più. [p. 377 modifica]

Isabella. Cecchino l’ha avuta da uno scolare compagno suo la canzone della colezione, che si dice in due, e io ho imparato la parte mia, e Cecchino dice la parte sua.

Anselmo. Non ve l’ho mai sentita a dire io.

Isabella. L’ha portata ieri Cecchino.

Anselmo. Imparatela, che me la direte poi.

Isabella. Io la so dire, e Cecchino la sa dire ancora.

Anselmo. Ditela dunque, bravina, bravina.

Isabella. Aspettate, ch’io vada a chiamar Cecchino.

Anselmo. Sì, sì; la dirà egli pure. Ci averò gusto io.

Isabella. Aspettateci, che venghiamo subito. (parte)

SCENA VI.

Anselmo solo.

La canzone della colezione deve esser bella. S’io sapessi di poesia, vorrei farne tante sopra il desinare e sopra la cena; e vorrei dire, che il mangiare è il più bel gusto del mondo, e vorrei lodare le robe tenere, le robe dolci, e il brodo grasso.

SCENA VII.

Isabella, Franceschino e detto.

Isabella. Eccoci, siam belli e lesti.

Anselmo. Cecchino, mi vuoi tu dire la canzone della colezione?

Franceschino. Signor sì; anche l’Isabellina.

Isabellina. La dirò anch’io, che la so dir bene.

Anselmo. Datemi da sedere, che la vo’ godere agiato.

Franceschino. Ecco, signore. (gli dà la sedia)

Anselmo. Via, dite su, carini. (Non darei questo divertimento per un operone di quelli del tempo mio). (da sè)

Isabella. Madre mia, la colezione.

Franceschino. Figlia mia, che t’ho da dare?
Isabella. Lascio a voi l’elezione.
     Che non tocca il domandare,
     Mi sovvien che mi diceste.
     Alle giovani modeste.

[p. 378 modifica]
Franceschino. Egli è ver che non si chiede,

     Vuol così l’obbedienza;
     Ma la madre ti concede
     Un’amplissima licenza,
     Perchè stata sei bonina.
     Domandar questa mattina.
Isabella. Grazie, grazie, madre mia.
     Chiederò. Che cosa mai?
     Una cosa, che non sia
     Fra le cose che pigliai.
     Oh davver, che l’ho trovata:
     Piglierei la cioccolata.
Franceschino. Son pei vecchi cose valide
     La cannella e la vainiglia;
     Ma son droghe troppo calide
     Pel bisogno di una figlia;
     Di soverchio è butirroso
     Il caccao sostanzioso.
Isabella. Del dolcissimo sapore
     Compiacere, è ver, mi soglio;
     Ma se genera calore,
     N’ho abbastanza, e non la voglio.
     Meglio dunque fia per me
     Una tazza di caffè.
Franceschino. Acqua nera, polve amara
     Di nerissimi carboni.
     Che da noi si compra cara.
     Per destar le convulsioni;
     Fa vegliar, fa tristo effetto
     A chi sola dorme in letto.
Isabella. Col caffè non faccio tresca,
     Che dormir non voglio a stento;
     Convulsioni non mi accresca,
     Che pur troppo me le sento:
     E la notte si combatte.
     Prenderò piuttosto il latte.

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Franceschino. È indigesto il latte ancora,

     E s’accaglia nel ventricolo.
     Chi del latte s’innamora,
     Può incontrar qualche pericolo.
     Qualche volta è medicina;
     Ma talor non s’indovina.
Isabella. Vada dunque il latte in bando,
     Che arrischiarsi non conviene;
     Beverollo allora quando
     Sarò certa di far bene.
     Prenderò, mamma mia bella,
     Qualche tè colla ciambella.
Franceschino. Sia lo svizzero, o l’indiano.
     Sia di foglia, o sia di fiore,
     Sia il moderno veneziano.
     Che degli altri è tè migliore,
     Sarà sempre tal bevanda
     D’acqua calda una lavanda.
Isabella. Se mi par d’esser in caso
     Di lavarmi le budella.
     La mattina in fresco vaso
     Bevo6 l’acqua pura e bella.
     Meglio dunque sarà il dono
     D’una zuppa nel vin buono.
Franceschino. Oscurar suole la mente.
     Figlia cara, il vino puro:
     E dal volgo dir si sente.
     Che han le donne il cervel duro;
     Preparar ti vo’ tal cosa.
     Che sia7 sana, e sia gustosa.
Isabella. Lasciam star, non vo’ col vino
     Che il cervel sen voli via;
     Che pur troppo per destino
     Siam soggetti alla pazzia.

[p. 380 modifica]
     Se ogni cosa è a me importuna,

     Mamma mia, starò digiuna.
Franceschino. Poverina, l’amor mio
     Digiunar non ti farà;
     Quanto possa so ancor io
     L’appetito in quell’età.
     Preparar ti vo’ tal cosa.
     Che sia sana e sia gustosa.
Isabella. Giubilar mi sento il core.
     La promessa mi consola;
     Già gustar parmi il sapore:
     So che siete di parola.
     A una madre amor consiglia
     Il bisogno della figlia.
Franceschino. Per vederti più grassetta,
     Ritondetta e più bellina,
     Figlia mia, figlia diletta,
     Vo’ recarti ogni mattina...
Isabella. Presto, presto, ch’io vi godo.
Franceschino. Una zuppa nel buon brodo.
Isabella. Sarà buona, ma per poco:
     Io credea di meglio assai;
     E mi sento un certo fuoco...
     Ma parlar non soglio mai.
     Sta alla vostra discrezione
     Migliorar la colezione.
Franceschino. Così disse a mamma cara
     La figliuola rispettosa;
     E la mamma le prepara
     Colazion più saporosa.
Isabella. Più gradita a suo desio,
     Colazion che bramo anch’io.

Franceschino. È finita. (ad Anselmo)

Isabella. Che ne dite, non è bellina? (ad Anselmo)

Anselmo. Chi ve l’ha data questa canzone? (a Franceschino) [p. 381 modifica]

Franceschino. Uno scolare che va alla scuola dove vado io.

Anselmo. L’hanno sentita vostro signor padre, vostra signora madre?

Franceschino. Non ancora.

Isabella. La vogliamo dire dopo desinare.8

Anselmo. Fate a modo mio, figliuoli: non la fate loro sentire. Non istà bene che voi altri ragazzi vi facciate lecito di domandare cioccolata, caffè e altre cose che si contengono nella canzone. Se mi volete bene, voglio che mi facciate un piacere.

Franceschino. Comandi, signor nonno.

Anselmo. E anche da voi lo voglio. (ad Isabellina)

Isabella. Capperi! comandi pure.

Anselmo. Non voglio che mai più la diciate a memoria, nè piano, nè forte, nè in compagnia, ne da voi altri soli; e se volete esercitar la memoria, e imparar dei versi, ve ne darò io dei più belli. Questi sono scritti male, vi faran poco onore. Ve ne darò io de’ più belli assai. Me lo farete questo piacere?

Franceschino. Volentieri, signore. Ecco qui la carta; ne faccia quello che vuole; io le prometto di non recitarli mai più.

Isabella. Anch’io farò lo stesso. Non mi ricorderò nemmeno d’averli veduti. Ma ci ha promesso di darcene di più belli.

Anselmo. Sì, ve li darò; non dubitate.

Franceschino. Anderò, se si contenta, a terminare la mia lezione.

Anselmo. Sì, figliuolo, andate, che il cielo vi benedica.

Franceschino. Avremo dei versi belli. Oh che gusto, Isabellina.

Isabella. Questi non si dicono più.

Franceschino. Oh, mai più. (parte)

Isabella. Me li darà a me il signor nonno?

Anselmo. Sì, a tutti due.

Isabella. Vado a dirlo alla signora madre.

Anselmo. Non ci andate ancora dalla signora madre; aspettate ch’ella vi chiami.

Isabella. Anderò da Lisetta, dunque.

Anselmo. Sì, andate da Lisetta.

Isabella. Se me li dà stassera i versi, dimani glieli so dire, (parte) [p. 382 modifica]

Anselmo. Che bella docilità! Cielo, ti ringrazio. Ma questi compagni alla scuola... Voglio andare or ora per l’appunto dal maestro suo, a dirgli che vi badi un poco. Se uno scolare gli ha dato la canzone con innocenza, un altro gliela può spiegar con malizia. Sempre pericoli in questo mondo, sempre pericoli. (parte)

SCENA VIII.

Lisetta e Nardo.

Nardo. Non sapete niente voi, che cosa sia accaduto fra il padrone e la padrona?

Lisetta. No certo, non so niente io.

Nardo. Son curiosissimo di saperlo.

Lisetta. Vedete? Questa curiosità non istà bene. Avrete sentito dir cento volte, che i curiosi sono in odio delle persone: e se lo sapranno i padroni, vi perderanno l’amore.

Nardo. Non cercherò altro dunque. Mi dispiace, che non li vedo allegri secondo il solito.

Lisetta. Vi pare che sieno adirati?

Nardo. Almeno lo erano, se non lo sono.

Lisetta. Avete sentito niente di quel che dicevano?

Nardo. Sono arrivato che c’era il vecchio; ma prima avevano taroccato, ero nell’altra camera, e qualche cosa ho sentito.

Lisetta. Che cosa avete sentito? Ditemelo, caro Nardo.

Nardo. Quando sono entrato io, avevano ancora le lagrime agli occhi.

Lisetta. Qualche gran cosa convien dir ci sia stata.

Nardo. Non si guardavano nemmeno.

Lisetta. E il vecchio, che cosa diceva? Dalle parole del vecchio si potrebbe venire in cognizione di qualche cosa.

Nardo. Non mi ricordo bene che cosa dicesse.

Lisetta. Pensateci un po’, se vi sovvenisse qualche parola.

Nardo. Ma non dite voi, che i curiosi sono in odio delle persone?

Lisetta. La cosa sta qui fra noi. Essi non l’hanno a sapere. [p. 383 modifica]

Nardo. Dunque il bene ed il male sta nel saper fare, a quello che dite voi, nel sapersi nascondere.

Lisetta. Non m’imbrogliate il capo con certe sottigliezze che non capisco. Pensava io fra me stessa, che possano aver gridato per ragione dell’interesse, perchè i nostri padroni sono persone buonissime, ma sono attaccati all’interesse ben bene.

Nardo. Non manca niente però in casa, e a noi ci danno un buon salario, e anche fanno qualche spesuccia.

Lisetta. Eh, sì sì; ma so io quel che dico... e potrebbono anche aver gridato per i figliuoli, perchè credo che il padre non voglia pensare a maritar la figliuola, ed ella può darsi abbia il solletico, e l’abbia confidato alla madre.

Nardo. Tutto può essere, ma non c’è fondamento.

Lisetta. Io penso un pezzo in là qualche volta.

Nardo. E mi pare che diate nella mormorazione.

Lisetta. Uh, povera me! questa linguaccia qualche volta sdrucciola nel difetto antico. Non ne parliamo più. Nardo mio. Non sappiamo quello che passi fra di loro, ci possiamo ingannare; bensì per l’avvenire voglio che stiamo vigilanti ben bene per rilevar, se si può, il principio di questa picciola differenza.

Nardo. Se sapranno la nostra curiosità, ci perderanno l’amore.

Lisetta. Ma io lo faccio per amore soltanto... Oh, è stato picchiato. Anderò a vedere...

Nardo. Io, io ci anderò.

Lisetta. Ecco, voi ci andate per curiosità.

Nardo. E questa è un’altra mormorazione. (parte)

SCENA IX.

Lisetta sola.

È tanto difficile ch’io me ne astenga. Prima che venissi in questa casa a servire, non si faceva altro dov’era. Qui m’hanno insegnato a castigare la lingua e a moderare i pensieri; ma spesse volte ricado nell’uso vecchio. Col tempo, se ci starò qui. [p. 384 modifica]diventerò un po’ meglio di quel che sono. Parmi ch’ella m’abbia chiamato. Vengo, vengo, signora; se posso, qualche cosa voglio da lei ricavare. (parte)

SCENA X.

Angiola e Nardo.

Nardo. Io non lo so, signora, se il padrone ci sia in casa.

Angiola. Guardate se c’è; e ditegli, posto che ci sia, che mi preme dirgli una parola da lui a me.

Nardo. Vo a vedere, e la servo subito.

Angiola. Fatemi il piacere. Alla padrona non dite niente. Ho bisogno di parlar con lui.

Nardo. Benissimo; s’egli è nella stanza sua, non c’è bisogno d’altro. (Principio quasi a trovarlo il motivo delle discordie loro). (da sè)

SCENA XI.

Angiola, poi Fabrizio.

Angiola. Me l’ha fatta lo sciagurato. M’ha impegnato il gioiello cogli spilloni. Manco male che li ha dati in mano d’un galantuomo. So ch’egli è un uomo tanto civile, che sentirà volentieri le mie ragioni. Chi sa che non mi riesca di riavere le gioje, con buona maniera, senza il denaro. Finalmente sono mie le gioje, e da mio marito può farsi rimettere li dugento scudi.

Fabrizio. Che mi comanda la signor’Angiola?

Angiola. Perdoni se son venuta ad incomodarla.

Fabrizio. In che la posso servire, signora?

Angiola. Ho necessità di discorrere seco lei un poco.

Fabrizio. Ed io qui sono per ascoltarla. S’accomodi. (la fa sedere)

Angiola. Ma se ha qualche affar di premura, che io le interrompa, me lo dica liberamente. (sedendo)

Fabrizio. Niente, signora, non ho alcuna faccenda ora. [p. 385 modifica]

Angiola. Favorisca seder ella pure.

Fabrizio. Non importa; sto bene in piedi.

Angiola. In verità mi dà soggezione. M’alzo anch’io dunque.

Fabrizio. Via, per compiacerla sederò.

Angiola. So che stamattina è stato da vossignoria mio marito.

Fabrizio. Sì signora, è vero.

Angiola. E gli ha portato certe gioje in pegno, per dugento scudi.

Fabrizio. Verissimo.

Angiola. Pare a lei, signor Fabrizio, che sieno queste azioni onorate d’un marito, che va a impegnare le gioje della consorte?

Fabrizio. Per me non saprei; ma direbbe il signor Raimondo: pare a voi che sieno azioni buone di una moglie, che va a impegnare i pendenti e gli anelli, senza licenza di suo marito?

Angiola. Chi ha detto a voi, che tali cose sieno da me state impegnate?

Fabrizio. Stupisco che me lo domandiate; signora, non ha la moglie da comunicare al marito le azioni sue? Non ha tardato un momento a dirmelo la signora Costanza.

Angiola. (Bacchettonaccia del diavolo! così mantiene la sua parola?) (da sè)

Fabrizio. Ma tanto io che mia moglie siamo persone oneste, e non v’è dubbio che dalla bocca nostra si sappia.

Angiola. Ne son certissima. Conosco bene il carattere del signor Fabrizio: un uomo che si può dire il ritratto della bontà e della gentilezza.

Fabrizio. Oh signora, non dica tanto.

Angiola. Tutti quelli che hanno avuto l’incontro di trattare con voi, non si saziano di lodare la vostra gentil maniera.

Fabrizio. La prego; so che non merito...

Angiola. Ed io non ho mai avuto questa fortuna, che la desiderava tanto.

Fabrizio. In che la posso servire?

Angiola. E ora trovo anche più in voi di quello mi fu dagli altri rappresentato.

Fabrizio. (Principia un poco a seccarmi). (da sè) [p. 386 modifica]

Angiola. Se il cielo mi avesse dato un marito di questa sorte, felice me!

Fabrizio. Signora, alle corte: io non son fatto per tali ragionamenti. Se qualche cosa da me le occorre, mi dica il piacer suo, e lasciamo da parte le cerimonie.

Angiola. (È un poco ruvido veramente; lo piglierò per un’altra parte). (da sè)

Fabrizio. (Le ho sempre odiate le adulazioni). (da sè)

Angiola. Signore, voi sarete ben persuaso, che il giojello datovi in pegno da mio marito, ed i spilloni ancora, son gioje mie, sopra di che il marito non ha dominio veruno.

Fabrizio. Anzi, signora mia, son persuaso al contrario; e credo fermamente, che di tutto ciò che ha la moglie, possa il marito disporre.

Angiola. Sarà dunque in libertà del marito di rovinare affatto la moglie?

Fabrizio. Io, compatitemi, distinguerei vari casi. Se il marito è savio, e la moglie no, può il marito dispor di tutto; se la moglie è savia, e il marito no, si fa in modo che non possa il marito dispor di niente. Ma se tutti due mancano di saviezza, fanno a chi può far peggio, nè si possono fra di loro rimproverare gli arbitri.

Angiola. Fra queste tre classi così politamente distinte, in quale sono io collocata, signor Fabrizio?

Fabrizio. Non istà a me il giudicarlo, signora.

Angiola. Ma se il marito mio, secondo voi, può disporre, io non sarò la savia.

Fabrizio. Guardimi il cielo, ch’io mi avanzassi a dir cosa che vi potesse offendere.

Angiola. Non mi offendo di niente io. Da voi ricevo tutto per amicizia. Ma caro signor Fabrizio, mettetevi le mani al petto: mio marito ha impegnato la roba mia, e la roba mia che ho portato in dote, non me la può impegnar mio marito; e voi, se siete quell’uomo onesto che vi decantano, conoscerete che ragion vuole ch’io le riabbia. [p. 387 modifica]

Fabrizio. Un tale articolo si potrà esaminare; ma intanto, per riavere le gioje, signora mia, avete voi portato i dugento scudi?

Angiola. Per ricuperare la roba mia, mi sarà d’uopo sborsar danaro?

Fabrizio. Non decido chi lo debba sborsare; ma senza questo, le gioje non esciranno dalle mie mani.

Angiola. Via, signor Fabrizio, siate meco un poco più compiacente. Che vi ho fatto io, che mi guardate di sì mal occhio? Alla fin fine, se ora non volete darmi le gioje mie, pazienza. Non vi perderò per questo la stima, nè sarò grata alla vostra casa meno di quello ch’io debba essere, per il bene che ne ho ricevuto. Mi cale sopra tutt’altro la vostra grazia, l’amicizia vostra; non parliamo più di melanconie; ho bisogno anch’io di sollevarmi un poco. Caro signor Fabrizio, non v’incresca di far meco un po’ di conversazione. Accostiamoci un pocolino. (s'accosta colla sedia)

Fabrizio. (S’alza) Se non avete altro da comandarmi, ho qualche cosa che mi sollecita a dipartirmi, signora mia.

Angiola. (S’alza) Volete ch’io ve la dica come l’intendo? Siete assai scompiacente, signor Fabrizio, e vi conosce poco dunque chi predica la vostra docilità.

Fabrizio. Signora, io non fo la corte a nessuno. Chi mi vuole mi pigli, chi non mi vuole mi lasci.

Angiola. E come volete che chi vi vuole vi pigli, se da chi vi si accosta fuggite?

Fabrizio. Compatitemi, veggo Nardo che mi vorrebbe dir qualche cosa. (guardando verso la scena)

Angiola. E con questa buona grazia mi licenziate? S’io non volessi andarmene, che direste?

Fabrizio. Direi che vi accomodaste a bell’agio vostro. Permettetemi ch’io vada a intendere, che cosa il mio servitore ha da dirmi.

Angiola. Mi lascierà qui sola con questa magnifica civiltà?

Fabrizio. (Eh, mi farebbe impazzare, se le badassi). (da se) Nardo, venite qui. [p. 388 modifica]

SCENA XII.

Nardo e detti.

Nardo. Ho da dirle una cosa.

Fabrizio. Posso ascoltarlo senza offendere la civiltà? (ad Angiola, con ironia)

Angiola. Accomodatevi, signore. Non facciamo caricature.

Fabrizio. In casa mia non si usano. (Bene, cosa c’è?) (accostandosi a Nardo)

Angiola. (Non c’è verso da sperar niente, per quel ch’io vedo). (da sè)

Nardo. (È venuto per parlare a vossignoria il signor Raimondo. C’è qui sua moglie; non sapeva di far bene, o di far male; gli ho detto che sono tornato ora a casa, e che non so se il padrone ci sia).

Fabrizio. Benissimo... (guarda in viso Angiola, un poco turbato)

Angiola. Via, signore, non mi guardate losco, che senza più me ne vado.

Fabrizio. Se ora volete andarvene, sarà meglio. Non anderete sola.

Angiola. È tornato il mio servitore?

Fabrizio. C’è il marito vostro, signora...

Angiola. Mio marito? Sa egli che ci sono?

Fabrizio. Non credo.

Nardo. Non lo sa, signora.

Angiola. Non ha veduto il servitore dunque?

Nardo. Non l’ha veduto, perchè il camerata, veggendolo venire, si è rimpiattato. Titta è un buon servitore; lo conosco che è un pezzo. Per questa sorta di cose, non v’è un par suo.

Angiola. Che vorreste voi dire perciò... (a Nardo) Signore, mio marito è un uomo bestiale; dirà ch’io sono qui ritornata a dispetto suo. Noi ci faremo scorgere. (a Fabrizio)

Fabrizio. E come posso io regolarmi? Ho da ricusar di riceverlo? Voi che siete una signora tanto civile, questa inciviltà non l’approverete.

Angiola. Prudenza insegna che sfuggasi il maggior male. [p. 389 modifica]

Fabrizio. Non c’è un male al mondo per me. Ditegli che ci sono. (a Nardo)

Angiola. No, per amor del cielo, non fate, ve lo chieggio per finezza, per grazia, per onestà.

Fabrizio. Come abbiamo a fare dunque?

SCENA XIll.

Raimondo di dentro, e detti.

Raimondo. C’è o non c’è il signor Fabrizio?

Angiola. Meschina me! eccolo. (ritirandosi indietro)

Fabrizio. Trattenetelo un poco. (a Nardo)

Nardo. Sì signore. Dirò che fate una cosa. (parte)

Angiola. Lasciate ch’io mi ritiri, per carità.

Fabrizio. Ma non vorrei che facessimo peggio.

Angiola. S’ei non lo sa, non vi è pericolo.

Fabrizio. Cara signor’Angiola...

Angioina. Qui non c’è altro che dire. Vo’ ritirarmi. Se voi sarete indiscreto a segno di disvelarmi, può essere che ve ne abbiate a pentire. (s’accosta alla camera)

Fabrizio. Andate da mia moglie frattanto.

Angiola. Bene, bene.

Fabrizio. Per di là.

Angiola. O di qua, o di là...

Fabrizio. Ma no, è il mio studio quello.

Raimondo. Ditegli che mi preme, vi dico. (di dentro, forte)

Angiola. (Corre a ritirarsi nella camera figurata lo studio.)

SCENA XIV.

Fabrizio, Raimondo e Nardo.

Fabrizio. (Poh! qual demonio mi ha condotto in casa costoro?) (da sè) Chi è di là? Chi mi vuole?

Raimondo. Sono io, signore. Scusate, se torno ad incomodarvi.

Fabrizio. Scusate voi, se vi ho fatto un poco aspettare. Aveva un affar tra piedi, che m’inquietava. [p. 390 modifica]

Raimondo. Non sarà forse minore l’inquietudine che provo io; ditemi, signore, in grazia, da quell’uomo onesto che siete: è egli vero, che la signora vostra abbia prestati alla moglie mia dei denari sopra di alcune gioje?

Fabrizio. È verissimo. Cento scudi le ha dato.

Raimondo. E queste gioje in che consistono?

Fabrizio. Parmi che m’abbian detto in un pajo pendenti e in un anello, io credo.

Raimondo. Non le avete vedute voi queste gioje?

Fabrizio. Non le ho vedute. Mia moglie volea mostrarmele, ma quello che ella fa, è ben fatto, nèe mi son curato vederle.

Raimondo. Che dite, eh, della signor’Angiola? Può darsi sfacciataggine maggiore di una moglie senza rispetto?

Fabrizio. Dite piano, signor Raimondo.

Raimondo. In che averà ella impiegati li cento scudi? Voglia il cielo, che ciò non sia con vergogna nostra.

Fabrizio. Ma non dite sì forte.

Raimondo. Lasciatemi sfogare. Qui non c’è nessun che mi senta.

Fabrizio. Ci potrebbe essere qualcheduno che vi sentisse.

Raimondo. Questo poco mi premerebbe. Così ci fosse Angiola stessa, che le vorrei dire in faccia pazza, sciagurata, viziosa.

Fabrizio. Signore, se non cambiate discorso, io me ne vado.

Raimondo. Vorrei un piacere da voi.

Fabrizio. Comandatemi.

Raimondo. Che mi faceste vedere le gioje che colei ha lasciato in pegno, per riconoscerle se sono desse.

Fabrizio. Volentieri. Nardo. (chiama)

Nardo. Signore.

Fabrizio. Tenete questa chiave. Aprite per codesta parte. Andate dalla padrona; ditele che si contenti mandarmi quel pajo pendenti e quell’anello che ebbe questa mane da custodire.

Nardo. Sì signore. (parte, poi torna)

Fabrizio. Vedete? Voi dicevate forte, ed il servitore sentiva.

Raimondo. Credetemi che poco preme. Le pazzie di mia moglie sono oramai famose. Tutti sanno ch’ella è una testaccia del diavolo. [p. 391 modifica]

Fabrizio. (Raschia forte, perchè Angiola non senta) Ma io, comparitemi, non voglio sentire parlar così.

Raimondo. Credetemi, non trovo altro sollievo che lo sfogarmi un poco.

Fabrizio. Ma in casa mia non lo fate.

Raimondo. Quando penso ch’ella tende a precipitarmi...

Fabrizio. Via, via, ecco il servitore colle gioje.

Nardo. Signore, ho cercato la padrona per tutto, e non la trovo.

Fabrizio. Non c’è nella sua camera?

Nardo. Non c’è. Ne ho domandato a Lisetta, e pare lo sappia, e non voglia dirmelo.

Fabrizio. Che novità è questa? Vo’ un po’ vedere io. Con licenza; ora torno. (Ehi, badate ch’egli non entrasse nello studiolo). (piano a Nardo)

Nardo. (C’è l’amica, eh?) (piano a Fabrizio)

Fabrizio. (Sì, povera sventurata! Ha soggezione di suo marito... Vi racconterò la cosa com’è...) (Non vorrei ch’egli sospettasse... Oh, sono pure il male imbrogliato). (da sè, e parte)

SCENA XV.

Raimondo, Nardo, poi Costanza.

Raimondo. Dove può essere andata la signora Costanza?

Nardo. Non saprei. Sarà poco lontana. Eccola qui davvero.

Costanza. (Viene da un altra parte, opposta a quella dove andò Fabrizio) (Non c’è qui? L’ho pur veduta venire). (da sè, guardando intorno)

Raimondo. Signora, la riverisco.

Costanza. Serva divota. (Dalla finestra l’ho veduta entrare, di là non si passa senza la chiave. Di qua l’avrei incontrata. Che fosse nello studiolo, non lo crederei). (da sè)

Nardo. Signora, il padrone la cerca.

Costanza. Non era qui il padrone?

Nardo. Sì signora; è partito ora per questa parte, in traccia di lei.

Costanza. In traccia di me? [p. 392 modifica]

Raimondo. Cerca di voi, signora; andatelo ad avvisare ch’ella si trova qui. (a Nardo)

Nardo. Vado subito. (parte)

Raimondo. Mia moglie è stata da lei per cento scudi, non è egli vero?

Costanza. Sì signore. L’ha veduta ora la signor’Angiola?

Raimondo. Ora? dove? Non l’ho veduta io.

Costanza. È molto che è qui vossignoria?

Raimondo. Poco. É forse ritornata mia moglie?

Costanza. (Non lo sa nemmen egli. Oh cielo, cielo! Che cosa mai ha da essere?) (Ja sè)

Raimondo. Voi mi parete turbata. Vi è qualche cosa di nuovo?

Costanza. Ho qualche cosa che m’inquieta. Compatitemi. (guardando per la camera)

Raimondo. Non vorrei che mia moglie vi avesse dato dei dispiaceri. Sarebbe capace di farlo.

Costanza. (Non è possibile che mi possa dar pace). (s’accosta allo studio)

Raimondo. (È agitatissima questa donna). (da sè)

Costanza. (Povera me! che cosa mai ho veduto?) (da sè, dopo aver osservato nello stanzino)

Raimondo. Ma che avete, signora Costanza?

Costanza. Niente, signore. (Prudenza vuole che mi raffreni). (da sè)

Raimondo. Ecco il signor Fabrizio.

Costanza. Con sua licenza. (torna a partire per dove è venuta)

SCENA XVI.

Raimondo, Fabrizio, poi Angiola, poi Nardo.

Fabrizio. Signora Costanza. (chiamandola) Che novità è mai questa? Fugge? Non mi guarda? Non mi risponde?

Raimondo. Queste gioje, signore, si possono vedere sì o no?

Fabrizio. Le chiavi le ha mia moglie.

Raimondo. (Qui ci avrebbe a essere qualche cosa sotto). (da sè) Signore, compatite l’incomodo.

Fabrizio. Tornate in un’altra ora. [p. 393 modifica]

Raimondo. Tornerò in un’ora più comoda. (Aspetterò ch’egli non vi sia in casa, e farò ben io in modo che la signora mi dovrà mostrare le gioje mie). (da sè, e parte)

Fabrizio. (Dopo essersi allontanato da Raimondo) Escile di qua una volta. (ad Angiola allo studiolo)

Angiola. Un poco di acqua, per carità.

Fabrizio. Non c’è acqua, signora. Favorite andarvene, che mi par tempo.

Angiola. Così me ne fossi andata prima; ne ho sentite di belle, e ho dovuto affogarmi per non poter rispondere.

Fabrizio. Vostro danno. Partite, ve lo domando per carità.

Angiola. Parto sì. Se ci torno più in questa casa, mi porti il diavolo. (parte)

Fabrizio. Che cosa ha meco mia moglie? Viene qui quando io non ci sono. Parte quando io sopraggiungo. La chiamo, e non mi risponde. Ho de’ sospetti in capo. Nardo. (chiama)

Nardo. Signore.

Fabrizio. Di’ al signor padre, che favorisca venire un poco da me, se si contenta.

Nardo. Non c’è, signore, in casa.

Fabrizio. Non c’è? Dov’è andato a quest’ora?

Nardo. L’intesi dire che andava dal maestro del signor Cecchino, non so a che fare.

Fabrizio. Pazienza. Non occorr’altro. Va pure, gli parlerò quando torna. No, dammi il cappello e la spada. Anderò ad incontrarlo. (parte)

Nardo. Mi pare sempre più s’intorbidi il tempo9. Oh, chi l’avrebbe mai detto? Il padrone ha rimpiattato la signor’Angiola, perchè non fosse veduta. E non s’ha da mormorare per questo? Io non dico di mormorare; ma vado subito subito a raccontarlo a Lisetta. (parte)

Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. L’ed. Pitteri, qui e più sotto, stampa intrinsicarsi.
  2. Guibert-Orgeas e Zatta: No duecento, cento solamente.
  3. Guibeit-Orgeas, Zatta ecc.: mai più.
  4. Guibert-Orgeas, Zatta ecc.: a scrivere qualche lettera.
  5. L’ed. Pitteri stampa sempre: canzona.
  6. Guibert-Orgeas, Zatta ecc.: Cavo.
  7. Nell’ed. Pitteri qui e più sotto si legge: fia.
  8. Mancano queste parole di Isabella nelle edd. Guibert-Orgeas, Zatta ecc.
  9. Guibert-Orgeas, Zatta ecc.: nembo.