La colonia italiana in Abissinia/IX
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IX.
Continuazione del viaggio — Una tribù amica — Veglia provvida — La iena in aguato — Misera fine d’un paio di scarpe — Ancora un leone — Serbatoî d’acqua — Le noci d’Africa — Il nuovo accampamento.
Allorchè ci rimettemmo in viaggio, ciò che avvenne al dopo pranzo, verso il declinare del sole, la nostra guida ci lasciò e fece ritorno a Zaghà. Procedemmo fino a notte avanzata percorrendo sentieri erti e difficili, attraversando grotte e spelonche, sempre in groppa ai nostri somieri, canterellando sommessamente qualche patrio stornello; ma pur sempre in sospetto, e coll’occhio e l’orecchio pronti al minimo moto, al più piccolo suono. Di tratto in tratto giungeva sino a noi il lontano ruggito di qualche fiera, ciò che produceva nel nostro animo un tal senso da non sapersi descrivere.
Eravamo in buona e numerosa compagnia, eppure quegli echi ci facevano rabbrividire; e non solo gli echi, ma certi lampi sinistri che uscivano di tratto in tratto a fior di terra dalle occhiaie di parecchie iene che, appiattate quà e là tra le macchie, ci stavano tranquille ad osservare; ma non ardivano però di assalirci. Potevamo far fuoco, ma troppo ci premeva di procedere in silenzio per non dare indizio ad alcuno del nostro passaggio.
Era di poco inoltrata la notte, allorchè scorgemmo a qualche distanza una delle solite cinte di nomadi. Questi, udendo il calpestio della carovana che avanzavasi, venuti in sospetto di qualche assalto, fecero uscire in fretta le loro mandre sotto la scorta delle donne e dei fanciulli, che si diressero ad una prossima collina; quindi si posero in difesa colle lancie in resta, urlando diabolicamente.
Non ostante quell’apparato, noi ci avanzavamo sempre più; ma allorchè vedemmo che si disponevano all’offesa, puntammo i fucili, traendoci dietro agli alberi per poter ferire al sicuro. Eravamo sul punto di scaricare, quando il sig. Stella ci trattenne, parendogli che quella dovesse essere una tribù amica dei Bogos; anzi diede ordine ad uno dei nostri Indigeni di gridare con quanto fiato avesse chi fossimo, e da chi eravamo condotti.
Al nome di Stella, le minaccie disparvero, grida di gioia uscirono da tutti quei petti; centinaia di lame luccicanti fendevano l’aria, centinaia di lancie descrivevano il consueto circolo intorno alle mani, e molte voci esclamavano: Enser-naa, enser:... dahan, dahan, che in favella etiopica suona: Venite, venite:... buono, buono!
Deposto ogni pensiero di ostilità, ma però sempre colla massima cautela, ci accostammo alla cinta e rilevammo infatti che erano amici, e conoscevano il signor Stella. Fecero tosto ritornare le donne coi fanciulli, che unirono le loro esclamazioni a quelle degli uomini. Siccome non avremmo trovato troppo comodo l’ambiente per rimanervi, restammo all’aperto e prendemmo posto, decisi di passarvi colà la notte.
Accendemmo parecchi fuochi, precauzione indispensabile per non essere divorati; e siccome eravamo stanchi e sfiniti, dopo aver mangiato un po’ di cacio e zuppato una galeta nel the, coronammo il pasto con un bicchierino di cognak e ci stendemmo sulle nostre brande dandoci in braccio a Morfeo.
Ma siccome d’ordinario il mio sonno non durava molto tempo, così anche in quella notte mi svegliai poco dopo, e fu vera fortuna. Mi sorressi sulle braccia e diedi un’occhiata all’ingiro. I miei compagni, europei ed indigeni, tutti erano sepolti nel sonno.
Bella guardia che ci fanno codesti servi che abbiamo ai nostri ordini, pensai tosto e, sceso dalla branda, cercai la mia pipa, la trovai, l’accesi, ingollai una sorsata di cognak, dedicandola alla salute dei dormienti, e mi assisi sul mio baule a meditare, gettando però l’occhio sospettoso da una parte e dall’altra.
Non avevo ancora fumato a metà la mia pipa, che un lieve sussurro a destra venne a farmi avvertito che qualcheduno si moveva. Sulle prime credetti fosse uno dei nostri che si destasse. Mi volsi; ma in sua vece m’accorsi, che, alla distanza di non più che quindici passi da me, una vecchia iena, a bocca aperta e denti in parata, tentava di avvicinarsi pian piano ad uno dei servi che dormiva.
Stesi il mio braccio con la massima cautela ed afferrai il fucile; ma la iena si avvide del movimento, e si fermò a guardarmi. Puntai la canna, ma in quel medesimo istante la fiera aveva girato colla massima flemma, battendo in ritirata.
Risparmiai per allora di fare strepito allo scopo di non destare l’allarme tra i compagni e tra gl’indigeni, ma immaginandomi che la bestia avrebbe ritentato la prova, tenni pronto il fucile nella stessa direzione. Non passarono due minuti che la iena era ricomparsa; e questa volta i suoi passi dirigevansi verso un boriko e stava già misurando la breve distanza che la separava da quello per ispiccare il salto ed assalirlo.
Ma non le rimase tempo, chè la molla scattò e partì il colpo. Immantinente si svegliarono i compagni, e, come avevo preveduto, gl’Indigeni furono tutti in piedi. La iena era stata certamente colpita, dacchè s’era ritirata precipitosamente emettendo degli urli spaventevoli.
Tutti mi chiesero il perchè d’un siffatto allarme, e dietro le indicazioni ch’io offersi, alcuni si mossero per vedere ove la fiera si fosse trascinata a morire. Mi unii ad essi, e la trovammo stesa a cinquanta passi, in mezzo ad un folto cespuglio, col ventre all’insù, che ancora si dimenava, mandando di tanto in tanto un rantolo fastidioso.
Uno degli Indigeni la finì con un colpo di mazza alla testa. La mia palla le aveva forato il ventre.
Nel rimanente della notte si dormì poco. Io presi ancora una sorsata di cognak, riempii la mia pipa ed attesi l’albeggiare. È naturale che mi trovassi in piedi prima d’ogni altro; ma ben presto fu imitato il mio esempio, e tutti si trovarono pronti a partire. Gl’Indigeni ci recarono del latte in abbondanza, che ci servì di colazione, ammollendovi un pezzo di galeta.
Mentre Glaudios, era occupato a cercare le proprie scarpe — che non aveva più trovate al loro posto — io m’era recato ancora una volta a veder la iena; ma questa mandava, benchè si presto, un sì orribile puzzo, che dovetti ritornarmene sul fatto. L’affare della scomparsa delle scarpe di Glaudios aveva trovato intanto la sua spiegazione. Vicino al luogo in cui le aveva deposte la sera, fu ritrovato un largo foro, e si arguì che qualche rosicchiante le avesse carpite. Per buona sorte non erano le sole che egli ancora possedesse, e così l’incidente passò con una semplice risata.
Quel giorno camminammo attraversando delle amene e ridenti pianure, dei poggi ed altipiani in cui abbondavano tamarindi, balsami, piante oleose e resinose, le quali mandavano un odore sì forte da ingenerare il mal di capo. Ci avanzammo fino oltre a quella zona odorifera e ci fermammo soltanto un ora, senza nemmeno scaricare i camelli.
Mangiammo un po’ di formaggio e bevemmo il solito cognak. Verso sera, entrammo in una nuova foresta, salutati dagli urli delle iene, e tormentati dagli ululati di certi uccelli che distinguevamo al debole chiarore della luna.
Ma l’ora tarda e la stanchezza che ci opprimeva, ci costrinsero a deporre ogni pensiero di proseguire. Stabilimmo invece di pernottare un mezzo miglio più avanti in una pianura circoscritta da alture, una specie di piccola valle.
Quel tratto di terreno era inoltre circondato da una fitta catena di cespugli, ed offriva in certo modo un riparo contro i soliti inconvenienti. Disponemmo in giro parecchi fuochi; poi, scaricati i camelli, ci sdraiammo sulle nostre coperte.
Ben presto però il nostro riposo fu interrotto dai ruggiti d’un leone, che andavano sempre più avvicinandosi e venivano ripetuti dall’eco nelle circostanti colline. Ci alzammo sui gomiti e stemmo in ascolto. Il primo a scorgere la fiera si fu Olda-Gabriel che se la vide comparire colla testa fuori d’un cespuglio, a circa sessanta passi dal proprio giaciglio. Era una bestia di enorme grandezza, fornita di stupenda criniera, e che, dimenando la coda formidabile, schiantava gli arbusti, spezzava i rami che cadevano poscia a’ suoi piedi, come se mozzi da una scure.
L’intrepido giovane aveva chiesto il permesso al sig. Stella di scaricargli contro il suo fucile; ma questi glielo proibì, osservandogli che, fallendo il colpo, lo avremmo avuto a ridosso e qualcheduno di noi l’avrebbe finita fra le sue sanne.
Ricordavasi il sig. Stella che, precisamente in quei dintorni, dovevano esistere due vecchi leoni, di stabile dimora, che si dilettavano di carne umana, e che avidamente e destramente ne ricercavano, per averne più d’una volta assaggiata. Ci consigliò peraltro a tenerci pronti col fucile nel caso si rendesse indispensabile una scarica generale.
Olda-Gabriel non poteva più contenersi; aveva addosso la febbre per non poter misurarsi colla fiera, e siccome n’era egli più vicino che tutti gli altri, così se ne stava sì attento ch’era una maraviglia a vederlo. Gl’Indigeni frattanto alimentavano i fuochi e gettavano di tratto in tratto alcune bragie nella direzione del leone, per intimorirlo. La manovra otteneva in parte il suo intento, avvegnacchè questi si ritirasse per qualche tempo e ricomparso, se ne ritornasse nuovamente senza pensare ad attaccarci.
Non ebbimo riposo in tutta la notte; e a quanto mi pareva, l’eccessiva prudenza del sig. Stella n’era stato il principale motivo. Se io avessi comandato, avrei permesso ad Olda-Gabriel di scaricargli contro il fucile; d’altra parte però ogni consiglio del nostro capo veniva accettato siccome buono, e nessuno si sarebbe sognato di agire in opposizione ai suoi voleri.
Soltanto un’ora prima dell’alba, quel leone si ritirò l’ultima volta, ruggendo in sì strana guisa, che pareva brontolasse tra se dell’inutile assedio tenutoci con tanta costanza ed insistenza.
L’alba finalmente comparve ed allora soltanto ci fidammo di darci in braccio ad un sonno tranquillo per alcune ore. In vero non doveva essere troppo lungo il riposo che ci prendevamo, dappoichè era stato deciso di accelerare la marcia per trovarci più presto che fosse stato possibile, fuori del pericolo di venir assaliti dai Marias. Per ciò dopo le dieci del mattino, fummo tutti in piedi, pronti e lesti alla nuova passeggiata.
Non avevamo per anco assestate le nostre robe sulle schiene dei camelli e dei boriki, che udimmo un calpestio distintissimo entro la foresta, e precisamente dalla parte alla quale eravamo diretti.
Il sig. Stella pensò, che non sarebbe stato improbabile un qualche pericolo, e ci raccomandò di stare all’erta e di porci in aguato dietro le teste degli animali. Anzi ci consigliò a discendere dai boriki e ad appiattarci dietro ai medesimi e dietro ai camelli, coi fucili spianati.
Stando noi alcuni minuti in quell’attitudine, vedemmo comparire gli Indigeni di Keren, i servi cioè del sig. Stella che ci venivano incontro, e dei quali precisamente eravamo sulle traccie. Appena costoro ci distinsero, spararono all’aria alcuni colpi di moschetto, quale manifestazione di giubilo e si avanzarono sino a stringerci la mano, inchinandoci profondamente in segno di obbedienza e di sommissione.
Con costoro dunque ci rimettemmo in cammino, ed essi ci rapportarono, che avevano dovuto tardare oltre il convenuto, a motivo che uno dei due indigeni mandati dal padre Stella a richiamarli, era caduto malato lungo la via, ed in causa eziandio della difficoltà di potersi tutti riunire, sbandati com’erano in luoghi diversi e troppo l’uno dall’altro discosti.
Durante quel giorno soffrimmo un caldo eccessivo; passammo parecchi torrenti asciutti nei cui letti scorgemmo traccie di leopardi, di leoni e di rinoceronti, che dovevano esser passati di là per abbeverarsi ad un vasto serbatoio d’acqua pura, che ammassavasi naturalmente, scendendo da un declivio lievissimo e prolungato. Ivi noi bevemmo a sazietà e completammo la nostra provvigione.
Lungo il margine d’un torrente trovammo, per un lungo tratto di via, degli alberi lunghissimi, portanti grosse frutta assomiglianti alle pigne, la cui corteccia di color rossiccio aveva lo spessore di circa quattro millimetri; frutta di dolce sapore pari a quello delle carubbe. Il frutto aveva una seconda corteccia, dura quasi come una pietra e di colore biancastro. Via facendo, scavai una di codeste noci e me ne feci una pipa che mi servì per alcun tempo. Rinunziando al frutto, che era durissimo, andavamo masticandone le buccie che, come io dissi, erano dolci ci piacevano oltremodo.
Qualche ora appresso, camminavasi in una amena pianura, folta di erbe dell’altezza di oltre due piedi e di certe piante che mandavano un acutissimo odore d’aglio. Era quello un luogo infetto da serpi. Altre volte il signor Stella aveva incontrato di quei rettili, e ricordavasi d’un enorme Boa che strisciava in mezzo alle piante, e che all’apparenza sembrava un grosso albero sfrondato, tirato qua e là da qualcheduno.
Percorsa la pianura ci trovammo in faccia ad un altipiano imboscato a cespugli, coronato da un’ala molto elevata che pareva dovesse precipitarsi contro il piano. Lungo la medesima trovavansi parecchie cisterne profondissime, sostenute e difese inferiormente e superiormente da certi rami d’albero che le comunicavano un sapore, per noi, nauseante. È per mantenere l’acqua con cui dissetare le mandre, che i nomadi vi passano appunto nella stazione dei pascoli.
Montando quell’altura udimmo il solito ritornello d’ogni tappa, vale a dire il ruggito di un leone il quale, dapprincipio vicinissimo a noi, sebbene non visibile, erasi andato sensibilmente allontanando al nostro appressarsi. Trovammo in seguito un poggio spazioso che fu veramente acconcio per accamparci.