La donna di governo/Atto I

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Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera.

Valentina e Baldissera.

Valentina. Zitto, parlate piano.

Baldissera. Dorme ancora il padrone?
Valentina. Ei dorme, e fin che dorme, facciam conversazione;
Ma parliam sotto voce, che se qualcun ci sente,
Quando il vecchio è svegliato, gliel dice immantinente.
È ver ch’egli mi crede, è ver che, qual io soglio,
Posso dargli ad intendere quelle bugie ch’io voglio,
Ma avendo la famiglia acerrima nemica,
Voglio schivar, s’io posso, di far questa fatica.
Baldissera. Si sa che nelle case si sogliono in eterno
Odiar dalla famiglia le donne di governo.

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Ma seguendo il proverbio, suol dir chi ha buon cervello:

Non temo degli sbirri, se ho dalla mia il bargello.
Valentina. Dite ben; ma non voglio che possa questa gente
Presso al signor Fabrizio intaccarmi in niente1.
Morto il di lui fratello, questi, ch’è un uom dabbene,
Due figlie del fratello in casa sua mantiene;
Ed esse che non hanno del zio gran soggezione,
Vorrebbero disporre e farla da padrone.
Io che, cinqu’anni or sono, fui presa in questo loco
Per servir grossamente alla cucina e al foco,
Tanto del mio padrone mi guadagnai l’affetto,
Che giunsi a comandare io sola in questo tetto.
Per dare all’apparenza qualche colore esterno,
Il titolo mi diede di donna di governo;
Ma in sostanza il buon vecchio prese d’amor tal fetta,
Che adesso in questa casa io comando a bacchetta.
Baldissera. Tutto va ben; ma spiacemi che sia troppo amoroso
Con voi codesto vecchio.
Valentina.   Siete forse geloso?
Baldissera. Per dir la verità, son geloso un pochino.
Valentina. Affè, rider mi fate. Povero bambolino!
Di queste seccature son stata ognor nemica.
La gelosia, fratello, è una passione antica;
E chi di coltivarla ai nostri dì pretende,
Senza profìtto alcuno ridicolo si rende.
Passò, passò quel tempo, in cui per tal passione
Tenevansi le donne in aspra soggezione.
Ma allor quando le donne viveano in schiavitù,
Eran gli uomini almeno dabbene un poco più.
Non si vedean sì spesso in questo ed in quel loco
Andarsi a divertire alle taverne, al gioco.
Non si vedean lasciare de’ lor negozj il banco,
Per passeggiar la piazza colla signora al fianco.

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Ed erano le donne della saviezza il tempio,

Perchè dai lor mariti si dava il buon esempio.
Ora questi signori von tutti i spassi suoi,
Ed essere gelosi pretendono di noi?
Tu, malandrin, sei pieno di vizi infino agli occhi,
E mostri aver paura che il mio padron mi tocchi?
A lavorar principia, metti il cervello a segno,
E di condurmi allora a modo tuo m’impegno.
Ma fin che non ti vedo di mantenermi in grado,
Ti voglio ben, nol niego, ma al tuo parlar non bado;
Conosco il mio bisogno, di te non mi assicuro,
Un pane alla famiglia coll’arte mia procuro,
E se tu sei geloso, e se soffrir non puoi,
O trovati un impiego, o bada ai fatti tuoi.
Baldissera. Se impiegarmi potessi, vivrei più civilmente,
Ma ho una difficoltà.
Valentina.   Che è?
Baldissera.   Non so far niente.
Valentina. Non potresti servire?
Baldissera.   Servire? ho i miei riguardi.
Son solito dal letto levarmi un poco tardi.
Sentirmi comandare avvezzo non son io.
Mi piace, e mi è piaciuto, far sempre a modo mio;
E se il padron dicessemi una parola torta,
Andrei le mille miglia lontan dalla sua porta.
Valentina. Chi serve, ha da soffrire.
Baldissera.   Servir non fa per me.
Valentina. Qualche cosa nel mondo devi pur far.
Baldissera.   Perchè?
Ho vissuto finora senza far nulla, e adesso
Dovrei morir di fame con una moglie appresso?
Valentina. Briccon, speri di vivere soltanto in grazia mia,
E poi non ti vergogni parlar di gelosia?
Baldissera. Sì, cara Valentina, che ti approfitti io godo,
Ma son un galantuomo, non vo’ saperne il modo.

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Che serve che mi dica: il padron mi vuol bene?

Così con uno sposo parlar non ti conviene.
So che sei onorata, nessun te lo contrasta;
Opera con giudizio, fa il tuo dovere, e basta.
Valentina. Ben ben, vi ho già capito; un galantuom voi siete...
Baldissera. Parliam d’un’altra cosa. Bisogno ho di monete.
Valentina. Come? non v’ho io dato l’altr’ier dieci ducati?
Baldissera. E per questo? che serve, se già li ho adoperati?
Valentina. Cosa ne avete fatto?
Baldissera.   Oh, questa io non l’intendo.
Che abbia a rendervi conto di tutto quel ch’io spendo.
Li ho spesi, e tanto basta. Vado di giorno in giorno
Provvedendo la casa, e me li metto intorno.
Ho comperato un letto, due quadri ed uno specchio,
Due dozzine di tondi, una caldaia, un secchio.
Comprato ho un fornimento per ammannire il foco.
(Guai a me, se sapesse che li ho perduti al gioco).
(.da sè)
Valentina. Caro il mio Baldissera, se gl’impiegate bene,
Ve ne darò degli altri, farò quel che conviene.
Non vo’ che vi offendiate, se vo’ saper anch’io
Come i danar sen vanno, come si spende il mio.
Ma cosa dico il mio? doveva dire il nostro.
Tutto è fra noi comune: quel ch’io possedo, è vostro.
Baldissera. Datemi due zecchini.
Valentina.   Cosa vorreste farne?
Baldissera. Di già me l’aspettava. Non vo’ più domandarne.
Se in tutto ho da dipendere, come un bambin da cuna,
Non voglio a questo prezzo comprar la mia fortuna.
Valentina. Ma non andate in collera. Eccoli qui, tenete.
(mostra i due zecchini)
Baldissera. Questa volta li prendo.
(mostrando di farlo per compiacenza)
Valentina.   Ma cosa ne farete?
(li trattiene)

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Baldissera. Sì, davver mi seccate.

Valentina.   Vi pare una gran cosa
Far delle vostre spese partecipe la sposa?
Se pronta e di buon core vi do quel che bisogna,
In voi tal renitenza mi pare una vergogna.
Baldissera. Par che non vi fidiate della condotta mia;
Par ch’io sia mal governo, e pur non getto via.
Con questi due zecchini farò qualche cosetta.
(Mi serviran per mettere due punti alla bassetta). (da sè)
Valentina. So che voi siete stato un fiore di virtù.
Non vorrei li giocaste.
Baldissera.   Oh, io non gioco più.
Valentina. Davver?
Baldissera.   Ve lo protesto.
Valentina.   Vien gente.
Baldissera.   Date qui.
Valentina. Eccoli.
Baldissera.   (Ieri sera il punto mi tradì). (da sè)
Valentina. Cosa dite?
Baldissera.   Pensava ad un certo mercante
Che ho veduto ier sera. (Voglio mettere il fante.)
Valentina. Badate non vi gabbino.
Baldissera.   No no, so il fatto mio.
Valentina. Addio, tornate presto.
Baldissera.   Sì, gioia bella, addio. (parte)

SCENA 11.

Valentina, poi Fabrizio.

Valentina. Povero Baldissera, lo so che mi vuol bene.

Lo so che divenuto un giovane da bene;
È grazioso, è ben fatto, amabile, compito,
Altro che questo brutto vecchiaccio incancherito!
Rabbioso è come il diavolo, grida con tutto il mondo,
È una bestia, è una furia, ma io non mi confondo;

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Un po’ colle cattive, un poco colle buone,

Lo lo meno pel naso il povero vecchione,
E piluccar ben bene lo voglio in tal maniera,
Da viver da signora col mio bel Baldissera.
Fabrizio. Valentina. (di dentro)
Valentina.   Per bacco! il vecchio eccolo qui.
Fabrizio. Valentina. (p’ù forte)
Valentina.   Mi chiama sessanta volte al dì?
Fabrizio. Valentina. (come sopra)
Valentina.   Si sfiati, se vuol, quest’animale,
Egli ha da far un giorno la fin delle cicale.
Fabrizio. Che tu sia maladetta; possa cascarti il cuore.
(escendo fuori senza veder Valentina)
Dove sei Valenti...?
(scoprendo Valentina, rimane sorpreso)
Valentina.   Eccomi qui, signore.
(facendo una riverenza caricata)
Fabrizio. Grido, grido, e non sente. (con isdegno)
Valentina.   Grida, grida, e si sfiata.
(con arroganza)
Fabrizio. Perchè non rispondete? (come sopra)
Valentina.   Perch’era addormentata.
(come sopra)
Fabrizio. A quest’ora?
Valentina.   A quest’ora. Saran quatt’ore e più.
Che ho fatto in questa casa levar la servitù.
Ho fatto ripulire le stanze, il suolo, il tetto,
Ho fatto spiumacciare le coltrici del letto,
Lustrar nella cucina il rame insudiciato,
E han fatto queste mani il pane ed il bucato.
Ma qui non si fa nulla. Qui si fatica invano.
Il padron sempre grida. Che vivere inumano!
Casa peggior di questa non vidi in vita mia;
L’ho detto cento volte, voglio di qui andar via.
Fabrizio. Subito vi scaldate. (mansueto)

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Valentina.   Mi scaldo con ragione.

Fabrizio. Non sapea che dormiste.
Valentina.   No, non vi è discrezione.
Ritrovatene un’altra che faccia quel ch’io faccio.
Se non foss’io... ma basta, fo il mio dovere, e taccio.
Del faticar sinora non mi ho mai lamentato;
Spiacemi aver che fare con un padrone ingrato.
Fabrizio. No, cara Valentina, ingrato io non vi sono.
Se ho detto quel che ho detto, vi domando perdono.
Ho questo naturale perfido e doloroso,
Facilmente mi accendo, ma poi sono amoroso;
Amoroso con tutti, e più con voi, carina.
Non so che non farei per la mia Valentina.
Valentina. Questa è la gratitudine che dal padron si aspetta:
Possa cascarti il cuore; che tu sia maladetta.
Mi alzo per faticare, che ancor non ci si vede,
Ed ei cogli strapazzi mi rende la mercede.
Fabrizio. Puh, mi darei nel capo un colpo micidiale.
(dandosi da sè stesso un pugno nella testa)
Valentina. (Batti, accoppati pure). (da sè)
Fabrizio.   Lo so ch’io son bestiale.
E voi pure il sapete, e compatir conviene
Qualche volta il difetto di un uom che vi vuol bene.
Valentina. Se fosse qualche volta, pazienza, soffrirei;
Ma gridar tutto il giorno! vivere non potrei.
Fabrizio. Per l’avvenir vedrete ch’io mi regolerò.
Fate quel che volete, mai più non griderò.
Valentina. Certo, signor, se foste più mansueto un poco,
Per voi, se bisognasse, mi getterei nel foco.
Vi servo con amore, son proprio interessata
Nel ben di questa casa.
Fabrizio.   Sì, vi ho sperimentata,
Conosco il vostro merito, vedo il vostro buon core.
Lo so che mi servite con zelo e con amore.
E un dì... basta, per ora di più non posso dire,

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Dell’attenzione vostra non vi avrete a pentire.

Vadan fuori di casa le mie nipoti, e poi...
Valentina, vedrete quel ch’io farò per voi.
Valentina. Eh signor, s’io non fossi venuta al suo servizio,
A quest’ora sarebbe la casa in precipizio.
Le sue care nipoti sono due testoline,
Che presto ad un tesoro saprebbero dar fine.
Altro non hanno in mente che mode e bizzarrie.
Se si lasciasser fare, farebbero pazzie.
La prima è dottoressa, superba, pretendente,
Che guai a chi la tocca, e a chi le dice niente.
La seconda, a dir vero, ha un buon temperamento,
Ma sotto di quell’altra peggiora ogni momento.
E fan l’amor, signore, e son sì petulanti.
Che fino in propria casa fanno vemir gli amanti.
Fabrizio. Gli amanti?
Valentina.   Sì, signore.
Fabrizio.   In casa?
Valentina.   Così è.
Fabrizio. Disgraziate, insolenti, l’avranno a far con me.
Ma voi che cosa fate? Voi non dite niente?
Valentina. Se dico? domandatelo. Grido continuamente;
E m’odiano per questo, ed hanno protestato
Di far che voi mi diate prestissimo il commiato.
Han stabilito insieme con voi di screditarmi.
Per obbligarvi un giorno di casa a licenziarmi.
Chi sa quante calunnie inventeran di me?
Sono capaci entrambe di dir quel che non è.
Le serve, i servitori ch’io tengo in soggezione,
Vorranno per dispetto tener dalle padrone.
Ed io che son da tutti odiata in questo tetto,
Essere discacciata con mio rossor m’aspetto.
Fabrizio. Vcilentina scacciata? da chi? chi ha tal potere?
Chi puote in questa casa volere e non volere?
Il padrone son io. E al diavol manderei,

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Prima di licenziarvi, tutti i parenti miei.

Fate il vostro dovere, e non temete un zero,
Vi do sulla famiglia un assoluto impero;
E chi non vi obbedisce, e chi non vi rispetta.
Vedrà dei torti vostri s’io saprò far vendetta.
Valentina. Io non ho pretensione d’essere rispettata.
So che povera sono, che povera son nata;
Superba non mi rende il ben che voi mi fate,
Ma farò il mio dovere, se voi lo comandate.
Tratterò le signore, come trattar si denno;
Basta ch’esse non perdano dietro gli amanti il senno.
Lo so che in vita mia l’occhio non ho rivolto
Nemmeno a rimirare un giovane nel volto,
E possomi vantare nella mia fresca età,
D’esser tra le fanciulle lo specchio d’onestà.
Dal ciel chi ha buon talento la sua ventura aspetta.
Fabrizio. Sì, la mia Valentina, che siate benedetta!
Il cielo a’ vostri meriti darà miglior destino.
Tenete, vo’ donarvi questo bell’anellino.
Valentina. A me, signor?
Fabrizio.   Sì, a voi.
Valentina.   L’anel, vedete bene,
A giovane fanciulla portar non si conviene.
Diran, se a me lo vedono, quel che di noi dir sogliono.
Diran che voi mi amate.
Fabrizio.   Che dican quel che vogliono.
Valentina. Oh, son troppo gelosa di mia riputazione.
Fabrizio. Basta, se non volete... (ritira l’anello)
Valentina.   Ma penso che il padrone
Può regalar, se vuole, la serva impunemente,
E del padron la voce può far tacer la gente.
Fabrizio. Così diceva anch’io. Volete? io ve lo do.
Valentina. Per atto d’obbedienza, signore, il prenderò.
Fabrizio. Ponetevelo in dito.
Valentina.   E poi che si dirà?

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Fabrizio. Ponetevelo in dito, sarà quel che sarà.

Valentina. Sarà quel che sarà. Tengo l’anello al dito.
Già per me non m’importa di ritrovar marito.
Finchè vive il padrone, vo’ stare in questo stato,
Sposo cercar non voglio. (Perchè l’ho già trovato).
Fabrizio. E pur, prima ch’io muoia, spero vedervi ancora
Con uno sposo al fianco, e diventar signora.
Valentina. Avreste cuore adunque d’abbandonarmi?
Fabrizio.   Oibò.
Anzi vorrei... ma basta; tutto spiegar non vo’.
Per or non mi obbligate a dir più di così.
Quel che nel core io medito, voi lo saprete un dì.
Valentina. Son nelle vostre mani, di me dispor potete.
Obbediente figlia, serva fedel mi avrete.
Fabrizio. Figlia, serva, e non altro?
Valentina.   Tutto quel che vi aggrada.
Fabrizio. Per esempio; se mai...
Valentina.   Signor, convien ch’io vada.
Sento nella cucina a strepitare il cuoco.
Quel che si fa in cucina, voglio vedere un poco.
Tempo avrem di discorrere, ci parlerem sta sera.
(Quest’anel sarà buono per il mio Baldissera).
(da sè, e parte)

SCENA III.

Fabrizio solo.

Se cerco in tutto il mondo, trovare io non potrei

Per fede e per prudenza un’altra come lei.
Che giovane di garbo! che femmina onorata!
Per mia consolazione il ciel me l’ha mandata.
Guai a me s’ella andasse lontan da queste soglie!
Per meglio assicurarla, vo’ prenderla per moglie.
Son queste due nipoti che sturbano il disegno,
Ma saprò liberarmene col più veloce impegno.

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Prima che passi il giorno, risolvere vogl’io:

O il ritiro, o uno sposo, ma sposo a modo mio.
E se mai... chi è codesta? E la maggior, mi pare.
Venga, che viene a tempo. Vo’ da lei principiare.

SCENA IV.

Giuseppina ed il suddetto.

Giuseppina. Serva, signore zio.

Fabrizio.   Buon giorno, Giuseppina.
Giuseppina. Mi saprebbe ella dire, dove sia Valentina?
Fabrizio. Valentina è impegnata a fare i fatti suoi.
Giuseppina. Che vuol dir che stamane non vedesi da noi?
Fabrizio. Vuol dir che se con lei si manca di rispetto.
Tosto sarà forzata partir da questo tetto.
Giuseppina. Se n’andrà Valentina? (mostrando che le dispiaccia)
Fabrizio.   Sì, certo; io ve lo dico.
Giuseppina. Vada, se vuol andare, non me n’importa un fico.
Fabrizio. Come! così si parla?
Giuseppina.   Signor, ve ne offendete?
È qualcosa del vostro? s’è ver, nol nascondete.
S’ella è vostra parente, son pronta a venerarla.
Ma se non è che serva, posso ancor strapazzarla.
Fabrizio. Strapazzarla?
Giuseppina.   S’intende!
Fabrizio.   Provatevi, insolente.
Giuseppina. Se mi dà l’occasione, lo provo immantinente.
Fabrizio. Chi comanda qui dentro?
Giuseppina.   Voi.
Fabrizio.   Chi dipende?
Giuseppina.   Io.
Fabrizio. Voi dovete obbedire.
Giuseppina.   Al superiore mio.
Fabrizio. I superiori vostri sono io e Valentina.
Giuseppina. Valentina comanda ai piatti di cucina.

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Fabrizio. Comanda in luogo mio a tutta la famiglia.

Giuseppina. Ditemi il ver, signore, è sposa vostra, o figlia?
Fabrizio. È donna di governo.
Giuseppina.   Governi, e non comandi.
Fabrizio. E una donna di merito.
Giuseppina.   Certo ha meriti grandi, (ironico)
Di lei più puntuale economa non vi è.
Risparmia pel padrone, e mette via per sè.
Il pane nella madia tien chiuso alle serventi,
E poi ne fa padrone le amiche e le parenti.
A ripulir la casa leva del sole innante,
E fa le sue faccende insieme coll’amante.
Fabrizio. Ah linguaccia, linguaccia! Io so perchè parlate.
Lo so che quella donna con ingiustizia odiate.
Ella non è capace di queste iniquità.
Giuseppina. Io vi farò con mano toccar la verità.
Fabrizio. La veritade è questa. Sceglietevi uno stato.
Giuseppina. Io voglio maritarmi.
Fabrizio.   Lo sposo io l’ho trovato.
Giuseppina. Giovane?
Fabrizio.   Ha sessant’anni.
Giuseppina.   Bravo, signore zio!
Quand’abbia a maritarmi, ci ho da essere ancor io.
Fabrizio. Ci sarete, sicuro.
Giuseppina.   E quando ci sarò,
A un uom di sessant’anni dirò sul viso un no.
Fabrizio. Ed io vo’ dire un sì.
Giuseppina.   Ditelo pure, e poi
Quando l’avrete detto, lo sposerete voi.
Fabrizio. Fraschetta! dalle due uscir voi non potrete,
O sposatevi a questo, o in un ritiro andrete.
Giuseppina. Un zio non può tal legge imporre a una nipote,
A cui fu preparata dal genitor la dote.
Per me, per la sorella, signor, vi parlo chiaro.
Viver con voi fanciulle non ci saria discaro;

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Ma star più non vogliamo sotto una governante,

Con aria da padrona ardita e petulante.
Costei che per il naso vi mena come un storno,
Questa donna di garbo conoscerete un giorno.
Ma pensateci voi, che noi ci abbiam pensato,
Vogliamo in pochi giorni eleggere lo stato;
E. voi restate pure in pace e carità
Colla governatrice che vi governerà.
(parte con una riverenza caricata)

SCENA V.

Fabrizio solo.

Temeraria... insolente... Non so cosa sia stato,

Che col baston non ti abbia il capo fracassato.
Della mia Valentina parlare in tal maniera?
Ma se fosse l’accusa?... Eh, non puote esser vera.
La povera ragazza già me l’avea predetto.
Che avrebbero contr’essa parlato per dispetto.
Se ostentano l’orgoglio dinanzi agli occhi miei
Queste ardite nipoti, cosa faran con lei?
Così meco si parla? Ci ho da essere ancor io.
Io voglio maritarmi: lo voglio a modo mio!
Sfacciata! impertinente! Senz’ombra di giudizio;
Se mi perdi il rispetto, vedremo un precipizio.
(parla verso quella parte per dove è partita Giuseppina)

SCENA VI.

Fabrizio, poi Rosina.

Rosina. (Con chi grida lo zio?) (da sè, venendo non veduta da Fabrizio, che le ha voltata la schiena.)

Fabrizio.   Io son quel che comanda.
Quando io scelgo uno sposo, di più non si domanda.

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In giovine dabbene codesta è una vergogna.

(parlando come sopra)
Rosina. Dice a me, signor zio?
Fabrizio.   Anche a voi, se bisogna.
(voltandosi nel sentirla parlare)
Rosina. Io non ho colpa in questo; è stata mia sorella.
Fabrizio. Giuseppina? Che ha fatto codesta sfacciatela2?
Rosina. Siete in collera?
Fabrizio.   E come! la bile mi vien su.
Rosina. Oh, se voi siete in collera, io non vi parlo più.
Fabrizio. Via, il caldo mi è passato. (Sentiam quel che sa dire).
Rosina. Quando vi vedo in collera, mi sento intirizzire.
Fabrizio. Via parlate, Rosina, in collera non sono.
Rosina. Griderete s’io parlo?
Fabrizio.   No, con voi sarò buono.
Rosina. Chi ha detto dello sposo?
Fabrizio.   La stessa Giuseppina.
Rosina. E mi dice ch’io taccia? che cara sorellina!
Ch’io taccia; ed ella parla! Mi piace, per mia fè.
Vorrebbe far cadere il mal sopra di me.
Ella è stata cagione, che anch’io contro al mio solito
Ho parlato a quel giovane.
Fabrizio.   A chi?
Rosina.   Al signor Ippolito.
Fabrizio. E chi è codesto Ippolito?
Rosina.   Come! non lo sapete?
Fabrizio. Non lo so, disgraziata. (con isdegno)
Rosina.   Ecco, in collera siete.
Se vi veggo sdegnato, dubbio non v’è ch’io dica.
Fabrizio. Son placido, son cheto. (Faccio una gran fatica).
Voi col signor Ippolito parlaste; e la sorella?
Rosina. Col signore Fulgenzio ha favellato anch’ella.

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Fabrizio. Brave. (con un poco di sdegno)

Rosina.   Signore... (mostrando di intimorirsi)
Fabrizio.   Eh rido, (trattenendo a forza lo sdegno)
Rosina.   Ridete, signor zio.
Ella vuol maritarsi, e l’ho da fare anch’io.
Fabrizio. Ah, mi sento venire... (smaniando)
Rosina.   Signor zio, cos’è stato?
Fabrizio. Nulla, nulla, seguite. (sforzandosi)
Rosina.   Cosa vi viene?
Fabrizio.   Un fiato.
Rosina. Vado via?
Fabrizio. No, restate. Perchè non consigliare3
La donna di governo, che vi può illuminare?
Rosina. Anzi con mia sorella abbiamo stabilito
D’imitar Valentina, trovandosi un marito.
Fabrizio. Quella buona ragazza s’imita in tal maniera?
Rosina. Sì signor, ella pure trovato ha Baldissera.
Fabrizio. Chi è costui? (con agitazione, trattenendo lo sdegno)
Rosina.   È lo sposo.
Fabrizio.   Di chi? (come sopra)
Rosina.   Di Valentina.
E hanno parlato insieme tutta questa mattina.
Fabrizio. Come!... Chi l’ha veduta? (scaldandosi un poco)
Rosina.   Tutta la servitù.
Fabrizio. Diavolo! (alterato)
Rosina.   Siete in collera?
Fabrizio.   Ah, che non posso più.
Presto, voglio sapere quel ch’è, quel che non è.
Palesate, parlate. (con isdegno caricato)
Rosina.   Uh poverina me!
(parte intimorita correndo)

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SCENA VII.

Fabrizio solo.

Ehi Rosina, Rosina; sen vola come il vento.

Ah che pieno mi lascia d’orrore e di spavento.
Possibil che sia vero che Valentina ingrata
Mi tradisca in tal modo? no, sarà calunniata.
La conosco, è impossibile, arde per me d’affetto.
No, non mi può tradire quel viso benedetto.
Ma fin che l’accusasse la falsa Giuseppina,
Direi che per malizia a rovinarla inclina;
Quest’altra ch’è innocente, inabile a un eccesso
Mi vien semplicemente a confermar lo stesso?
Dunque temer io deggio che sia la verità...
Eh, Rosina è una sciocca; sedotta alcun l’avrà.
Disse che coll’amante la vide in sul mattino.
Non potrebbe esser stato qualche spazzacamino,
O qualche spaccalegne, o il fornaio, o il beccaio,
O quel che d’immondizie tien netto il letamaio?
Ma anche con un di questi quel che le pare e piace
Potria far la mattina... Oibò; non è capace.
Non stima quella donna il proprio onor sì poco;
E metterei per essa questa mia man nel foco.
La servitù ha veduto? Parlan per gelosia,
Parlan perchè vorrebbero ch’io la cacciassi via:
Ma pria che Valentina io mandi in abbandono,
Fuori di questa casa scaccierò quanti sono.
Sì, li scaccierò tutti, e le nipoti ancora,
E gli amici e i parenti vadano alla malora.
Valentina è una giovine da ben, savia, onorata.
E se poi la scoprissi di un altro innamorata?
Cospetton, cospettaccio! l’avrebbe a far con me.
Signor no, son sicuro. Possibile non è.

Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Ed. Zatta: di niente.
  2. Così nelle edd. Pitteri, Guibert-Orgeas ecc. Ma nell’ed. Zatta fu stampato: «Rosina. Io non ho colpa in questo; è stata mia sorella - Giuseppina: che ha fatto? Fabrizio. Codesta sfacciatella... - Rosina. Siete in collera ecc.».
  3. Ed. Zatta: consultare.