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La libertà (Mill)/Capitolo V

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V. Applicazioni

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John Stuart Mill - La libertà (1859)
Traduzione dall'inglese di Arnaldo Agnelli (1911)
V. Applicazioni
Capitolo IV

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CAPITOLO QUINTO




APPLICAZIONI.

I principi in questo lavoro sostenuti devono essere ammessi in generale, come fondamento di una discussione particolareggiata, prima di poterli applicare, con qualche speranza di buon esito, ai vari rami della politica e della morale. Le poche osservazioni che mi propongo di fare su questioni speciali sono destinate a rischiarare i principi piuttosto che a trarne le conseguenze; io non offro tanto delle applicazioni quanto degli esempi di applicazioni, i quali possono servire a gettar maggior luce sul senso e sui limiti delle due massime che sono la base di questo saggio: inoltre, queste applicazioni possono giovare all’equità del giudizio quando non si sappia bene quale delle due massime convenga applicare.

Ecco, intanto, i principi: 1.° l’individuo non è responsabile verso la società delle sue azioni, finchè queste non riguardano se non i suoi personali interessi: — i consigli, l’istruzione, la persuasione, l’isolamento anche, se gli altri credono necessario pel loro bene di ricorrere a quest’ultimo mezzo: — ecco le sole maniere con cui la società può legittimamente dimostrare il suo disgusto o la sua disapprovazione della condotta dell’individuo; 2.° delle azioni ritenute dannose agli interessi altrui, l’individuo è responsabile e può esser sottomesso alle punizioni sociali e legali, se la società giudica le une-o le altre necessarie alla propria protezione.

Anzitutto non è affatto da credere che un danno o il pericolo di un danno fatto agli altrui interessi possa sempre giustificare l’intervento della società: questo è vero solo in certi casi. In un gran numero di casi, un individuo, nel proseguire un legittimo fine cagiona necessariamente, e di conseguenza legittimamente, un danno o un dispiacere ad altri individui, o intercetta un bene che essi potevano ragionevolmente sperare. Tali opposizioni d’interessi tra gli individui derivano spesso da cattive instituzioni, ma sono [p. 96 modifica]inevitabili finchè queste instituzioni durano; qualcuna anche sarebbe inevitabile sotto qualunque forma d’instituzioni. Chiunque riesca in una professione che molti occupano o in un concorso; chiunque sia preferito ad un altro in qualunque lotta per uno scopo che due persone desideravano di raggiungere, trae profitto dalla perdita degli altri, dai loro sforzi riusciti vani e dal loro dispiacere. Ma è una cosa che tutti ammettono: è meglio, nell’interesse generale dell’umanità, che gli uomini continuino i loro sforzi senza esserne distolti da questo genere di conseguenze. In altri termini, la società non riconosce ai competitori disgraziati alcun diritto morale o legale ad essere esenti da questa specie di dolore; essa non si sente chiamata ad intervenire se non quando i mezzi impiegati per raggiungere lo scopo sono di quelli che l’interesse generale non può permettere; la frode o il tradimento, e la violenza.

Commerciare — ripetiamolo ancora — è un atto sociale. Chiunque si mette a vendere una merce qualunque fa una cosa che tocca gl’interessi altrui e la società in generale; dunque la sua condotta è, per principio, sotto la giurisdizione della società: di conseguenza, si considerava in altri tempi come dovere del governo fissare il prezzo e regolare il modo di fabbricazione delle manifatture. Ma ora si riconosce, sebbene soltanto dopo una lunga lotta, che il buon prezzo e la buona qualità delle merci si garantiscono più efficacemente lasciando produttori e venditori perfettamente liberi, senz’altro freno che l’uguale libertà pei compratori di provvedersi altrove. Tale è la dottrina detta del libero scambio, la quale riposa su basi non meno solide, ma diverse da quelle del principio di libertà individuale proclamato in questo saggio. Le restrizioni poste al commercio o alla produzione per ragioni di commercio sono in realtà coazioni; e qualunque coazione, in quanto è coazione, è un male: ma esse toccano soltanto quella parte della condotta umana che la società ha diritto di sorvegliare e non hanno altro torto tranne quello di non produrre i risultati che se ne attendevano. Dappoichè il principio della libertà individuale non è uno dei fondamenti della dottrina del libero scambio, non lo è di più nella maggior parte delle questioni che si elevano a proposito dei limiti di questa dottrina: per esempio, quando si tratta di sapere quanto di pubblica sorveglianza sia ammissibile per impedire la frode con falsificazione, o fino a qual punto si debbano imporre ai padroni delle precauzioni igieniche o dei mezzi di protezione per gli operai impiegati ad occupazioni pericolose. Tali questioni non comprendono considerazioni di libertà se non in un senso: che, cæteris paribus, è sempre preferibile abbandonare gli uomini a sè stessi piuttosto di [p. 97 modifica]sorvegliarli: ma, come principio, non è contestabile ch’essi legittimamente possano essere per simili fini sorvegliati. D’altra parte vi sono delle questioni relative all’intervento pubblico nel commercio, che sono essenzialmente questioni di libertà: tali, la legge di Maine1, a cui si è già alluso, la proibizione dell’importazione dell’oppio in China, la restrizione imposta alla vendita dei veleni, e in generale tutti i casi in cui lo scopo dell’intervento è di rendere difficile o impossibile la vendita di certe merci. Questo intervento è biasimevole come una violazione, non già della libertà del produttore o del venditore, ma di quella del compratore.

Uno di questi esempi, la vendita dei veleni, apre una questione nuova, quella dei limiti convenienti di ciò che si può chiamare funzione di polizia; trattasi di sapere fino a qual punto si possa legittimamente limitare la libertà, per impedire delitti o disgrazie. Il prendere delle precauzioni contro il delitto prima che sia commesso, così come lo scoprirlo e il punirlo una volta commesso, è una delle funzioni che nessuno nega al governo: tuttavia si può assai più facilmente abusare, a danno della libertà, della funzione preventiva che della repressiva: perchè vi è appena una parte della libertà legittima di azione di un essere umano che non possa con ragione essere imaginata come tale da facilitare un qualunquel delitto. Non di meno, se una autorità pubblica o anche un semplice privato vedono una persona che evidentemente si prepara a commettere un delitto, essi non sono obbligati a restare spettatori inerti finchè il delitto sia commesso, ma possono intervenire e prevenirlo.

Se non si comprassero dei veleni, oppure se non se ne facesse uso mai tranne che per avvelenare, sarebbe giusto di proibirne la fabbricazione e la vendita: invece si può averne bisogno per iscopi non solo innocenti, ma utili, e la legge non può imporre delle restrizioni in un caso senza che l’altro ne risenta. Inoltre, è officio dell’autorità prevenire delle disgrazie. Se un pubblico funzionario o non importa chi altro vedesse una persona la quale sta per attraversare un ponte che si sa non essere sicuro, e non avesse il tempo di avvertirla del pericolo ch’essa affronta, potrà bene afferrarla e farla indietreggiare a viva forza, senza violazione alcuna della sua libertà: la quale infatti consiste nel fare ciò che si desidera; e questa persona non desidera di cadere nell’acqua. Non di meno, quando non c’è la certezza, ma solamente la possibilità di un pericolo, la persona stessa può sola giudicare del valore del motivo che la spinge [p. 98 modifica]a correr tale rischio; e in questo caso, di conseguenza (a meno che non si tratti di un ragazzo, o che la persona non sia in delirio o in uno stato di eccitazione o di distrazione incompatibile coll’uso completo delle sue facoltà) si dovrebbe, a mio vedere, limitarsi ad avvertirlo del pericolo e non impedirgli colla forza di esporvisi. Tali considerazioni, applicate ad una questione come quella della vendita dei veleni, possono ajutarci a decidere quali fra i diversi modi possibili di regolamentazione siano o non siano contrari al principio: per esempio, si può imporre senza violazione di libertà una precauzione come quella di porre al veleno un’etichetta che ne faccia conoscere le qualità pericolose; non è in fatti possibile che il compratore desideri ignorare le proprietà venefiche della cosa da lui comprata: ma l’esigere sempre un certificato medico renderebbe talvolta impossibile, sempre poi dispendioso di ottenere l’oggetto per usi legittimi.

A mio avviso, il solo modo con cui gli avvelenamenti si possano rendere difficili (senza violare la libertà di quelli che hanno bisogno di sostanze venefiche per un altro fine) consiste in quello che Bentham chiama, nel suo linguaggio così proprio, una testimonianza preappointed (prestabilita). Nulla è altrettanto comune nei contratti. E giusta consuetudine, quando si fa un contratto, che la legge, la quale ne imporrà l’adempimento, vi ponga come condizione l’osservanza di certe formalità, come le firme, l’attestazione dei testimoni e vai dicendo: affinchè, in caso di contestazioni susseguenti, si possa avere la prova che il contratto è stato realmente concluso, e in circostanze che non lo rendevano per nessuna ragione legalmente nullo. Effetto di queste precauzioni è rendere difficilissimi i contratti fittizi o i contratti fatti a condizioni che, se fossero conosciute, ne distruggerebbero la validità. Si potrebbero imporre simili precauzioni per la vendita degli articoli che si prestano a diventare strumenti del delitto: per esempio si potrebbe esigere dal venditore che esso iscrivesse su di un registro la data esatta della vendita, il nome e l’indirizzo del compratore, la qualità e la quantità precise vendute, la risposta ricevuta quando ebbe chiesto al compratore che cosa volesse farne. Quando non vi sono ricette di medico, si potrebbe esigere la presenza di un terzo, per identificare il compratore, se più tardi si avesse qualche ragion di credere che l’oggetto fosse stato usato a scopo delittuoso. Tali regolamenti non sarebbero in generale un materiale impedimento ad ottenere l’oggetto desiderato, ma bensì un impedimento punto trascurabile a farne un uso illecito ed impunito.

Il diritto che la società possiede di opporre ai delitti delle precauzioni anteriori, suggerisce delle restrizioni evidenti alla massima che i danni puramente personali non sono [p. 99 modifica]materia di prevenzione o di repressione. L’ubbriachezza, per esempio, nei casi ordinari, non è una ragion conveniente d’intervento legislativo; ma io troverei perfettamente legittimo che un uomo convinto d’aver commesso qualche violenza contro altri sotto l’influenza dell’ubbriachezza, fosse sottoposto a disposizioni speciali; che, se in seguito lo si trovasse ubbriaco, fosse soggetto ad una penalità; e che, se in questo stato egli commettesse un’altro fallo, la punizione di questo fallo nuovo fosse più severa. Una persona che si ubbriaca quando l’ebrezza la spinge a nuocere agli altri, commette verso di questi un delitto. Allo stesso modo l’oziosità, tranne che in persone pagate dal pubblico, oppure quando questo vizio costituisce la violazione di un patto, non può senza tirannia divenire oggetto di punizioni legali: ma se per oziosità o per qualche altra causa facile ad evitarsi un uomo manca ad uno dei suoi doveri legali verso gli altri, come quello di mantenere i suoi bambini, non vi è tirannia a costringerlo ad adempire questo dovere con un lavoro obbligatorio, ove non si trovi altro mezzo.

Inoltre, vi sono molti atti che, essendo direttamente dannosi soltanto a chi li commette, non dovrebbero essere legalmente proibiti, ma che, commessi in pubblico, divengono una violazione delle sociali convenienze e, passando così nella categoria delle offese verso gli altri, possono in tutta giustizia essere vietati. Tali sono gli oltraggi alla decenza, su cui non è necessario di dilungarsi, tanto più che essi hanno col nostro soggetto un rapporto puramente indiretto, dappoichè la pubblicità non è un’aggravante minore nel caso di molte azioni punto biasimevoli in sè stesse nè tenute per tali.

V’è un’altra domanda a cui bisogna trovare una risposta che si accordi coi principi qui posti. Vi sono dei casi di condotta personale tenuti per biasimevoli, ma che il rispetto della libertà impedisce di prevenire o di punire perchè il male che ne deriva direttamente ricade tutto quanto sull’agente. Si deve lasciare ad altre persone la libertà di consigliare o di costringere a fare ciò che fa liberamente l’agente? La questione non è scevra di difficoltà. Il caso di una persona che ne sollecita un’altra a compiere un atto, non è, a rigor di termini, un caso di condotta personale; dare dei consigli od offrire delle tentazioni a qualcuno, è un atto sociale e può di conseguenza, come in generale qualunque azione che riguardi gli altri, essere considerato come sottoposto alla sorveglianza sociale. Ma un po’ di riflessione corregge la impressione prima dimostrando che se il caso non è strettamente compreso nei confini della libertà individuale, non di meno gli si possono applicar le ragioni su cui si fonda il principio di questa libertà. Se si [p. 100 modifica]deve permettere agli individui, in ciò che tocca loro stessi soltanto, di fare ciò che meglio piace ad essi, a loro rischio, e pericolo, eglino devono esser liberi di consultarsi l’un l’altro su ciò che convenga fare, di scambiarsi i pareri, di dare e di ricevere dei suggerimenti; si deve poter consigliare tutto ciò che è permesso di fare. La questione non è dubbia se non quando l’istigatore tragga un profitto personale dal suo consiglio, quando, per vivere o per arricchirsi, abbia per costume di incoraggiare a ciò che la Società e lo Stato considerano come un male. In realtà allora un nuovo elemento di complicazione s’introduce: cioè la esistenza di una classe di persone il cui interesse è opposto a quello che si considera pubblico bene e la cui maniera di vivere è basata sul partito preso di porre a questo bene ostacolo. E questo il caso d’intervenire? Così la corruzion dei costumi e il giuoco debbono essere tollerati, ma una persona deve esser libera di esercitare un mestiere come quello d’incoraggiare una tal corruzione o di tenere una casa di giuoco? Il caso è uno di quelli che si trovano sul limite estremo dei due principi: e non si scorge, a prima vista, a quale esso appartenga effettivamente: vi sono argomenti pro e contro.

Si può dire in favore della tolleranza che il solo fatto di scegliere una cosa come proprio mestiere e di vivere o di arricchirsi esercitandolo non può rendere delittuoso ciò che altrimenti sarebbe ammissibile; che l’atto deve essere o sempre permesso o sempre vietato; che, se i principi da noi sin qui sostenuti sono giusti, la società, come tale, non deve occuparsi di dichiarar malvagio qualcosa che riguardi l’individuo soltanto: essa non può giungere più in là della dissuasione, e una persona deve essere altrettanto libera di persuadere quanto un’altra di dissuadere.

Si può dire in favore dell’opinione opposta che, sebbene lo Stato non abbia il diritto di decidere, in via d’autorità e col disegno d’impedire o di punire, se sia buona o cattiva la tale o la tal altra condotta puramente personale, vi è tuttavia ragione di credere che la questione sia per lo meno dubbia. Dato questo, si aggiunge, lo Stato non può far male tentando di distruggere l’influenza d’instigatori che non agiscono in modo disinteressato ed imparziale, che hanno un interesse immediato da una parte (la parte cattiva, secondo l’opinione dello Stato) e che, secondo la loro stessa confessione, spingono verso questo lato per fini tutt’affatto personali. Inoltre, senza dubbio alcuno, non ci si perde nulla, nessun bene si sacrifica, procurando che gli uomini facciano la loro scelta, saggiamente o scioccamente, ma da loro stessi, senza essere sedotti nè spinti da persone che vi hanno un interesse. Così, ci si può dire, quantunque le leggi sui giuochi illeciti siano insostenibili [p. 101 modifica]in teoria, quantunque tutti debbano esser liberi di giocare in casa propria, o in casa d’altri, o in qualche luogo di riunione fondato per sottoscrizioni ed aperto solamente ai membri ed a chi vuol far loro una visita, non di meno non bisogna permettere le case pubbliche di giuoco. È vero che la difesa non è mai efficace, per grandi che siano i poteri di cui si armi la polizia, e che le case di giuoco possono sempre essere aperte sotto altri pretesti; ma esse sono obbligate a condurre le loro operazioni sotto un certo velo di segreto e di mistero, in modo che nessuno ne sappia nulla, tranne quelli che ricercano queste case: la società non deve chiedere nulla di più.

Questi argomenti hanno una forza considerevole; io per altro non oserei decidere s’essi bastino a giustificare l’anomalia morale che vi è nel punire l’accessorio quando il principale è e deve essere libero, nel mettere in prigione, per esempio, chi tiene la casa di giuoco e non il giuocatore stesso.

Ancora meno si dovrebbe, per simili ragioni, intervenire nelle operazioni comuni di compravendita. Quasi tutto ciò che si compera e che si vende si può prestare ad eccessi, e i venditori hanno un interesse pecuniario ad incoraggiarli: ma da questo non si può dedurre un argomento in favore, per esempio, della legge di Maine, perchè i negozianti di bevande spiritose, sebbene interessati all’abuso, sono indispensabili a cagione dell’uso legittimo di tali bevande. Tuttavia l’interesse che questi commercianti hanno a favorire l’intemperanza è un male reale, e giustifica lo Stato quando impone delle restrizioni ed esige delle garanzie, che, senza questo motivo, sarebbero violazione della libertà legittima.

Sorge ancora una questione: ed è di sapere se lo Stato, mentre tollera una condotta ch’esso crede contraria ai più preziosi interessi dell’agente, non debba ciò non di meno sconsigliarla indirettamente; se, per esempio, per rendere l’ubbriachezza più costosa o più rara, egli non debba studiare il modo di limitare il numero dei luoghi di vendita. In questa, come nella maggior parte delle questioni pratiche, bisogna fare una quantità di distinzioni. Colpire d’imposta le bevande alcooliche, allo scopo di renderle più difficili ad ottenersi, è un provvedimento che differisce ben poco dalla loro completa proibizione e non è giustificabile se la proibizione stessa non lo sia; ogni aumento di prezzo è una proibizione per quelli che non possono giungere al prezzo nuovo, e, quanto a quelli che possono, essi subiscono però una penalità per la soddisfazione di questo loro gusto.

La scelta dei loro piaceri e del modo di spendere il loro danaro, dopo ch’essi hanno adempiuto le loro obbligazioni legali e morali verso lo Stato e gli individui, non riguarda [p. 102 modifica]che loro stessi e non deve dipendere che dal loro giudizio. A prima vista può sembrare che queste considerazioni condannino la scelta delle bevande spiritose come soggetto speciale d’imposta a scopi fiscali. Ma bisogna ricordarsi che l’imposta a questo scopo è assolutamente inevitabile, che in molti paesi essa deve essere in gran parte indiretta, che per conseguenza lo Stato non può fare altro che imporre tasse su certi generi di consumazione, in un modo che per qualche persona può giungere fino alla proibizione. È dunque dovere dello Stato di esaminare, prima di mettere delle tasse, di quali derrate i consumatori possano più facilmente fare a meno, e a fortiori di scegliere quelle che, a suo parere, possono essere dannose se l’uso non ne è moderatissimo. Per questo è non soltanto ammissibile, ma lodevole il mettere sulle bevande spiritose l’imposta più elevata, dato che lo Stato abbia bisogno di tutto il gettito di tale imposta.

La questione di sapere se convenga fare della vendita di queste derrate un privilegio più o meno esclusivo, deve essere diversamente risoluta secondo i motivi a cui si vuole subordinata la restrizione. Occorre la sorveglianza d’una polizia in tutte le pubbliche vendite, e specialmente in quei luoghi dove si macchinano volentieri delle offese contro la società. Dunque, è conveniente non accordare il permesso di vendere queste derrate (per lo meno quelle da consumarsi sul luogo) se non a persone la cui rispettabilità di condotta sia conosciuta e garantita; si deve, oltre a ciò, regolare le ore di apertura e di chiusura come la sorveglianza pubblica esige, e ritirare il permesso quando si commettano a più riprese delle violazioni della pubblica pace, grazie alla connivenza o all’inettitudine di colui che tiene la casa, o quando questa casa divenga il ritrovo di gente che si ribella alla legge. Io non trovo nessun’altra restrizione giustificabile come principio. Per esempio, la limitazione del numero delle bettole per renderne l’accesso più difficile e diminuir le tentazioni, non soltanto espone tutti quanti ad una seccatura, solo perchè qualcuno abuserebbe della facilità, ma ancora non conviene se non ad uno stato della società in cui le classi lavoratrici siano apertamente trattate come si tratterebbero dei ragazzi o déi selvaggi, e poste sotto una educazione disciplinata, fatta per preparare la loro futura ammissione ai privilegi della libertà. Questo non è il principio secondo cui le classi operaje sono governate in qualunque libero paese, e chiunque stima al suo giusto valore la libertà non consentirà mai che esse siano governate a quel modo, a meno che per adattarli alla libertà e governarli come uomini liberi, non si sia fatto, invano, ogni tentativo e non si abbia avuto la prova definitiva che esse non si possono governare se non come ragazzi. La semplice esposizione dell’alternativa [p. 103 modifica]mostra l’assurdità che vi sarebbe nel supporre che tali sforzi siano stati fatti in alcuno dei casi di cui noi qui ci dobbiamo occupare. Soltanto perchè le instituzioni del nostro paese sono un tessuto di contraddizioni, vi si vedono mettere in pratica delle cose appartenenti al sistema del governo dispotico o così detto paterno, mentre la libertà generale delle nostre instituzioni impedisce di esercitare quel controllo, che è necessario per rendere la costrizione veramente efficace come educazione morale.

È stato dimostrato, nelle prime pagine di questo saggio, che la libertà dell’individuo nelle cose che toccano soltanto lui, implica la libertà per qualsivoglia numero d’individui di regolare con una mutua convenzione delle cose che li riguardano tutti collettivamente e che non riguardano altri. La questione non presenta difficoltà finchè la volontà delle persone interessate resta la stessa; ma, poichè questa volontà può mutare, è spesso necessario, anche in cose che concernono soltanto queste persone, ch’esse si assumano degli obblighi vicendevoli; e, fatto questo, è conveniente per regola generale che questi obblighi siano rispettati. Non di meno, è probabile che nelle leggi d’ogni paese questa regola generale vada soggetta a qualche eccezione. Non soltanto non siamo tenuti ad adempire gli obblighi che violano i diritti di un terzo, ma talvolta si considera come ragion sufficiente per liberarci da un’obbligazione, ch’essa ci sia dannosa: per esempio nel nostro paese e nella maggior parte dei paesi civili, un patto pel quale una persona si vendesse o consentisse ad esser venduta schiava sarebbe irrito e nullo: nè la legge nè l’opinione pubblica lo renderebbero obbligatorio. Il motivo che si ha per limitare così il potere di un individuo su sè stesso è evidente, e lo si scorge molto chiaro in questo caso estremo. La ragione per cui non si interviene (tranne che a vantaggio degli altri) nelle azioni volontarie d’una persona è il riguardo che si ha per la sua libertà: la scelta volontaria di un uomo proval che ciò ch’egli sceglie cosi è desiderabile o quanto meno sopportabile per lui, e ad ogni modo non si può meglio assicurare il suo benessere se non lasciando ch’egli lo prenda ove crede trovarlo. Ma, vendendosi schiavo, un uomo abdica alla sua libertà, abbandona qualunque uso futuro della libertà con un atto unico: dunque esso distrugge, nei suoi propri riguardi, la ragione per cui lo si lasciava libero di disporre di sè; esso non è più libero, e d’allora in poi si trova in una condizione dove non si può più presumere ch’egli rimanga volontariamente. Il principio di libertà non può esigere ch’egli sia libero... di non esser libero; non vi è liberta insomma di poter rinunciare alla propria libertà. Queste ragioni, la cui forza appare così evidente in tal caso particolare, possono naturalmente essere applicate in molti [p. 104 modifica]altri casi: tuttavia esse trovano dappertutto delle limitazioni, perchè le necessità della vita esigono continuamente non già che noi rinunciamo alla nostra libertà, ma che ci rassegniamo a vederla limitata in un modo o nell’altro. Il principio che chiede libertà d’azione assoluta per tutto quello che riguarda solo gli agenti esige che coloro i quali si sono obbligati con un’altra persona per cose che non interessano punto i terzi, possano l’un l’altro liberarsi; ed anche senza questa liberazione volontaria non v’è forse contratto od obbligazione, salvo che si tratti di danaro, da cui si osi dire che non si dovrebbe mai avere la libertà di sciogliersi. Il barone di Humboldt, nell’opera eccellente che ho già citato, dichiara che, a suo parere, i patti i quali implichino delle relazioni o dei servigi personali non dovrebbero mai essere obbligatori salvo che per un tempo limitato; e che il più importante di questi patti, il matrimonio, avendo questa particolarità, che fallisce al suo scopo se i sentimenti delle due parti a questo scopo non si accordino, dovrebbe potersi annullare semplicemente con la volontà espressa di ciascuna delle parti. Questo soggetto è troppo importante e troppo complesso per essere discusso tra parentesi; ed io mi limito a sfiorarlo, a titolo d’illustrazione. Se la concisione e la generalità della dissertazione di Humboldt non l’avessero obbligato su questo argomento a contentarsi di enunciare la sua conclusione, senza discutere le premesse, egli avrebbe riconosciuto senza dubbio alcuno che la questione non può esser decisa con ragionamenti così semplici come quelli ch’egli si limita a fare. Quando una persona, o per una promessa espressa o per la sua condotta, ne ha incoraggiata un’altra a confidare ch’essa agirà in un dato modo, a fondare delle speranze, a fare dei calcoli, a regolare una parte della sua vita su questa supposizione, questa persona si è creata coll’altra una nuova serie di obbligazioni morali che, nel fatto, potranno essere calpestate, ma che non è permesso d’ignorare. Inoltre, se le relazioni tra due parti contraenti sono state seguite da conseguenze per altri, se esse hanno posto dei terzi in una condizione speciale o se, come nel caso del matrimonio, esse hanno dato a terzi la vita, le due parti contraenti hanno presso questi ultimi delle obbligazioni il cui compimento sentirà grandemente l’effetto della rottura o della continuazione delle loro relazioni.

Non ne deriva invece, ed io non posso ammettere, che queste obbligazioni giungano fino ad esigere l’adempimento del contratto a prezzo del bene della parte riluttante; ma esse sono un elemento necessario nella questione, ed anche se Humboldt sostiene che non debbano apportare alcuna differenza nella libertà legale che le parti hanno di liberarsi dall’obbligo assunto (neppure io ritengo che esse ne [p. 105 modifica]debbano apportare molta) pure creano necessariamente una differenza grande nella libertà morale. Una persona è obbligata a ben considerare tutto questo prima di risolversi ad una deliberazione che tanto può colpire gl’interessi d’altri e, se non ha il voluto riguardo a questi interessi, è moralmente responsabile delle conseguenze funeste. Io ho fatto delle osservazioni di una tale evidenza allo scopo di meglio lumeggiare il principio generale della libertà, e non già perché esse siano necessarie in questa questione, la quale anzi si discute sempre come se interesse dei figli fosse tutto, e nulla l’interesse dei genitori.

Io ho già osservato che, in conseguenza della mancanza di principi generali riconosciuti, la libertà è accordata spesso là dove dovrebbe essere rifiutata, e viceversa; e uno dei casi in cui il sentimento di libertà è fortissimo nel moderno mondo europeo, è un caso in cui, a senso mio, esso è completamente fuori di posto. Una persona deve esser libera di fare ciò che le piace negli affari propri; ma non quando essa agisce per conto di un altro, sotto il pretesto che gli affari di quest’altro sono i suoi propri; lo Stato, mentre rispetta la libertà di ciascun individuo in ciò che riguarda l’individuo soltanto, è tenuto a vegliare con cura sul modo con cui questi usa del potere accordatogli su altri individui.

Quest’obbligo è quasi del tutto trascurato nel caso di relazioni di famiglia; un caso che, data la sua influenza diretta sul benessere umano, è più importante di tutti gli altri presi insieme. Non c’è bisogno d’insistere qui sul potere quasi dispotico dei mariti sulle mogli, poichè per distruggere dalla radice questo male non occorrerebbe altro se non accordare alle donne gli stessi diritti e la stessa protezione da parte della legge, che si accorda a qualunque altra persona, e poi perchè, in questo argomento, i difensori dell’ingiustizia regnante non si servono della scusa della libertà, ma si presentano, senza ambagi, come i campioni del potere. Ma è nel caso dei figli che certi concetti di libertà applicati a sproposito sono un ostacolo reale a che lo Stato adempia a’ suoi doveri. Si direbbe quasi che i figli di un uomo sieno letteralmente (e non per metafora) parte di lui stesso, tanto l’opinione è gelosa del minimo intervento della legge tra i ragazzi e l’autorità esclusiva ed assoluta dei genitori. Gli uomini la vedono più di mal occhio della maggior parte delle violazioni della loro propria libertà d’azione: tanto essi danno generalmente più valore al potere che alla libertà. Vedete, per esempio, che cosa accade per l’educazione. Non è, si può dire, evidente che lo Stato dovrebbe esigere da tutti i cittadini, ed anche imporre loro, una certa educazione?

Non di meno tutti temono di riconoscere e di proclamare [p. 106 modifica]questa verità. A dire il vero, nessuno la nega: è uno dei più sacri doveri dei parenti (o, secondo la legge e l’uso attuale, del padre), dopo aver messo al mondo un essere umano, allevarlo in modo che esso sia capace di adempiere a tutti i suoi obblighi e verso gli altri e verso se stesso; ma mentre tutti quanti riconoscono che tale è il dovere del padre, nessuno in Inghilterra si adatterebbe all’idea che altri l’obbligasse a compierlo. In luogo d’esigere che un uomo faccia qualche sforzo o qualche sacrificio per assicurare a suo figlio un’educazione, lo si lascia libero di accettare o di rifiutare questa educazione quando glie la si procura gratis. Non è ancora riconosciuto che mettere al mondo un ragazzo, quando non si abbia la fondata certezza di potere non soltanto nutrirlo, ma anche istruirlo e formare il suo carattere, è un delitto morale verso la società e verso gl’infelici rampolli, e che, se il genitore non adempie a quest’obbligo, lo Stato dovrebbe vegliare per farlo adempiere possibilmente a spese di lui.

Se l’obbligo d’imporre l’educazione universale fosse una buona volta ammesso, si porrebbe fine alle difficoltà su ciò che lo Stato debba insegnare e sul modo con cui debba insegnare; difficoltà che, per ora, fanno dell’argomento un vero campo di battaglia pei partiti e per le sette. Si perde così, a discutere sull’educazione, del tempo e della fatica che andrebbero meglio impiegate a dare l’educazione stessa.

Se il governo si decidesse ad esigere per tutti i ragazzi una buona educazione, si risparmierebbe l’incomodo di fornirne ad essi; potrebbe lasciar liberi i parenti di fare allevare i figli dove e come loro piacesse, e, secondo i bisogni di ciascuno, sia ajutare a pagare, sia anche pagare interamente le spese. Le obbiezioni che si oppongono giustamente all’educazione di Stato non sono già mosse al fatto che lo Stato impone l’educazione, ma al fatto che esso s’incarica di dirigerla: due cose affatto diverse. Io, più di chicchessia, mi opporrei a che tutta la maggior parte dell’educazione di un popolo fosse affidata allo Stato; tutto quel che si è detto sull’importanza dell’individualità di carattere e della diversità di opinioni e di tenor di vita implica una eguale importanza della diversità di educazione.

Un’educazione generale fornita dallo Stato non è altro che un meccanismo combinato per gettar tutti gli uomini nel medesimo stampo; e poichè lo stampo in cui si gittano è quello che piace al poter dominante (sia poi esso un monarca, un’aristocrazia, una teocrazia o la maggioranza della generazione esistente) quanto più questa autorità è efficace e potente, tanto più essa stabilisce sullo spirito un dispotismo che tende naturalmente ad estendersi sul corpo. Un’educazione stabilita e sorvegliata dallo Stato non dovrebbe esistere, se non come esperimento, [p. 107 modifica]concordata da concorrenze e fatta al solo scopo di stimolarle e di mantenerle a un certo grado di perfezione; salvo quando la società in generale è così arretrata che non potrebbe o anche non vorrebbe procurarsi dei mezzi convenienti d’educazione: in tali casi, dovendo l’autorità pubblica scegliere tra due mali, può provvedere alle scuole ed alle università, allo stesso modo che essa può supplire le compagnie per azioni in un paese dove l’iniziativa privata non esiste in forma tale da permetterle d’intraprendere grandi opere industriali. Ma, in generale, se il paese racchiude un numero sufficiente di persone capaci di dar l’educazione sotto gli auspici del governo, queste stesse persone potrebbero e vorrebbero dare una educazione ugualmente buona sulla base del principio volontario, se ad esse fosse assicurato un compenso stabilito da una legge che rendesse obbligatoria l’educazione e garantisse l’assistenza dello Stato agli incapaci di pagarsela.

Il solo modo di eseguir la legge sarebbe esaminare pubblicamente tutti i ragazzi, dalla più tenera età in poi. Si potrebbe fissare un’età in cui ogni ragazzo o ragazza sarebbe esaminato per verificare se sappia leggere: e quando se ne mostrasse incapace, il padre, a meno che avesse motivi sufficienti di scusa, potrebbe esser sottoposto ad una ammenda moderata che, al bisogno, dovrebbe guadagnarsi col suo lavoro; e il ragazzo potrebbe esser messe a scuola a sue spese.

Una volta l’anno, si potrebbe rinnovare la prova, ed estendere gradatamente il soggetto, per rendere virtualmente obbligatoria e conservare la conoscenza universale di un certo minimum di scienza generale. Oltre questo minimum, vi sarebbero degli esami volontari su qualunque specie di soggetto, in seguito ai quali coloro che fossero giunti a un certo progresso avrebbero diritto ad un certificato. Per impedire allo Stato di esercitare con questi mezzi una influenza dannosa sull’opinione, la scienza da esigersi (oltre le parti puramente elementari del sapere, come le lingue e il loro uso) per superare un esame anche di ordine elevatissimo dovrebbe consistere esclusivamente in fatti ed in scienze positive. Gli esami sulla religione, la politica o qualunque altro argomento di discussione non riguarderebbero la verità o la falsità delle opinioni, ma il fatto che la tale opinione o tal altra è professata per le tali ragioni, dai tali autori, o dalle tali scuole o dalle tali chiese. Con questo sistema, la generazione nascente non sarebbe peggio fornita, quanto alle verità discusse, di quello che non sia oggi; si farebbe degli uomini quello che sono ora, dei seguaci della religion dominante o dei dissidenti; soltanto lo Stato prenderebbe cura che nell’un caso o nell’altro fossero istruiti. Non vi sarebbe ostacolo [p. 108 modifica]a che si insegnasse ad essi la religione, quando i genitori lo chiedessero nella scuola dove loro s’insegna tutto il resto.

Tutti gli sforzi dello Stato per influire sul giudizio dei cittadini a proposito di soggetti discussi sono dannosi; ma lo Stato può perfettamente offrirsi di assicurare e certificare che una persona possiede le cognizioni necessarie per rendere degna d’attenzione la opinione propria su un dato soggetto.

Sarebbe tanto di guadagnato per uno studente di filosofia di poter sottoporsi ad un esame su Locke e su Kant non importa quale dei due egli adotti, e quando anche non dovesse adottare nè l’uno né l’altro; e non ci sono ragionevoli obbiezioni ad esaminare un ateo sulle prove del cristianesimo, purchè esso non sia obbligato a farne una professione di fede.

Tuttavia gli esami sui rami più elevati del sapere dovrebbero, a mio avviso, essere affatto facoltativi; sarebbe accordare un troppo pericoloso potere ai governi il permettere loro di chiudere il varco a qualche carriera, anche dell’insegnamento, sotto il pretesto che non si possiedono in un grado sufficiente le qualità richieste; ed io penso con Guglielmo di Humboldt che i gradi o gli altri certificati pubblici di cognizioni scientifiche o professionali dovrebbero essere accordati a tutti quelli che si presentano all’esame e che lo sostengono con buon esito, ma che tali certificati non dovrebbero dare altro vantaggio sui rivali oltre al valore che loro attribuisce l’opinione del pubblico.

Si vede qui un caso in cui, per un mal inteso concetto di libertà, non si riconoscono punto degli obblighi morali e non s’impongono punto degli obblighi legali, mentre e gli uni e gli altri sarebbero estremamente necessari; ma questo caso non è isolato.

Il fatto stesso di dar l’esistenza ad un essere umano è una delle azioni nel corso della vita che portano con sé la più grande responsabilità.

Prendersi questa responsabilità di dare una vita che può essere fonte di dolore o di gioja è un delitto verso l’essere a cui la si dà quando non vi siano per lui le ordinarie probabilità di una esistenza desiderabile. E in un paese troppo popolato o che minaccia di diventarlo, mettere al mondo più di un piccolo numero di figli, cioè ridurre con la concorrenza il valore del lavoro, è una seria colpa a danno di tutti quelli che vivono di lavoro. Le leggi che, in un gran numero di paesi del continente, proibiscono il matrimonio, a meno che le parti non provino di poter mantenere una famiglia, non oltrepassano i confini dei poteri legittimi dello Stato; e, siano esse utili o no (cosa che specialmente dipende dalle circostanze e dai sentimenti locali) non si può rimproverar loro di essere violazioni di libertà. [p. 109 modifica]Con tali leggi, lo Stato interviene per impedire un atto funesto, un atto dannoso agli altri e che dovrebbe essere l’oggetto della riprovazione e dell’ignominia sociale, anche quando non si credesse conveniente di aggiungervi i castighi legali. Non di meno, le idee di libertà generalmente ammesse, che tanto facilmente si prestano a reali violazioni della libertà dell’individuo per cose concernenti lui solo, respingerebbero ogni tentativo fatto per frenare le sue inclinazioni, quando, soddisfacendole, egli condanna uno o più esseri ad una vita di miseria e di depravazione che esercitera più d’una trista reazione sull’ambiente. Quando si paragona lo strano rispetto della specie umana per la libertà colla sua strana mancanza di rispetto per la libertà stessa, si potrebbe pensare che un uomo abbia il diritto indispensabile di nuocere agli altri e non il diritto di fare ciò che gli piace e che non nuoce ad alcuno.

Io ho riservato per la fine tutta una serie di questioni sui limiti dell’intervento del governo, le quali, sebbene si avvicinino assai al soggetto di questo saggio, pure, a tutto rigore, non ne fanno parte.

Ci sono dei casi in cui le ragioni contro questo intervento non discendono dal principio di libertà; la questione non è più di sapere se bisogni frenare le azioni degli individui, ma se convenga ajutarle: ci si chiede se il governo debba fare o ajutarli a fare qualcosa pel loro bene, in luogo di lasciare che essi facciano questo individualmente o per mezzo di associazione volontaria.

Le obbiezioni fatte all’intervento del governo, quando esso non implichi una violazione di libertà, possono essere di tre sorta.

Si può dire anzitutto che la cosa da farsi sarà probabilmente fatta meglio dagli individui che dal governo. Parlando in generale, non v’è nessuno più capace di condurre un negozio, o di decidere come e da chi esso debba esser condotto — di coloro che vi hanno un interesse personale. Questo principio condanna un intervento, in altri tempi così comune, della legislazione o dei funzionari del governo nelle operazioni ordinarie della industria. Ma questa parte del soggetto è stata sufficientemente sviluppata in opere di economia politica e non ha speciali relazioni coi principi del nostro saggio.

La seconda obbiezione ha maggiori attinenze col nostro soggetto. In un gran numero di casi, sebbene la media degli individui non possa fare una data cosa altrettanto bene che i funzionari governativi, è non di meno desiderabile che questa cosa sia eseguita dagl’individui piuttosto che dal governo. E un mezzo di fare la loro educazione individuale, di rafforzare le loro facoltà attive, di fornir loro una famigliarità coi soggetti che loro così si lasciano [p. 110 modifica]discutere; è la principale se non l’unica raccomandazione del giuri (pei casi non politici) delle instituzioni municipali e locali libere e popolari, della direzione delle instituzioni industriali e filantropiche da parte di associazioni volontarie. Queste non sono questioni di libertà e non toccano tale argomento che da lontano; sono questioni di sviluppo. Non tocca a noi d’insistere ora sull’utilità di tutte queste cose come parte dell’educazione nazionale; ma esse in realtà formano l’educazione particolare d’un cittadino, la parte pratica dell’educazione politica di un popolo libero. Esse fanno uscir l’uomo dalla ristretta cerchia in cui lo racchiude il suo egoismo, tutt’al più allargato ai suoi; esse lo avvezzano a comprendere degl’interessi collettivi, a trattare degli affari collettivi, ad agire per motivi pubblici o quasi pubblici ed a lasciarsi guidare nella propria condotta da ragioni che lo avvicinano agli altri in luogo di isolarlo.

Senza questi costumi e queste facoltà non si può nè stabilire nè conservare una libera costituzione, come ci prova troppo spesso la natura transitoria della libertà politica nei paesi dove essa non riposa su di una base sufficiente di libertà locali. La direzione degli affari puramente locali da parte delle località, e la direzione delle grandi imprese industriali da parte della riunione di quelli che volontariamente ne forniscono i fondi si raccomandano inoltre per tutti i vantaggi che noi abbiamo additato come inerenti alla individualità di sviluppo e alla diversità di modo d’agire. Le operazioni del governo tendono dappertutto ad essere le stesse; all’incontro, grazie alle associazioni individuali e spontanee, si fa una immensa e costante varietà di esperienze. Lo Stato può poi essere utile come depositario centrale e distributore attivo dell’esperienza che risulta da numerose prove; il suo incarico è far sì che ogni esperimentatore profitti delle prove altrui, in luogo di non voler vedere che le sue proprie.

L’ultima e più potente ragione per restringere l’intervento del governo, è il male gravíssimo che deriva dall’aumentare senza necessità il suo potere. Ogni funzione aggiunta a quelle che già il governo esercita, diffonde viepiù la sua influenza sui timori e sulle speranze dei cittadini, e trasforma a mano a mano la parte attiva ed ambiziosa del pubblico in parte dipendente dal governo o di qualche partito che aspira a divenir tale. Se le strade, le ferrovie, le banche, le compagnie di assicurazioni, le grandi compagnie per azioni, le università e gl’instituti di beneficenza fossero altrettante branche del governo; se, oltre a ciò, i consigli municipali e locali, con tutte le loro attribuzioni, divenissero altrettanti dipartimenti dell’amministrazione centrale; se gli impiegati di tutte queste im- prese diverse fossero nominati e pagati dal governo, e non [p. 111 modifica]attendessero che da questo le loro promozioni tutta la libertà della stampa e di una costituzione popolare del potere legislativo, non impedirebbero all’Inghilterra o a qualunque altro paese di esser libero soltanto di nome. E quanto più il meccanismo amministrativo fosse costrutto in modo efficace e sapiente, quanto più gli accorgimenti per procurarsi le mani e le intelligenze più atte a farlo funzionare fossero ingegnosi... tanto più grave sarebbe il male.

In Inghilterra, è stato ultimamente proposto di scegliere tutti i membri del servizio civile del governo dopo un concorso, allo scopo di avere come impiegati le persone più intelligenti e colte che fosse possibile: e molto si è detto e molto si è scritto pro e contro questa proposta. Uno degli argomenti su cui gli avversari di essa hanno più insistito è che la condizione d’impiegato a vita dello Stato non offre una prospettiva bastevole di stipendi o d’importanza per attirare gl’ingegni più elevati, che troveranno sempre da far meglio il loro cammino, sia nelle professioni liberali, sia al servizio delle compagnie o degli altri enti pubblici. Non ci saremmo sorpresi se questo argomento venisse dai partigiani della proposta come risposta alla sua principale difficoltà; è abbastanza strano invece che essa venga dagli avversari: quella che si pone innanzi come una obbiezione è invece la valvola di sicurezza del sistema in questione. In realtà, se il governo potesse attirare al suo servizio tutti gli ingegni elevati del paese, una proposta tendente a raggiungere questo scopo potrebbe inspirare dell’inquietudine; se tutto il lavoro di una società che esige un’organizzazione prestabilita, delle vedute larghe e comprensive, fosse nelle mani dello Stato e tutti gli impieghi del governo fossero occupati dagli uomini più capaci tutta la coltura, l’intelligenza esercitata del paese (salvo la parte puramente speculativa) sarebbe concentrata in una burocrazia numerosa; da questa burocrazia il resto della comunità attenderebbe tutto, l'impulso e la direzione per le masse, il miglioramento personale per gli intelligenti e per gli ambiziosi essere ammessi nelle file di questa burocrazia, e una volta ammessi, crescervi di grado, sarebbero i soli obbietti d’ambizione.

Sotto questo regime, non soltanto il pubblico non è capace di criticare o di controllare l’azione della burocrazia, ma anche se i casi fortuiti delle instituzioni dispotiche o il cammino naturale delle popolari daranno al paese un capo o dei capi amici di riforme, non se ne potrà effettuare alcuna che sia contraria agl’interessi della burocrazia. Tale è la triste condizione dell’impero russo, come ci attestano i racconti di quelli che l’hanno potuto osservare. Lo czar stesso è impotente contro il corpo burocratico; egli può mandare [p. 112 modifica]in Siberia ciascuno dei suoi membri, ma non governare senza di essi e contro la loro volontà; essi possono mettere un tacito velo su tutti i suoi decreti, col semplice astenersi dall’eseguirli.

Nei paesi di civiltà più avanzata e di spirito più rivoluzionario, il pubblico, avvezzo ad attendere che lo Stato faccia tutto per lui o almeno a non far nulla da sè senza che lo Stato glie ne abbia non soltanto accordato il permesso, ma anche indicato il modo, il pubblico, diciamo, tiene naturalmente lo Stato responsabile di ciò che gli accade di molesto, e se la sua pazienza un bel giorno si stanca, esso si solleva contro il governo e fa ciò che si chiama una rivoluzione: dopo di che qualcuno, con o senza il consenso della nazione, s’impadronisce del trono, dà i suoi ordini alla burocrazia e tutto procede press’a poco come prima, dappoichè la burocrazia non è mutata e nessuno è capace di occuparne il posto.

Ben altro è lo spettacolo presso un popolo avvezzo a condurre da sè i suoi affari. In Francia, avendo una gran parte della nazione servito nell’esercito, dove molti hanno raggiunto almeno il grado di sott’ufficiale, si trovano in tutte le insurrezioni popolari molte persone capaci di assumere il comando e d’improvvisare qualche piano d’azione non del tutto cattivo. Gli Americani sono, per gli affari civili, quello che i Francesi pei militari: togliete loro il governo e ogni congregazione d’America ve ne saprà organizzare uno immantinente, e condurrà con un grado sufficiente d’intelligenza, di ordine, d’energia un qualunque pubblico negozio. Così dovrebbe essere qualunque popolo libero; un popolo capace di tanto è sicuro di conservare la propria libertà: egli non si asservirà mai ad alcun uomo o ad alcun corpo sociale, perchè questi soli siano capaci di tenere o di maneggiare le redini dell’amministrazione centrale: nessuna burocrazia può sperar di costringere un tal popolo a fare o a subire ciò che non gli piace. Ma là dove la burocrazia fa tutto, nulla può esser fatto di ciò a cui essa è realmente ostile; la costituzione di simili paesi è un’organizzazione dell’esperienza e della pratica abilità della nazione in un corpo disciplinato, destinato a governare il resto della nazione; e quanto più questa organizzazione è perfetta in sè stessa, tanto meglio essa riesce ad attirare a sè ed a plasmare a sua imagine gl’ingegni della comunità, tanto più completo è l’asservimento di tutti, compresi i membri della burocrazia; poichè i governanti sono schiavi della loro organizzazione e della loro disciplina così come i governati sono schiavi di essi. Un mandarino cinese è strumento e schiavo del dispotismo quanto l’infimo dei coltivatori; un gesuita è, in tutta la estensione della parola, lo schiavo del suo ordine, sebbene l’ordine [p. 113 modifica]stesso esista a causa del potere collettivo e della importanza dei suoi membri.

Non bisogna dimenticare poi che l’assorbimento di tutti gl’ingegni elevati del paese da parte del corpo che governa e, tosto o tardi, fatale all’attività e al progresso intellettuale di questo corpo stesso. Legato in tutte le sue parti, seguendo un sistema che, come tutti gli altri sistemi, procede quasi sempre dietro regole fisse, il corpo ufficiale è costantemente tentato di addormentarsi in una indolente routine; oppure, se esso esce talvolta da questo eterno circolo, si appassionerà per qualche idea appena sbozzata che sarà andata a genio di qualche membro importante del corpo; e perchè queste tendenze che si toccano da vicino (sebbene sembrino opposte) possano essere tenute in iscacco, perchè tutti gli ingegni che il corpo racchiude si mantengano ad una certa altezza, bisogna che questo corpo sia esposto ad una critica vigile, acuta e che venga da fuori. Perciò è indispensabile che si possano formare degl’ingegni all’infuori dello Stato colle occasioni e l’esperienza necessaria per giudicar sanamente i grandi affari pratici. Se noi vogliamo possedere in perpetuo un corpo di funzionari abili, capace di rendere dei buoni servigi e inoltre tutto un corpo che sappia creare il progresso o disporsi ad adottarlo, se non vogliamo che la nostra burocrazia degeneri in pedantocrazia, occorre che questo corpo non assorba tutte le occupazioni che formano e coltivano le facoltà necessarie pel governo dell’umanità.

Dire dove comincino questi mali così terribili per la libertà e pel progresso umano, o piuttosto dire dove essi comincino a superare il bene che si può attendere dalle forze libere della società sotto i loro capi riconosciuti — assicurare i vantaggi dell’accentramento politico ed intellettuale fin che si può, senza attirare nelle vie ufficiali una troppo gran parte dell’attività generale — è una delle questioni più difficili e complicate nell’arte di governo; è una questione sopratutto di particolari, dove non si possono dare delle regole assolute e dove bisogna tener conto delle più numerose e varie considerazioni. Ma io credo che dal punto di vista pratico il principio della salute, l’ideale da non perdersi di vista, il criterio secondo il quale si debbono giudicare tutti i mutamenti proposti per vincere la difficoltà, si possa esprimere così: la più gran disseminazione di poteri, compatibile coll’azione utile del potere stesso; il massimo accentramento possibile d’informazioni, diffuso poi il più che si può dal centro alla periferia.

Così, dovrebbe esserci nell’amministrazione municipale, come negli Stati della Nuova Inghilterra, una divisione accuratissima tra i diversi funzionarî, scelti per le località, di tutti gli affari che non è più conveniente di lasciar nelle [p. 114 modifica]mani delle persone interessate; ma oltre a questo dovrebbe esserci in ciascuna divisione degli affari locali una soprintendenza centrale, una diramazione del governo generale. L’organo di questa soprintendenza concentrerebbe come in un faro tutta la varietà d’informazioni e d’esperienza tratta e dalla direzione di questo ramo de’ pubblici affari in tutti i luoghi, e da ciò che accade di analogo nei paesi stranieri e dai principi generali della scienza politica: ad esso dovrebbe spettare il diritto di sapere tutto quello che si fa; suo speciale ufficio sarebbe rendere utile dappertutto l’esperienza acquistata in un luogo. Essendo questo organo al di sopra delle ristrette vedute e dei meschini pregiudizi di una località, per la sua posizione elevata e l’estensione della sua sfera di osservazione, il suo parere avrebbe naturalmente una grande autorità; ma il suo massimo potere dovrebbe, secondo me, limitarsi ad obbligare i funzionari locali a seguire le leggi stabilite dal loro speciale governo. Per tutto ciò che non è previsto da regole generali, questi funzionari dovrebbero essere abbandonati al loro giudizio colla sanzione della responsabilità davanti ai loro mandanti. Della violazione delle regole essi sarebbero responsabili davanti alla legge, e le regole stesse sarebbero stabilite dall’assemblea legislativa l’autorità: centrale amministrativa non farebbe che vegliare alla loro esecuzione; e, se la esecuzione non fosse ciò che dev’essere, l’autorità se ne appellerebbe, secondo i casi, o al tribunale per imporre la legge, o ai corpi elettorali per deporre i funzionari che non l’avessero eseguita secondo il suo spirito. Tale è, nel suo complesso, la sorveglianza centrale che l’Ufficio della legge dei poveri è destinato ad esercitare sugli amministratori della tassa dei poveri in tutti i paesi.

Per quante usurpazioni di potere abbia commesso questo ufficio, ciò era giusto e necessario in tal caso particolare, per tagliar dalle radici degli abusi inveterati in materie che interessano profondamente non solo le località varie, ma tutta la comunità. In fatto; nessun paese ha moralmente il diritto di trasformarsi per la sua cattiva amministrazione in un semenzajo di miserie, che si diffondono necessariamente in altre località e peggiorano la condizione morale e fisica di tutta la comunità operaja. I poteri di coazione amministrativa e di legislazione subordinata che l’ufficio della legge dei poveri possiede (ma che esercita assai debolmente a cagione delle idee dominanti a questo proposito) sebbene perfettamente giusti in un caso d’interesse nazionale di prim’ordine, sarebbero del tutto fuor di posto se si trattasse della sorveglianza d’interessi puramente locali. Ma un organo centrale d’informazioni e di istruzioni per tutte le località sarebbe ugualmente prezioso in tutti i rami dell’amministrazione. [p. 115 modifica]

Non sarà mai eccessiva per un governo questa attività che non arresta, ma ajuta e stimola i moti e gli sviluppi individuali. Il male comincia quando, invece di risvegliare l’attività e le forze degl’individui e degli enti collettivi, il governo sostituisce alla loro la sua propria attività; quando, invece d’istruirli, di consigliarli e all’occasione di denunciarli ai tribunali, li sottomette, incatena il loro lavoro, o li fa sparire, compiendo, al loro posto, l’ufficio ad essi spettante. Il valore d’uno Stato, in fin dei conti, è il valore degl’individui che lo compongono; e uno Stato che preferisce all’espansione e all’elevazione intellettuale degli individui, una larva di abilità amministrativa nelle particolarità degli affari; uno Stato che impicciolisce gli uomini, affinchè essi possano essere nelle sue mani docili strumenti dei suoi disegni (anche benefici), s’accorgerà che grandi cose non si fanno con uomini piccoli, e che la perfezione del meccanismo a cui esso tutto ha sacrificato finirà col non essergli buona a nulla, per la mancanza della vitalità ch’egli ha voluto allontanare per render più facile il funzionamento della macchina.




fine del capitolo quinto e dell’opera.

Note

  1. Il Maine è un paese del nord-est degli Stati Uniti, in cui vigeva una legge del 1851, notissima, che proibiva la vendita dei liquori fermentati. (Il Trad.)