La pastorizia/II

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Libro secondo

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I III
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LIBRO SECONDO.



Dolce è al pastor la cura, onde felice
Vive e cresce ne’ paschi e negli ovili
Prosperando la greggia. Ei fa diletto
A se medesmo delle sue fatiche;
5Ei ne vede i bisogni, e vi soccorre
Sollecito, e provvede. Allorchè appare
Sovra i monti la neve, e si divalla
Per li fianchi, acquistando ognor più loco,
Move dall’alte cime, e la radduce
10Dolcemente alle falde. E qui sostando
Per lo nuovo sentier, sovra i mietuti
Campi la scorge, a pascolar gli steli
Del reciso trifolio e delle biade;
Ei vi cerca i vivagni, e per le folte
15Macchie s’avvolge e per le siepi. E quando
Dispogliata è la terra, e già s’attrista
In sul venir del rio novembre il cielo,
Sue cure addoppia inverso al gregge inferme
Che disagio patisce; ed è sua lode
20Se nol fiede il rigor della nemica

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Stagion nel chiuso, nè lo assal di morbi
Stuol diverso infinito, e nol vi strugge
D’alimenti difetto e dura fame.
     Del Filliréo Chirone ecco agli alberghi
25Tocca il Sole, e dall’orrida contrada
Della Scizia gelata ecco levarsi
I Cauri, e tutta disertar la terra.
Te pur l’ovile ai freddi tempi accoglia
Sotto cielo miglior, che ai lieti giorni
30Apparecchiato, or le tue greggi aspetta.
Tempo è allor di riposo, e non ti assente
Lo errar d’intorno, come prima, il verno,
Che forte incombe a la campagna, e i germi
Sepolti uccide e il verde onor ne scuote.
35Dal suo lungo cammino alle invernali
Case procaccia d’arrivar lo stanco
Viandante, e posarsi; e in securtade
L’orror fuggendo di Nettuno e l’ira,
Si ricovra ne’ porti il navigante,
40E la prua coronata ai gravi massi
Lega, e in festa le ville anch’ei rivede.
     Ma pria bada al terreno, all’acque, ai siti
Dove sorga l’ovil, perchè non abbia
Di trasporlo mestieri, ogni qual volta

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45Ti patisca l’armento. Aprico e sgombro
Monti alcun poco il suolo, e non ricorra
Ivi l’acqua da solchi e vi s’arresti.
Non manchi appresso di purissim’onde
Mobil vena, che a ber le pecorelle
50Da lungi inviti mormorando; e a quella
Facil guado, calando, apran le rive.
E ti saria ventura, onde alcun poggio
Di propinqua montagna incontro all’ira
Boreal ti sorgesse, e la pendice
55Del mezzodì si rallegrasse al raggio,
Perchè non segga eterna ivi la neve
Ai brevi dì, ma presto si discioglia
Lasciando all’agne discoperto il campo.
Nè men sien presso alti perigli, e rupi
60Erte, e balzi profondi, ime caverne,
E fragorosi, per gli sterpi e i massi
Svolti dalle montagne, ampj torrenti;
Chè spesso la corrente onda appressando
V’entra il montone, e giù volto a seconda
65Nelle riviere di nuotar si gode.
“E quel che l’una fa, e l’altre fanno„
Le pecorelle, dietro a lui si cacciano
Tutte belando; e indarno accorre e grida

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E le tiene il pastor, chè immantinente
70Stupide dalla ripa si abbandonano
Tutte quante, addossandosi e premendosi.
Sien lungo irti vepraj, lunge infecondi
Di triboli e di spine orridi campi,
Ed acquidose fitte. Al mar vicino
75Non ti fermar, chè sull’ignuda arèna
Erba non esce, nè ti vai dell’onde
Amare aver d’intorno inutil copia:
E il suon dei flutti, che in tempesta al lido
Si sospingon la notte allo mugghiando,
80Alle raccolte pecorelle i queti
Sonni interrompe, e d’orror vano ingombra.
E il Toscano pastor, che le maremme
Pascea d’Etruria, e quei, che in sullo stremo
Dell’erbosa Sicilia, al mar vicino
85Spingea l’armento, lagrimò deserto
Il caro pecoril; perocchè addotto
Ivi da fame o mal voler, sul lito
Balzò l’Afro vagante, o dell’aprica
Alger l’infesto scorritor de’ mari;
90E col ferro nemico insanguinando
Le ville, a strazio miserabil trasse
E menò servo coi pastor l’armento.

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Sorge più d’uno, agli usi atto e all’albergo
De’ rustici stromenti e de’ ricolti,
95Ampio elevato portico, cui sopra
D’ambe le parti si protende il tetto.
Saglia, se il vuoi, d’alcuna banda il muro
Contro al freddo Aquilon, contro a qual vento
Più forte insulti al tuo guardato ovile;
100Purché d’ampie fenestre e di patenti
Fori l’esterno pàssi aere nel chiuso,
E quel, che dentro si stipò, n’esali.
Fra l’un pilastro e l’altro, alto d’un piede
Un muricciuol s’innalzi, e sopra quello
105Diritta scenda, contro ai lati infissa
De le colonne, a piuoli contesta,
Rastrelliera, che tutto accerchi e chiuda
Dalle travi soprane al pavimento.
Nell’ordine che dritto occhio prescrive
110Seguan commessi i pali, onde nè stretto
Nè troppo largo spazio in fra lor sia;
Chè mal può fra i graticci uniti e spessi
Penetrar l’aria e il sole, e tra l’ampiezza
De’ vani il capo suol cacciar sì stretto
115Il lattante, belando alle nudrici,
Che di ritrarlo invan ti adopri e sforzi.

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Fra la commessa rastrelliera e il muro
Verso terra inclinate escan diverse
Bene affermate spranghe, a cui per lungo
Della sporgente mangiatoja s’inchioda
120Per di dietro la sponda; e quella ancora
Al dinanzi s’inclini, e tutta sporga
Sè medesma all’agnel, perchè non resti
Cibo negletto al fondo, e il vase imiti
Che dal rostro pendente altrui si versa.
125Molto sparse alla cima apransi larghe
Ambe le sponde, e decrescendo in giuso
In picciol fondo si converta e chiuda.
Chè se per caso alcun la pecorella
Forse v’entrasse (come avvien se lieta
130A saltar prenda, o la vi adeschi amore
Di cibo, a cui famelica si stringe)
Mal vi stando co’ piè ritti, poltrendo
Non vi rimagna a lungo e il cibo insozzi.
Lievi cose parran queste ch’io spargo
135De’ bei fior d’Elicona, e in versi accolgo;
Ma non fia che il mio dir soverchio accusi
Il buon coltivator, che l’intelletto
Aprendo al vero manifesto, ei vede
Da piccioli precetti uscir gran frutto.

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140Ond’io, continuando al primo detto,
Parlerò dell’ovil, perchè non lasci
Il provido pastor dentro o d’intorno
Sporgenti angoli e punte, e sassi e sterpi
Od altro impaccio. Ampio e capace il varco
145Sia dell’ovile e ben disgombro e piano.
Dai pascoli tornando (o che la pioggia
A ricovrar le affretti, o degli agnelli
Che si ristàro, il tenero belato)
Le pecorelle dell’entrar son vaghe.
150Ai cancelli si aggirano e si affollano:
E come spumeggiante onda, cui freni
Argine opposto, alfin rompe e dilaga:
Con tal furia si caccia entro e si versa,
Tolta la sbarra, nell’ovil l’armento.
155Nella pressura allor, se il varco è angusto,
Molti occorron perigli; altre si sfiancano
Nell’urto, e dan di petto entro a' serragli;
Si sconcian altre, e strappansi di dosso,
Forzando le chiusure, i bianchi velli.
160Rimánti ora a veder, perchè congiunti
Non sieno insiem colle fattrici i maschi.
Se in un coll’agne lascerai confuso
Il lascivo marito, incontanente

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Turge il sangue ne’ lombi, e lo sospinge
165Ad accoppiarsi. Allor, mischiando i semi
E gli aspetti e le forme, l’immatura
E la caduca etade, escon difformi
I parti, ed ogni specie al peggio è volta.
Allor ti nasce disugual la prole;
170E il verno or la ti aggela, o ai caldi mesi
L’affanna il sole e i membri egri affatica.
Pon man dunque agli assiti, e scompartendo
Il già descritto ovil, distinto un loco
Abbian gli agnelli, e le fattrici, e i maschi
175Generatori dell’armento, e quelli
A cui ferro crudele il sesso offese;
E si gli afferma ne’ ricinti e chiudi.
Avverti ancora, che il monton non vegga
Presso l’agnelle, a cui toccar non possa
180Per le opposte barriere, e se ne attristi.
Forse non vedi ancor del giovinetto,
Cui sta sopra co’ stimoli pungenti
Il crudo amor, perduta irne la mente
E sviato il pensier dietro a le care
185Forme di vista verginella? Ei pasce
Lieto il desio ne’ suoi begli occhi, e pende
Da quell’amata bocca, e l'orme ognora

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Ne segue, e ognor si strugge; e come il duro
Cenno gliel vieta de’ parenti avari,
190Lei tuttavia lontano ama e vagheggia
Chiuso ne’ penetrali: e lei ne’ sogni
Vede, e desto sospira, e gli dà guerra
La rimembranza della tolta amica.
     Or del cibo dirò, di cui si vuole
195Le pecorelle sovvenir nel verno;
Perocchè allor ti nega ogni soccorso
L’alma natura, e nei pastor traduce
Con veci alterne dell’agnel le cure.
Nè ti doler se molta opra ti chiede
200La tua greggia ne’ verni: inoperosa
E disutile affatto ella non giace
In pigro ozio, godendosi le tue
Sollecite fatiche. Il pingue latte
Nelle poppe si fonde, e vi si addensa;
205Col tepor dell’ovile, agevolmente
Spunta la bionda lana, e a la pregnante
Pecora i molli fianchi si protendono
Della prole crescente, e a fin matura
I cari parti. Al seminato intanto
210Ed all’arso maggese il buon concime
Si tesoreggia; e caldo entro al sopposto

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Terren piove, e si crea l’amaro nitro
Che Marte ha in cura ed Esculapio. Ad atra
Fuligine congiunto e a fiammeggiante
215Zolfo, di morti e di vendetta il primo
Lo fa stromento; e meditando agli egri
Nuovo soccorso che li salvi, il nume
Dell’arti salutifere lo stempra
In pura onda di fonte, ed a begli usi
220Nell’officina spirital lo serba.
Quando fra l’ombre biancheggiar vedrai
L’incerta aurora, allor traggi dal chiuso
Il famelico gregge. Erri a diporto
Ne’ vicin campi, e sè purghi all’aperto;
225Mentre tu, stando nell’ovil, dài giusto
Ordine a tutto e norma: e le sozzure
Della notte rimovi. Allor disponi
Quel che serbato a miglior tempi avrai;
E sì lo parti e drittamente estima,
230Che non vi manchi il poco, o il troppo avanzi.
Non veduto porrai dentro ai presepj
L’amato cibo; chè altrimenti a vile
Cade perduto e non satolla il gregge.
Chè se recasse alcun pieni i canestri,
235O fra le man dell’odorato fieno

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Gran fasci, incontro se gli fa belando
Lo stuol digiuno, e intorno se gli serra
Premendolo. Le braccia alto solleva
Quegli, e co’ piedi e co’ ginocchi il passo
240S’apre a forza; ma l’agne ecco si rizzano
A lui dinanzi, e il premono da tergo;
Vinto alfin dalla calca, all’impedito
Mal accorto pastor cadono i fasci
Mal difesi e le corbe. Avverti ancora
245Che l’arïete famelico non vegna
Insiem cogli altri al pasto apparecchiato;
Chè, di posse e d’ardir tutti avanzando,
Si spinge innanzi poderoso, e primo
Occupa il sito e l’agne addietro caccia;
250Nè dell’amanza più che dell’agnello
Si cura: così forte ad altro alletto
Di fame ognor necessità prevale.
L’erbe cui maturàr del maggio i soli
Togli a man piene; e la gramigna e il verde
255Odoroso trifolio, onor de’ campi.
Nè di tua mano sdegnerà l’armento
Quelle che al tardo autunno aride foglie
Cogliesti a tempo fra le selve ombrose,
Quando l’albero adusto le dimette;

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260E del miglio dorato e della vena
I raccolti in fascetti aridi steli.
Misto a intatte farine e molle crusca
Abbian lor sal le pecorelle ancora
Dentro a le stalle. A’ dì piovosi e brevi,
265Quando spregiar le vedi il cibo, e il capo
Piegar lasso, e ristarsi infra i graticci
Senza lena e vigor, tu le conforta
Di poco sale e le ravviva. Il sangue
Così si allegra nelle vene: acuto
270Il desiderio appar del cibo, e il vano
Acquoso umor che ai membri egri prepara
Livida ascite e li risolve e stanca,
Fuor caccia, e a’corpi il suo vigor ritorna.
     Ma quando il mezzo toccherà del cielo
275A traverso le nebbie umide il sole,
D’alcun verde alimento abbian ristoro.
Nel florid’orto a te vive la crespa
Lattuga, la purpurea carota,
La vulgar pastinaca e l’umil bìeta,
280E la candida rapa e la vermiglia;
Tumido cresce ancor dentro ai gelati
Solchi e biancheggia il cavolo fronzuto
A’ tardi mesi. Alte vedrai di terra

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Sporger le foglie a cotai germi intorno,
285Che invan marcite ti sarian, neglette;
Tu il soverchio ne scema, e dàllo al gregge.
Che se cibo miglior, se più salubre
Cerchi fra quanti nel suo grembo acchiude
Il ben culto terren, volgiti a quello
290Che per l’ampio Oceàn dalla divisa
America ne venne e fra noi crebbe
Cereal pomo che sotterra ha loco.
Nè il Ligure nocchier, che primo il regno
Apri dell’onde invïolate, e stette
295Contro nuovi perigli e nuovi mostri,
Solo seguian pel temerario calle
Stuol di morbi feroci a far vendetta
Su noi del mal cercato oro; ma venne
Seco all’afflitta umanità soccorso
300Di farmachi potenti e d’erbe e semi
Ignoti al nostro sole, onde più lieta
D’almi diletti si ricrea la vita.
Vedi la canna Iblèa, vedi l’adusta
Animosa vainiglia, e l’oleosa
305Ghianda, e il fervido bruno cinnamomo;
E l’Epidauric’arte or va giuliva
Per lui dell'amarissima corteccia

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Dell’arbor fortunato, onde s'acqueta
De’ nervi offesi il tremito, e l’occulto
310Vibrar che il sangue avvampa e i corpi abbatte.
Nè invan d’Europa a’ più benigni soli
Tu venisti, o fra tutti eletto pomo,
Che dalla terra il nome e il color tieni.
Non men che in fertil campo, alligni e cresci
315Dove la sabbia ignuda e l’inclemenza
Del ciel contende ad altra messe albergo;
Nè te ruggin scortese o nebbia edace
Arde, nè pioggia ingrata affonda, o rompe
Strepitando la grandine ne’ solchi;
320Quindi fuor di periglio all’uomo abbondi,
Suo cibo, ed ammannito ov’ei nol sdegni
Ad ogni tempo di ria fame il salvi.
D’orribil forme un giorno, e nell’aspetto
Paurosa, una Furia il capo ingordo
325Levò da Stige e pose il mondo in pianti.
Dopo l’ire di Marte, onde le ville
Van di mèssi diserte e di cultori,
O dopo che malvagio aere inclemente
Attoscò i germi della terra e i parti,
330Per gli squallidi campi uscía la cruda
Affamando i mortali; e il senso in tutti

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Di pudor, di virtù, d’umanitade
Spegnea, chè al viver norma era il bisogno
Istigatore. Furibonda in atto,
335L’atterrita Siònne un dì la vide
Ir per gli aurei del Tempio atrj superbi
Consigliera di fiere opre e di morti,
E tra le infide mura anco si avvolse
Della vinta Cartago, e in Campidoglio
340Osò l’Erinni d’appressar la sacra
Rocca di Giove; quando assisa e stretta
Dal Sènnone guerrier, l’estremo fato
Paventò Roma, che gittò feroce
Nel campo avverso i disperati pani.
345Ma della cruda Erinni (ove a sè stesso
L’uom non invidj l’util suo, nè cieco
Si commetta alla fame) or più non teme
La culta Europa: tal dai numi è dato
Certo presidio incontro alla nemica.
350Presso all’util frumento ed alla messe
Dalle bionde pannocchie, al farro, all’orzo,
Ecco lo eletto pome a parte a parte
Ingenerarsi dell’Italia in seno,
E più sterili glebe abbracciar lieto:
355Seggio dapprima al rovo ispido e al cardo

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Selvaggio ed alle ortiche; e a lui dall’alto
Cerere applaude, e i molti usi ne addita.
Di questo, ove n’abbondi, al gregge ancora
Esser vuolsi cortese, allorchè il verno
360Fa, nevando d’intorno, orridi i campi.
Vedrai per questo in pingue adipe avvolgersi
Delle pecore i fianchi, e vie più denso
Dalle turgide poppe uscirne il latte.
     Quando pel tenebroso aere si versa
365A dilungo la fredda invernal piova,
Ti si sconviene ad ogni istante il gregge
Addurre a’ fiumi. Nè vorrai che in lorde
Pozze si cavi il suol, nè porrai vasi
Grevi di sasso nell’ovil, che indarno
370Di rimoverli tenti, allorchè d’uopo
Ti fia votarli e risciacquarne il fondo;
Ma ben cavando il faggio e i grossi tronchi
Del lieve òntano a tempo, o commettendo
D’assi polite i truogoli e le docce
375Ben sedenti sui piè, dentro v’accogli
Lucente onda di fiume; e fuor le porta
Se mondarle desii, perchè la terra
Dell’ovil non si abbeveri e si lordi.

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E prima e salutar legge ti sia
380Dell’ovil la nettezza e dell’armento;
Perocchè la bruttura, a cui s’ammoglia
Poscia ogni morbo, fermentando esala
Tetre mefiti, e di gran lezzo ingombra.
Ne’ di festivi all’aurea Pale, in bianchi
385Lini ravvolto, e coronato il capo
Di schiette frondi, il supplice pastore
Circuiva le greggi; e il conseguia,
Devoti inni cantando, l’innocente
Coro di verginelle e di fanciulli.
390Poi lustrando l’ovil con prieghi e voti
E pura fonte, v’addensava il fumo
Dello zolfo vivace; e il casto ardendo
E crepitante alloro, e l’odorato
Gàlbano, amica t’invocò dal cielo
395Sulle raccolte pecorelle, o Diva.
Ma i numi indarno or pregherà clementi
Chi di sè stesso non adopra e vede;
E poltrendo infingardo e disattento
Sue speranze commette alla ventura.
400Se la nettezza dell’ovil ti salvi
Da rei malori il gregge, alto il concime
Non vi giaccia negletto, o la corrotta

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Acqua ne’ dogli. Soffice e cernita
Di ciottoli la terra occupi lieve
405Alta d’un palmo dell’ovil lo spazzo,
E la copri di molle arido strame;
Che torrai poscia, allor ch’umido è fatto
Dal lungo uso del gregge. Il terren volta
Zappando, allorché in ciel l’argentea luna
410Ripiglierà le corna; e quando odora
Di gran lezzo impregnato e di vapori,
Lo cangerai, mondando ogni sozzura.
Del ben guardato pecoril lontano
Il buon fimo si cumuli del guasto
415Pagliajo e dello strame; ed al coperto
Il terre, che fu letto, aduna e serba.
     Quando rinnovi della notte il sozzo
Umido letto, o sopra vi distendi
Nuove paglie (qualor vento non mova
420Impetuoso, nè si versi greve
Continua pioggia) esca l’armento, e il puro
Aere si beva dell’aperto cielo.
Nei ricinti, che industre opra condusse
D’intorno al pecorile, o tra le siepi
425Onde l’aja si cinge, a suo talento
Discorra: come troppo i petti affanna

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De’ congiunti animali il calor grave,
E il respir ne affatica; anzi tu stesso
Talor vel traggi a tuo diletto, e ai campi
430Esci talvolta, ancor che da per tutto
Segga la neve sulla terra e il gelo.
Come il Parnassio allor, la pimpinella
Verde ancor ti si serba e l’umil guado,
Puoi sull’aride stoppie e le grillaje
435Guidar l’agnelle; e pascer felci e steli
Di flessibile acanto e di ginestra.
Quando tutto si aggela, e per lo intenso
Spirar dell’aquilone, in ceppi stretto
D’aspro ghiaccio, non mormora il ruscello,
440Ma pur sereno il cielo a te sorride,
Teco le scorgi; e i vivi cespi e i rami
Pascan tra via de’ teneri virgulti;
E tu, di ronca armato, i flessuosi
Sempre verdi dell’edera corimbi
445Stacca da’ tronchi, e dalla quercia annosa
Scuoti le foglie, e ti ricrei la vista
Del sole amico e degli aperti campi.
E quando nebbia impura a te contende
In alcun giorno il sole a la pianura:
450O il vedrai fra quel denso umido velo,

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Pari a disco lunar, dei vivi raggi
Dispogliata la fronte: al vicin colle
Le adduci, e al bujo vaporoso invola.
Prendendo il monte a più lieve salita
455Coll’armento, vedrai di passo in passo
Cader le nebbie, e diradarsi il fosco
Aere, e cessar l’amaro odor del fumo;
Quindi montando ognor più al sommo, il cielo
Sgombro ti appare, e manifesto il sole,
460Splendentissimo e bello. Allor se volgi
Onde partisti attonito lo sguardo,
Nella mesta caligine sepolti
Eccoti i campi, e squallida la terra
Nel tetro ammanto delle nubi; e al vario
465Spirar dell’aure soprastanti, il piano
Ondeggiar vedi; e quai sparse isolette
In ampio mar, le cime apparir sole
Dei circostanti colli e delle selve.
Questo il potrai ne le beate e belle
470Itale piagge, a cui sortì natura
Più dolce il clima e temperato il cielo.
Non così fra le Nordiche contrade
E i campi nel Rifeo gelo sepolti,
Dall’irsuto Lapone al Tànai algente.

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475Ivi notte di tenebre profonde
Orribil tace, e lunghe il sol fa l’ombre,
Quando via via sul mar rosseggia obbliquo.
Per que’ sterili piani irati fremono
Con subite bufere e grevi piogge
480I venti; al soffio aquilonar si stringono
Di ghiaccio i fiumi, e muojono gli armenti;
Muojono i germi della terra, e mesto
Si fa deserto. Non appar di frondi
Nè d’erbe indizio alcuno, e nella tarda
485Notte a gran falde tacita discende
Sovra i ghiacci la neve, e vi si aggela.
Certo al silenzio, al muto orror, diresti
Ch’ivi è morta natura, e il vital foco
Onde l’uom spira, e tutto scalda e move;
490Se non che fremer stranie belve, e strida
Odi talvolta di sinistri augelli
Che ad altro ciel riparano, e scoppiando
Per l’intenso rigor, fendersi i tronchi.