La poesia cavalleresca e scritti vari/La poesia cavalleresca/V. L'Orlando Furioso/5. Astolfo

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V. L'Orlando Furioso - 5. Astolfo

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5. — Astolfo.


Il damerino Astolfo, provvisto di un libretto de’ rimedi degli incanti, della lancia d’oro che atterrava tutti, d’un cavallo alato e di un corno che, a sonarlo, fa fuggir di paura chiunque sente quel suono, diviene l’organo dell’immaginazione in questo poema; è nel cavalleresco quello che Dio, san Michele e la Discordia sono stati nell’epico; è la macchina soprannaturale: è un uomo destinato a grandi imprese.

L’azione epica è l’assedio di Parigi; l’azione cavalleresca, la pazzia d’Orlando; mezzi soprannaturali liberano Parigi; mezzi soprannaturali rinsaviscono Orlando: c’è una macchina epica ed una macchina cavalleresca. Astolfo, il buffone del Pulci, il damerino del Boiardo, diventa il braccio di Dio!

L’azione epica succede intorno Parigi, e Astolfo si spassa a viaggiar sull’ippogrifo. Gli altri guerrieri lasciano Parigi, incontrano avventure e vi ritornano; lui se n’è dimenticato; è come un hors-d’-oeuvre; è l’espressione più compiuta del bisogno che abbiamo di gettarci nel fantastico quando la realtà ci par troppo angusta, che vive sempre nella plebe, fanciullo perpetuo, straniero alla civiltà, che tanto più s’appassiona pel meraviglioso quanto meno comprende la realtà, e nei ragazzi, che vi renderete sempre amici coi racconti fantastici. Il tempo e lo spazio non hanno ragione su lui; ha unificato la realtà e l’immaginazione.

Il corno vi darà situazioni comiche, giacché il poeta scherza con questa macchina e vi getta sopra la sua ironia. Astolfo viaggiando con altri compagni in una terra dominata dalle donne, che non volevano conceder loro di passar oltre, risolvono di aprirsi a forza una via; non riuscendo loro, Astolfo ricorre al corno. È una delle più stupende descrizioni degli effetti comici della paura, che accieca e fa cader spesso dal pericolo immaginario nel reale. E l’autore dice: — Bene sta: questi sono plebe e fuggono, la paura è natura nella lepre — . Ma Marfisa, Guidone [p. 125 modifica], tutti que’ famosi guerrieri, scappano anch’essi. Marfisa «spaventata», i cavalieri «pallidi e tremanti» sono epiteti che colpiscono, perché presentano idee che sembravano impossibili anche in sogno.

Astolfo giunge in Nubia e trova il Senápo punito del soverchio orgoglio con la cecità, e con le visite delle Arpie che, quantunque volte si metteva a mangiare, venivano, e parte sporcavano, parte divoravano ogni cosa. Una profezia diceva che il re ne sarebbe liberato da un cavalier volante. Astolfo vuol cacciarle con la spada, ma invano; ricorre al corno; suona, e fuggono; le perseguita fino alla buca dell’inferno in cui si cacciano. L’immaginazione esaltata trova angusti i confini della terra.

Molti, specialmente inglesi, s’avventurano nel cratere del Vesuvio, si cingono funi alla vita e sotto le ascelle, e si fanno calar giù dal Cicerone; finché respinti dai miasmi mefitici, dalla puzza di zolfo, si facciano tirar su. Tal’è la buca infernale in cui si ficca Astolfo, pensando: — Di che ho a temere? Mi posso aiutare sempre col corno! — :

Farò fuggir Plutone e Satanasso,
E ’l can trifauce leverò dal passo.

Dopo pochi passi, il fumo lo costringe a battere in ritirata. L’inferno è qui divenuto ridicolo, ma la caricatura è più netta nella rappresentazione delle anime infernali. Una ombra, interrogata, risponde ad Astolfo, che li sono tutti gli amanti crudeli, tutte le amanti sorde.

Respinto dall’inferno, Astolfo vola sopra un’alta montagna in cui trova il Paradiso terrestre. Comincia con una magnifica descrizione: sono tutte le bellezze della terra idealizzate; la sede di quell’età dell’oro che ogni uomo immagina, e chi pone nel passato e chi nell’avvenire. Anche Dante ha descritto un paradiso terrestre; ma per lui tutto è serio, non v’è nulla di voluttuoso come in Ariosto. L’immaginazione popolare, per rappresentare bella una cosa, la paragona a ciò che crede esser più [p. 126 modifica]bello; le gemme sono per lei l’ideale della bellezza, e l’Ariosto rappresenta il Paradiso terrestre come le si presenta:

     Zaffir, rubini, oro, topazi e perle
E diamanti e crisoliti e iacinti
Potriano i fiori assimigliar che per le
Liete piagge v’avea l’aura dipinti...

Non guarda alla spiritualità della bellezza, la materializza, v’insinua una certa morbidezza, una certa voluttà. Astolfo incontra san Giovanni evangelista, che l’informa della sua missione: — Ti credi un buffone? No, sei un grand’uomo— .

Gli danno una bella stanza per la notte, e fieno per l’ippogrifo, e gl’imbandiscono pomi così squisiti che Astolfo trova scusabili Adamo ed Eva. Ecco dove va a finire questo Paradiso terrestre:

De’ frutti a lui del Paradiso diero
Di tal sapor, ch’a suo giudicio, sanza
Scusa non sono i duo primi parenti,
Se per quei fur si poco ubbidienti.

Soddisfatti i suoi bisogni naturali, Astolfo va con san Giovanni nella Luna. Nasce una delle invenzioni originali dell’Ariosto. È originale non l’invenzion badiale di salir nella Luna, ma il crear la Luna, dandole un concetto ed un soggetto. Un viaggio nella Luna costituisce l’oltreterrestre, cui ricorrono i poeti per fissar l’attenzione sull’infinito e l’indefinito della vita nostra, per esempio, «bellezza divina» è una forma indeterminata necessaria ai poeti per collocare ciò che veggono in un mondo superiore; ma non possono determinare, devon rimanere nei vaporoso. Nessuno ricorda come Dante abbia determinato Giove, Marte o Saturno; del Paradiso dantesco vi rimangono i caratteri generali dell’oltreterrestre.

L’oltreterrestre non serve solo a rappresentar l’ideale, ma anche la vita terrena satiricamente: i poeti hanno immaginati altri mondi per mettervi la caricatura del nostro. Voltaire, in [p. 127 modifica]un saporitissimo romanzetto, Micromégas, in cui, rappresentando un abitante di Sirio che viene in terra con un abitante di Saturno, ridicoleggia i dotti contemporanei, adopera il metodo contrario al metodo dantesco: scende a tutti i piccoli dettagli. 11 riso poetico nasce dal metter l’accidente contro l’essenziale, dandogliene l’importanza.

In Ariosto c’è una Luna particolare, rappresentata ne’ suoi particolari satirici. Astolfo, nella Luna, vede il mondo a rovescio, la realtà contraria all’apparenza: trova la Luna grandissima ed appena scerne la terra aguzzando gli occhi.

Lamartine espone le impressioni provate ascendendo su di una montagna e si lancia nell’infinito; e stava solo sopra una montagna: che sarebbe stato se fosse stato nella Luna! Astolfo non trova in tutto questo che una stranezza. Nella Luna s’immaginano abitatori; il poeta non se ne occupa; dice con indifferenza ch’erano simili a quelli della terra. Astolfo, che non era ito li per considerare il meraviglioso lunare, s’avvia per cercare il senno di Orlando. Ariosto suppone che nella Luna si fabbrichino le vite umane, e che quindi vi si trovi tutto quello che qui si perde.

Il comico sta nel rappresentare la miseria del mondo, in cui si perde, senza accorgersene, tanta roba:

     Le lacrime e i sospiri degli amanti,
L’inutil tempo che si perde a giuoco,
E l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
Vani disegni che non han mai loco...

Perché possa veder tutta questa roba, l’autore le ha dato forma: alcune chiarissime e piene di senso: un mucchio di vesciche gonfie erano i regni perduti da’ principi orientali; altre sono immagini popolari, messe simbolicamente. Ci è il proverbio; «ho perduta la minestra», nato dall’uso de’ monaci di dispensar minestre a mezzogiorno, che vengono pagate con preghiere dai poveri; e significa; «ho fatto un benefizio senza frutto»; un gran mucchio di minestre versate rappresenta le elemosine postume. [p. 128 modifica] Diciamo d’una donazione fatta con cattivi fini, che puzza. La donazione di Costantino è rappresentata da un gran mucchio di fiori già odorosi, ora puzzolenti. In queste immagini c’è attualità, non nelle altre che rimangono sbiadite. Poi giunge dov’era il senno: ma prima finisce l’elenco delle cose perdute con un tratto di spirito:

     E vi son tutte l’occorrenzie nostre:
Sol la pazzia non v’è poca né assai.
Che sta quaggiú, né se ne parte mai.

Il senno è una specie d’etere, chiuso in ampolle. Astolfo trova il suo proprio senno e lo riprende:

     Astolfo tolse il suo, ché gliel concesse
Lo scrittor dell’oscura Apocalisse.

Presa la grossa ampolla del senno d’Orlando, prima di lasciar la Luna vanno a veder la fabbrica delle vite umane. Segue la riproduzione della favola delle Parche. Fin qui non v’è comico, ma il fondamento del comico. Un vecchio, il Tempo, porta via que’ velli. Astolfo ne vede uno tutt’oro. San Giovanni gli dice che quella vita avrebbe principio vent’anni prima che si noti con l’M e col D l’anno corrente. Chi era questo grand’uomo? II più gran minchione del tempo: Ippolito d’Este. Astolfo comincia a cantarne le lodi. Come scherza con sua invenzione, come deride sotto i baffi il cardinale! Ariosto suppone d’avere un’innamorata, e le parla così: — Orlando ha perduto il senno; anch’io l’ho perduto; chi andrà a prenderlo in cielo per me! — e dice che non crede che sia nella luna:

     Chi salirá per me, Madonna, in cielo
A riportarne il mio perduto ingegno...?

Tempo curioso in cui potevano concepirsi e gustarsi tali cose: la libertà era perduta e di recente; lo straniero era in Napoli; e si rifuggiva dalla realtà in questi sogni fanciulleschi! [p. 129 modifica]Ecco come rappresenta Ippolito d’Este:

     Quegli ornamenti, che divisi in molti
A molti basterian per tutti ornarli.
In suo ornamento avrá tutti raccolti
Costui, di c’hai voluto ch’io ti parli.
Le virtudi per lui, per lui sofiolti
Saran gli studi; e s’io vorrò narrar li
Alti suoi merti, al fin son si lontano,
Ch’Orlando il senno aspetterebbe invano.

Generalità, fra le quali scorgi una certa finezza d’ironia, sfuggita senza dubbio all’alto ingegno del cardinale Ippolito. Ora il comico si sviluppa.

Quando mi dite che nella Luna si trova il perduto in terra, il soggetto comico è bell’e preparato; ma, parlando delle vite che vi si fabbricano, no; e bisogna che lo cerchiate. Vi ricordate, in Dante, di san Pietro che impallidisce e fa impallidire il Paradiso, indegnandosi col suo successore? Nelle parole del santo trovate tutto il misto di passioni che ribollivano in petto Dante:

               Se io mi trascoloro,
Non ti maravigliar; ché, dicend’io,
Vedrai trascolorar tutti costoro.
     Quegli ch’usurpa in terra il loco mio.
Il loco mio, il loco mio che vaca
Nella presenza del figliuol di Dio,
     Fatto ha del cimitero mio cloaca
Del sangue e della puzza, onde il perverso,
Che cadde di quassú, laggiú si placa.

L’Ariosto ha voluto farne la caricatura. San Giovanni rinnova la scena, toltane la serietá. Perché s’indegna? — Non v’è che un mezzo di fuggir la morte, dice il poeta, beffandosi dell’arte sua: tenersi amici i poeti. Ed allora non solo sarete sicuri dell’immortalitá; ma potrete bricconeggiar senza tema di acquistare [p. 130 modifica] una cattiva riputazione. — E comincia a dare esempi:

     Non si pietoso Enea, né forte Achille
Fu, com’è fama, né si fiero Ettorre;
E ne son stati e mille e mille e mille
Che lor si puon con veritá anteporre:
Ma i donati palazzi e le gran ville
Dai discendenti lor, gli ha fatto porre
In questi senza fin sublimi onori
Dall’onorate man degli scrittori.

San Giovanni s’indegna, s’infoca, e, meravigliandosene Astolfo, gli dice: — Anch’io fui scrittore, ed ho fatto Cristo, ed in ricompensa sto qui. Ai tempi miei si premiava i poeti col Paradiso; ma adesso sono così poveri! e non ci può esser buon poeta senza buona tavola e buon alloggio — . Notate quanto sia terribile quel «convenne»:

E ben convenne al mio lodato Cristo
Rendermi guiderdon di si gran sorte...