La poesia cavalleresca e scritti vari/La poesia cavalleresca/VI. I continuatori dell' Ariosto

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La poesia cavalleresca - VI. I continuatori dell' Ariosto

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VI

I CONTINUATORI DELL’ARIOSTO


Non senza rincrescimento lasciamo Ariosto, che ci ha procacciati i più puri piaceri estetici. Ai suoi tempi ogni sentimento morale, religioso, politico era finito in Italia; c’era un resto di vita meramente artistico. Gli Spagnuoli, i Francesi, i Tedeschi ci erano superiori; ma avevamo il primato artistico. Vivevano Michelangelo Ariosto Raffaello. Tali autori, tale popolo: riconosceva i grandi uomini. E tristo Napoli, quando sorge Giovambattista Vico e nessuno s’accorge chi è Giovambattista Vico. Ma qui il popolo apprezza i grandi creatori artistici. Un grido d’ammirazione sorse da ogni parte alla pubblicazione d’Ariosto: il divino Ariosto. Una di quelle croci d’onore che danno i popoli. L’ammirazione per Ariosto era riflessa o spontanea? Spontanea tutta, tutta popolare; anche ora la storia di Orlando è meglio conosciuta della storia loro propria. La grandezza dell’Ariosto consiste in una chiarezza d’intelligenza congiunta con una somma facilità; sembra scherzare come fanciullo e crea come genio. Vastità d’orizzonte: è il solo che abbia abbracciato tutto il campo cavalleresco. In questo divino libro trovate il mondo antico che spira, il mondo moderno che sorge. Notate ancora la sua forma. La forma è il mezzo che serve all’espressione de’ pensieri: parola, grammaticalmente, immagine poeticamente. È lo specchio dell’idea. Un bambino vedendo uno specchio corre con le mani per afferrar la persona che si vede: non esiste per lui il vetro. La forma più perfetta è quella che [p. 171 modifica]non vi ferma, che non vedete. Ora l’espressione è uno specchio coverto di macchie. Il pensiero passa attraverso noi, giunge al lettore falsificato, tradito, dimezzato. Nessun poeta ci dá una forma senza macchia. Omero ed Ariosto non hanno né pregiudizi, né preoccupazioni: sono perfettamente obiettivi.

L’impressione fu dapprima unanime. Ma i letterati cominciarono a riflettere sulla bellezza dell’Ariosto, giudicando con la poetica d’Aristotele e d’Orazio. Trovarono che Ariosto aveva infrante tutte le regole del poema: lo chiamarono poeta capriccioso, senza unità, dignità, ordine, principio mezzo e fine. Si formò una consorteria che biasimava Ariosto perché non aveva imitato Omero. I critici dissero: l’Orlando non è un poema; e questo indirizzo fu fecondo del Tasso. Segue l’indirizzo popolare. Le sue storielle fantastiche solleticano l’ammirazione, le sue storielle scandalose piacevano. Certi poeti che poetavano per far piacere al popolo non pensarono imitando l’Ariosto che a sviluppare questi due lati. E sono non lo sviluppo ma la degradazione del poema ariostesco.

Nell’Ariosto vi sono de’ personaggi accessori: Ferraú, Marfisa, Astolfo stesso, Ricciardetto, Angelica e Medoro. I continuatori si sono afferrati a questi personaggi, e ne hanno fatti tanti poemi. Chi fu il primo? Ariosto aveva detto finendo l’episodio di Angelica e Medoro: «Fors’altri lo dirà con miglior plettro». Quel che successe. Pietro Aretino scrisse l’Angelica. E l’Italia era tanto giù che, dopo Dante ed Ariosto, csò chiamare «divino» anche Pietro Aretino: dopo questa profanazione il titolo non fu piú dato a nessuno. Vi è una Marfisa, un Sacripante d’autori ignoti. Dovremmo fermarci sull’Orlandino di Teofilo Folengo, che è anche più spiritoso del Berni, perché è il gran rappresentante di questa epoca. Un popolo grande ride di rado, è serio; il riso frequente prepara la decadenza. L’Italia allora non faceva che ridere, dimentica del suo abbrutimento. Teofilo Folengo ha fatto in Italia l’opera di Cervantes e di Rabelais, rappresenta la caricatura del poema ariostesco. E con lui il cielo intellettuale italiano si oscura. Viene il Seicento, in cui l’Italia ebbe due malattie: nei primi cinquant’anni fu idropica [p. 172 modifica], nei secondi cinquanta fu tisica. Prima i poeti gonfiano la poesia

Le Metafore il sole han consumato

Si volle curare la malattia: i medici furono gli Arcadi; sostituirono alla gonfiezza la freddura, l’ariditá, il gelo di contenuto e di forma. Prendevano nomi di pastori e cantavano convenzionalmente pastorelle; è il certificato di morte dell’Italia.

C’era un canonico fra gli Arcadi, un canonico Niccolò Forteguerri, che aveva una villa, in cui riuniva molti giovi notti e giovinastri per ammazzare il tempo leggendo Ariosto. Una sera un tale osservò che l’Ariosto aveva dovuto faticar molto per fare il canto di Olimpia. Si fece come chi avendo l’animo venale domanda per prima cosa vedendo un bell’oggetto: quanto costa. Forteguerri rise e promise per la sera seguente un canto simile a quello e tenne parola, ed in meno d’un anno pisciò il Ricciardetto. Pretende far ridere e fa piangere chi pensa alla nostra decadenza d’allora. Ricciardetto ha ucciso il fratello di Despina che viene in Francia per vendicarlo; se ne innamora, fa saltare Carlo in una mina per aria, lo sposa e lo fa imperatore. Vi aspettate in Despina il contrasto d’una donna che ama l’uccisore del fratello. Nient’affatto. Non v’è nulla d’umano. Forteguerri ha voluto riprodurre le storie fantastiche e gli scandali dell’Ariosto.

Le storie fantastiche sono testimonio d’una immaginazione canonicale depravata. Ferrati diviene cristiano, si monaca; è lussurioso e piú volte la donna gli fa negar l’anima. Finalmente i Paladini lo mettono in un’isola fra vecchie bruttissime. Ferraú se ne fugge con una di queste in Francia dove ruba una monaca e Rinaldo e Ricciardetto lo legano a un albero.

Zif e lo concian pel di delle feste.

Questo canonico doveva frequentar le osterie. Astolfo e Ferraú si trovano in un’osteria dove dormivano in una sola camera tutti. Spenti i lumi s’alzano Astolfo e Ferraú che vanno [p. 173 modifica]da una ottuagenaria invece di andare dalle giovani. Questa è la parte fantastica. Vi sono le facezie poi, che sono buffoneria plebea e volgare. Ha tre note: Paladini che diluviano. Paladini che cioncano, e storie di donne.

Dovrò parlarvi della forma? La forma è sparita. Il verso non esiste piú, sono fatti col colascione. Non sviluppa le passioni non rappresenta i caratteri. Tre o quattro giorni fa in Francia c’era il bal masqué d’Europe. È la materialitá sostituita all’arte. Racconta i fatti nudi e crudi senza svilupparli. Il Forteguerri è la nullitá poetica della vita e della forma.

- Nel Settecento, secolo di preparazione, Gozzi scrisse la Marfisa.

L’Ariosto produce due scuole. Una gran produzione letteraria produce le scuole poetiche. Raffaello produce due o tre indirizzi. Una gran composizione ha piú parti: ogni scuola s’appiglia ad una parte. Nell’Ariosto c’è la vita cavalleresca rappresentata serio-satiricamente. Non potete dire: è serio; non potete dire: è buffonesco. I critici hanno detto: è un poema epico sbagliato: ed è nata la scuola epica. Il volgo ha detto: è un poema buffonesco. Perché non hanno valore tutti i poemi buffoneschi seguenti? Perché non possono chiamarsi sviluppo dell’Ariosto. Delle sue fantasie hanno fatto stravaganze; del comico, buffoneria. Dove troveremo un progresso in questo indirizzo? In Ispagna (l’ironia ariostesca sciolta dall’unitá ariostesca).

Nell’Ariosto non v’è antitesi: i due elementi sono fusi e contemperati, non fanno a pugni. Non v’è in lui ironia intenzionale. Il Cervantes ha dégagé i due elementi dell’unitá ariostesca: vi è duplicitá. Nell’Ariosto vi è sintesi. Nel Cervantes, analisi. L’antitesi nel Cervantes è nell’opposizione fra il mondo moderno e l’antico; in lui il mondo moderno è il rappresentato: e la cavalleria è un sogno del passato e la fissazione d’un pazzo. II Don Chisciotte è il mondo moderno che burlando la Cavalleria comincia ad acquistar coscienza di sé. Ciò che distingue il mondo moderno dal cavalleresco è il buon senso, la realtá, il positivo. Da questo buon senso è nato il mondo moderno ossia scientifico, ossia sperimentale. Rabelais e Montaigne hanno iniziato [p. 174 modifica]quest’indirizzo in Francia. Secolo XVIII. La cavalleria è morta sotto la satira di questi poeti prima della Rivoluzione francese? Resiste ancora: invano ha vissuto Cervantes e Lesage. Quanto costituisce l’insieme del mondo ariostesco esiste ancora: impero, chiesa, nobiltá, clero. Ma che differenza! Sono imitazioni divenute semplici parole. Vox, et praeterea nihil: il contenuto, il significato è sparito. C’era l’imperadore: ma dove era Carlomagno? Questa differenza fra l’intellettuale e il reale provoca e giustifica le rivoluzioni. Scoppiò la rivoluzione francese contro tutte queste istituzioni.

In questa guerra di penna e di cannoni, quando era giá nata la rivoluzione francese, usci il Mattino, che rimane come unasatira generale di tutta la nobiltá. Un libro genera libri. Gozzi volle anch’egli satireggiare tutto il mondo moderno: e scrisse la Marfisa in dodici canti. La concezione di questo poeta è degna di chiudere il ciclo cavalleresco. Immagina la cavalleria antica trasportata a’ tempi moderni. Voglio dirvi che sono divenuti Carlo, Rinaldo, ecc. Carlo è grasso e grosso: pensa a mangiare e bere e impor gabelle. I Paladini cercarono il riposo nel ben vivere. Rinaldo contrabbandiereggia e Carlo chiude un occhio; Rinaldo s’ubbriaca giuoca e perseguita le serve, malgrado le sgridate di Clarice. Astolfo è maestro delle cerimonie, e inventa ogni dí nuove forme, ecc. Il re Salomone è divenuto un vecchio squarquoio che fa il vagheggino colle dame; Namo, un vecchio avaro; Gano, un devoto, usuraio ed intrigante;. Bradamante, una vecchia massaia; Marfisa rimane ancora bizzarra, legge romanzi, e si pente d’esser stata guerriera e vorrebbe divenire cantatrice e ballerina. È una concezione ingegnosissima; l’ultima concezione cavalleresca. Filinoro, giovinotto indebitato, falso, vigliacco, zerbino, bello, incontra Marfisa, questa se ne innamora. Ruggiero, per rompere questo amorazzo, pensa di maritarla a Terigi, scudiere arricchito ed immarchesato. Marfisa, promessa a Terigi, corre sempre dietro a Filinoro, finché Terigi rompa il contratto. Ruggiero ricorre a Turpino, che propone di rinchiuder Marfisa in un monastero, in cui essa entra credendo di trovarvi Filinoro. Marfisa cade in convulsioni isteriche. Trova in [p. 175 modifica]un romanzo dell’abate Chiari che parecchie monache sono fuggite dal convento: fugge in Ispagna. Ruggiero le corre dietro. Marfisa incontra Filinoro trasformato in un giuocator di bussolotti, che dice male di Marfisa: Marfisa lo bastona. Sopraggiunge Ruggiero, Marfisa diviene divota e fa la monaca di casa; spia, sparla e vive ancora trent’anni.

La concezione è originale e magnifica. La Marfisa è caduta in tale dimenticanza che molti italiani ne ignorano l’esistenza. Ed è degna dell’oblio.

Carlo Gozzi non era mai uscito dal suo piccolo mondo: qualche marchese, qualche letteratuzzo, un caffè: una compagnia comica. La concezione è una montagna. L’esecuzione: Marfisa è una marchesa veneziana, Astolfo è un damerino veneziano: la concezione muore affogata nel suo piccolo spazio. A’ tempi di Gozzi viveva l’abate Chiari, ed erano rivali. Gozzi ha immaginato che il mondo moderno fosse il mondo dell’abate Chiari. Gasparo Gozzi era pieno di volontá ed è riuscito uno de’ piú colti scrittori del tempo. Carlo aveva un ingegno superiore: le sue commedie come concezione sono capolavori: ma non hanno il finito della forma; le sue commedie sono improvvisate e cosí Goldoni inferiore a lui d’ingegno ha lasciato un nome durevole e lui no. La Marfisa è l’abbozzo d’un poema epico. L’esecuzione è rimpicciolita, la forma è nulla.

Questo è l’ultimo poema cavalleresco.