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La sposa sagace/Atto V

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Atto V

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Atto IV Nota storica

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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Donna Barbara e Lisetta.

Lisetta. Io vi dirò da dove il male è derivato.

Io non ho detto nulla, Marian non ha parlato.
Ma se saper volete, vi parlerò sincera;
Tutto il male è venuto da quella tabacchiera.
Barbara. Qual tabacchiera?
Lisetta.   Quella che a Mariano donaste.
Che fosse conosciuta, allor non ci pensaste.
Ed egli che giudizio moltissimo non ha,
La mostra a questo e quello, per pompa e vanità.
È stata conosciuta da qualche servitore;
Moschin principalmente ne ha fatto del rumore.

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Se chiedono a Mariano, come l’ha avuta e donde,

Non sa dir: l’ho comprata; si perde e si confonde...
E se il padron la vede, son certa, son sicura,
Che gli fa il giuramento rompere a dirittura.
Certo, signora mia, fin che in man di Mariano
Resta la tabacchiera, il timor non è vano.
Onde per evitare qualche maggior periglio.
Levargli quella scatola, signora, io vi consiglio;
E se ricompensarlo vorrete in qualche cosa.
Non mancherà poi tempo d’essere1 generosa.
Barbara. Marian dove si trova?
Lisetta.   Or or se ne va via.
Barbara. Chiamalo.
Lisetta.   Sì signora. (La tabacchiera è mia).
(da sè, e parte)

SCENA II.

Donna Barbara, poi Lisetta.

Barbara. Veggo che facilmente tutto sarà scoperto,

Ma il fatto della notte vo’ almen tener coperto;
E se la tabacchiera non sa celar Mariano,
Dice bene Lisetta, leviamgliela di mano.
Vado pensando al modo di rimediare a tutto;
Ma più che vi rifletto, mi pare il caso brutto.
Scoprire è cosa facile, ch’io sono maritata,
Ma temo in cento modi restar pregiudicata.
Il padre certamente meco sarà sdegnato,
Da donna Petronilla acceso e stuzzicato.
Se le mie leggerezze a lei si rendon note,
Capace è di scemarmi gran parte della dote.
Ma io procurerò che qualche via si apra,
Per salvare ad un tempo i cavoli e la capra.

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Lisetta. Mariano or ora viene; badate ben, signora,

Fate trovar la scatola, e ch’ei la metta fuora.
Barbara. Per forza o per amore darla gli converrà.
Lisetta. Volete ch’io vi dica un’altra novità?
Barbara. Oh ciel! che cos’è stato?
Lisetta.   Il padre e la consorte
Entrambi sono usciti or or da queste porte.
Ella, per quello almeno che dicono le genti,
È andata a raccontare il caso ai suoi parenti.
Con animo di dire, con animo di fare,
Perchè alla sua parola non vuol pregiudicare.
Ed il padrone anch’esso, temendo qualche ingiuria,.
Dicono ch’egli è andato a prevenir la curia,
E vuol la protezione aver della Reggenza,
Per ripararsi in caso di qualche prepotenza.
In verità, signora, che ridere mi fanno.
Barbara. Tu ridi, perchè a te non dee venirne il danno;
Ma io non posso ridere veggendo il mio periglio,
E chiamar mi conviene i spiriti a consiglio.
Anche i tre cavalieri dunque saran partiti.
Lisetta. Signora no davvero. Son restati storditi,
Sentendo che di casa era uscito il padrone
E la signora anch’essa.
Barbara.   Ma sanno la cagione?
Lisetta. Nulla han finor saputo. Ad essi han fatto dire,
Che pria del lor ritorno non stessero a partire.
Forse che tutti due sperano al suo ritorno
Di superar l’impegno, pria che tramonti il giorno.
Il Duca, il Cavaliere continuano a giocare.
Barbara. E il Conte?
Lisetta.   Per la sala lo vidi a passeggiare.
Anzi mi ha domandato, se può venir da voi.
Barbara. No no, di’ che non venga; ci rivedrem dipoi.
Vammi a chiamare il Duca e il Cavaliere ancora;
Che favoriscan subito.

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Lisetta.   Subito, sì signora.

(in atto di partire)
Veggo venir Mariano. Fate che ve la dia.
Barbara. Me la darà senz’altro.
Lisetta.   (La tabacchiera è mia).
(da sè, e parte)

SCENA III.

Donna Barbara, poi Mariano.

Barbara. Sono in un grande imbroglio. Che gran giornata è questa!

Voglia il ciel che mi riesca quel che mi viene in testa.
Mariano. Che comanda, signora?
Barbara.   Dov’è la tabacchiera
Che ti donai stanotte?
Mariano.   Lisetta è una ciarliera.
Non le credete nulla.
Barbara.   Qui non c’entra Lisetta;
Voglio la tabacchiera, e spicciati, che ho fretta.
Mariano. In tasca io non ce l’ho. Signora, in verità,
L’ho chiusa, l’ho nascosta, nessun non la vedrà.
Barbara. Portala immantinente.
Mariano.   Signora mia, perchè
Vuol levarmi una cosa che ha regalato a me?
Forse non me la merito a far quello che ho fatto?
Barbara. Non replicar, Mariano, la voglio ad ogni patto.
Dammela colle buone; se non dal padre mio
Ti farò discacciare. Posso qualcosa anch’io.
Mariano. Eh cospetto di bacco! non me n’importa un fico.
Ecco la tabacchiera. So io quello che dico.
(dà la tabacchiera a donna Barbara)
Barbara. Teco in altra maniera farò quel che conviene.
Mariano. Ha ragione, signora, ch’io sono un uom dabbene.
Per altro questo è il modo di mettermi in cimento,
Di trar dietro alle spalle la fede e il giuramento.
Ma se mai per Lisetta...

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Barbara.   Vattene via, vien gente.

Mariano. Se mi fa questo torto...
Barbara.   Vattene, impertinente.
Mariano. Pazienza, quest’è il premio che a ben servir si aspetta.
Ma so donde proviene; maladetta Lisetta. (parte)

SCENA IV.

Donna Barbara, poi Lisetta.

Barbara. Levandogli la scatola a un male ho provveduto.

Ma con un don maggiore sarà riconosciuto.
Lisetta. Vengono i cavalieri; eh ben, signora mia,
La scatola?
Barbara.   L’ho avuta. (mostra la tabacchiera)
Lisetta.   Vuol ch’io la metta via?
Barbara. Mettila nel burò.
Lisetta.   Me la potria donare.
Barbara. E poi?
Lisetta.   Oh, non la vedono. (Vo’ farlo disperare).
Barbara. So che avrai più giudizio.
Lisetta.   Oh, non ve dubbio alcuno.
La serro nell armadio, non la vedrà nessuno.
Io non ne faccio pompa, non fo come Mariano.
(Morirà di veleno, se me la vede in mano). (da sè, e parte)

SCENA V.

Donna Barbara, poi il Duca ed il Cavaliere.

Barbara. Lisetta è quella sola, di cui posso fidarmi...

Eccoli; ad un cimento son costretta a provarmi.
Duca. Sono ai vostri comandi.
Cavaliere.   Son qui per obbedirvi.
Barbara. Favorite, signori; gran cose io deggio dirvi.

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Ma prima che il mio labbro vi sveli i suoi pensieri.

Vi prego istantemente, parlatemi sincenri.
Siete amici, o nemici?
Duca.   Perchè ciò mi chiedete?
Del Cavaliere amico forse non mi credete?
Cavaliere. Da che deriva il dubbio?
Barbara.   Ve lo dirò, signore,
Amici esser non sogliono due rivali in amore.
Cavaliere. È mio rivale il Duca?
Duca.   Rival mi è il Cavaliere?
Barbara. Sì, se ancor nol sapete, alfin si ha da sapere.
Cavalier, voi mi amate, mi ama il Duca non meno;
L’uno e l’altro di voi stringer mi brama al seno.
Chi al padre e chi alla madre spiegò le brame sue,
E son senza mia colpa promessa ad ambidue.
Quella col Cavaliere ha del cuor mio disposto;
Questi mi vuole unita col Duca ad ogni costo.
E tanto fra di loro si accesero di sdegno.
Che cercano ogni strada per sostener l’impegno.
Ad onta dell’amore che il cuor vi ha lusingato,
L’uno o l’altro di voi a cedere è forzato;
E di due pretendenti, cedendo alcun di loro,
Nella cession forzata vi va del suo decoro.
Una guerra perpetua vedrem fra queste soglie
Regnar per causa vostra fra il padre e fra la moglie.
Credendo ognun di voi soffrire un’ingiustizia,
Fra le vostre famiglie si accende inimicizia.
Ed io che senza colpa ritrovomi impegnata,
Sarò nell’avvenire da tutti abbandonata.
Deh cavalieri umani, per il comun riposo,
Unitevi nel fare un atto generoso.
Se altra via non sapete trovar per liberarmi,
Dite che lo faceste soltanto per beffarmi.
Non temete per questo che mal possa accadere;
La matrigna che mi odia, ne avrà tutto il piacere.

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Di me vuol liberarsi, credendomi apprezzata;

Giubilerà vedendomi derisa e beffeggiata.
E il genitor pur troppo timido per natura,
Cauto voi lo vedrete tacer per la paura.
Per me, vi do licenza di farmi ogni dispetto,
Pur troppo so d’avere in me più d’un difetto;
E in grazia di vedermi dal labirinto sciolta,
Dite ch’io non vi merito, ditemi sciocca e stolta.
Il cuor dall’amor vostro questa mercede attende.
Chi mi disprezza, io stimo, chi mi vuol sua, mi offende.
Duca. Il soddisfarvi in questo sì facile non credo.
Io sprezzar donna Barbara? L’adoro, e non la cedo.
Non può di voi disporre una matrigna ardita.
Sosterrò la ragione a costo della vita.
Cavaliere. Io vi amai da gran tempo, ma non ardia di dirlo.
Desidero un gran bene, e sentomi offerirlo;
Mi vien da chi dispone offerta quella mano,
E dovrei rinunziarla? No, lo sperate invano.
Barbara. Dunque che far pensate? (al Duca)
Duca.   Deh! non l’abbiate a sdegno.
Pensi don Policarpio a sostener l’impegno.
Cavaliere. S’egli della figliuola disponere volea,
L’arbitrio alla consorte lasciare non dovea.
Se donna Petronilla meco fermò il contratto.
Avrà il poter di farlo, saprà perchè l’ha fatto.
E se al marito a fronte femmina sol non basta,
Mi unirò seco io stesso contro chi a lei contrasta.
Duca. Orsù, ai vostri raggiri tronchisi ormai la strada,
Facciam le pretensioni decidere alla spada.
Cavaliere. Sì, la disfida accetto.
Duca.   Io vi precedo.
Cavaliere.   Andate.
Barbara. No, fermatevi, dico. (al Duca) No, Cavalier, restate.
Pria di partire, uditemi. Cosa vogl’io narrarvi,
Che se ragione avete, valerà a disarmarvi.

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Duca. Quel ch’è mio, non lo cedo; son risoluto in questo.

Cavaliere. Donna Barbara è mia, lo dico e lo protesto.
Barbara. Ambi ragione avete. Sua ciaschedun mi crede,
Ciascun serba i suoi dritti; e quel ch’è suo non cede.
Ma che direste voi, se fosse questo cuore
Molto prima impegnato a un terzo possessore?
Duca. Come potrà ciò darsi, se or vi marita il padre?
Cavaliere. Non lo saprian le genti? non lo sapria la madre?
Barbara. Orsù, siamo agli estremi, ed il celarsi è vano.
A voi ragion mi stimola di confidar l'arcano.
Ma nel svelarlo, intendo depositarlo in cuore
Di chi sa, di chi intende le legge dell’onore.
Siete due cavalieri, in cui non può ragione
Cedere bassamente l’impero alla passione.
Una figlia onorata, dal rio destino oppressa,
A voi fida l’onore, a voi fida se stessa.
Una che agli occhi vostri non fu d’amore indegna,
A renderle giustizia due cavalieri impegna.
È ver, se d’altro laccio vanto legato il cuore,
Meco dovria saperlo la madre e il genitore;
Ma che sperar poteva da un padre affascinato,
Dal cuor di una matrigna che mi fu sempre ingrato?
Chi lusingar potevami, che le nascesse in petto
Brama di collocarmi per onta e per dispetto?
E prevedendo ancora in lei cotal disegno,
Chi degli affetti miei potea cangiar l’impegno?
Fui d’altro amore accesa; l’amor mi ha consigliata.
L’occasion mi sedusse; la mano ho altrui legata.
Se dell’onor vi cale, se cavalier voi siete,
Custodite l’arcano. Ecco il mister. Leggete.
(Presenta ai due cavalieri la scrittura del Conte; essi l’osservano unitamente.)
Cavaliere. Duca?
Duca.   Amico?
Cavaliere.   Che dite?

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Duca.   L’avvenimento è bello.

Cavaliere. È decisa la lite.
Duca.   È inutile il duello.
Barbara. Che può sperare il cuore dai pretensori suoi? (a tutti due)
Duca. Dite voi, Cavaliere.
Cavaliere.   Lascio parlare a voi. (al Duca)
Duca. Qualor mi abbandonassi a quell’ardor ch’io sento,
Dovrei odiare il Conte, chiamarlo ad un cimento.
Ma l’onorato impegno a tollerar mi sprona,
L’error di bella donna si scorda e si perdona.
Barbara. Tanto sperar poteva da un cavalier pietoso.
Il vostro cuor, signore, sarà men generoso? (al Cavaliere)
Cavaliere. L’amore ed il puntiglio m’aveano acceso il petto.
Or se l’impegno è vano, vo’ superar l’affetto.
Se di me vi fidate, son cavalier d’onore.
Vi sarò, donna Barbara, amico e difensore.

SCENA VI.

Lisetta e detti.

Lisetta. Oh signora padrona, vi vengo ad avvertire

Che il padrone è tornato.
Duca.   Lasciatelo venire.
Barbara. E poi?
Duca.   Non dubitate.
Cavaliere.   Lo piglierem di fronte.
Barbara. Andiamo unitamente a ritrovare il Conte.
Duca. Vi preme di vederlo; si vede che l’amate.
Cavaliere. Vi preme consolarlo.
Barbara.   Non mi mortificate. (parie)
Duca. È semplice, meschina, non la mortifichiamo. (parte)
Cavaliere. Povera innocentina! c’insegna a quanti siamo. (parte)

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SCENA VII.

Lisetta, poi Mariano.

Lisetta. Quante diavolerie son nate in questo di.

Ma in somma delle somme, la tabacchiera è qui.
Eh ehm, signor Mariano. (chiamandolo dalla scena)
Mariano.   Che c’è? (corpo di bacco!)
Lisetta. Vuole restar servita di un poco di tabacco?
Mariano. Ladra, me l’hai rapita.
Lisetta.   Son giovane onorata;
Sì, me l’ho messa in testa, e alfin l’ho superata.

SCENA VIII.

Don Policarpio e detti.

Policarpio. Anche fra voi si grida. Sempre si fan rumori.

Ora siam tutti diavoli, padroni e servitori.
Mariano. Vo’ la mia tabacchiera. (a Lisetta)
Policarpio.   Che tabacchiera? parla.
(a Mariano)
Mariano. Fate che me la renda.
Lisetta.   (Piuttosto fracassarla).
Policarpio. Presto, la vo’ vedere. (a Lisetta)
Lisetta.   E ben, che cosa e’è?
Era di donna Barbara, e l’ha donata a me.
Mariano. A me l’avea donata.
Policarpio.   A te? per qual ragione?
Mariano. Perchè... (Uh, se potessi...)
Policarpio.   Confessami, briccone.
Lisetta. Sì, è un briccone, egli è vero2.
Mariano.   Tu mi farai parlare.
(a Lisetta)
Policarpio. Parla, vo’ saper tutto. (a Mariano)

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Mariano.   (Perchè andar a giurare?)

(da sè, arrabbiandosi contro lo stesso)
Policarpio. Quella scatola dunque?... (Che sì che l’indovino?)
(Che sia quella del Duca?) Eh, dove sei? Moschino.
(chiamando)

SCENA IX.

Moschino e detti.

Moschino. Signor.

Policarpio.   La tabacchiera... (a Mosch.) Vien qui... (a Lisetta)
Lisetta.   Che vuol vedere?
La tabacchiera è fatta come le tabacchiere. (parte)
Policarpio. Ti arriverò, briccona. Parla tu, scellerato. (a Mariano)
Mariano, Ah, non posso parlare.
Policarpio.   Perchè?
Mariano.   Perchè ho giurato, (parte)

SCENA X.

Don Policarpio e Moschino.

Policarpio. A scacciarli di casa convien ch’io mi riduca.

Dimmi, è quella la scatola che gli ha donato il Duca?
(a Moschino)
Moschino. Il Duca? Non signore. Del Duca io non so nulla.
Che cosa ha il signor Duca da far colla fanciulla?
Policarpio. Non è egli ch’è stato?
Moschino.   Sta notte? Signor no.
Policarpio. Sta notte?
Moschino.   Nol sapete?
Policarpio.   Povero me! nol so.
Narrami cosa è stato, narrami chi è venuto.
Moschino. Senza di me, signore, non l’avete saputo?
Policarpio. Io mi credea... ma sento... se non è stato quello.
Dunque chi sarà stato?...
Moschino.   Nè anche un po’ di cappello.
(guarda il suo cappello con disprezzo)
PP

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Policarpio. Che dici?

Moschino.   Il mio cappello è vecchio e logorato,
E son senza quattrini.
Policarpio.   E il zecchin?
Moschino.   L’ho mangiato.
Policarpio. Guidon, prendine un altro.
Moschino.   (Buona testa vi vuole).
(da sè)
Policarpio. Narrami quel che sai.
Moschino.   Ecco in poche parole.
Il conte d’Altomare nella notte passata
Venne da donna Barbara...
Policarpio.   Cosa fu?
Moschino.   L’ha sposata.
Policarpio. Sposar la mia figliuola? Di notte in casa mia?
Moschino. Ecco qui la padrona. (in alto di partire)
Policarpio.   Dove vai?
Moschino.   Vado via. (parte)

SCENA XI.

Don Policarpio, poi donna Petronilla.

Policarpio. Altro che darla al Duca! E se mia moglie il sa?

Io non lo dico certo.
Petronilla.   Signore, eccomi qua.
Parlato ho ai miei parenti, parlato ho a più persone,
E tutti unitamente mi han detto che ho ragione.
E senza che facciamo altre caricature,
Al Cavalier si sposi.
Policarpio.   Bene, si sposi pure.
Petronilla. L’accordate anche voi?
Policarpio.   Io sono indifferente.
Petronilla. Cosa può dire il Duca?
Policarpio.   Oh! non può dir niente.

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Petronilla. Dunque della ragione qualcun vi avrà informato.

Policarpio. Sì, di certa ragione son stato illuminato.
Il Duca, poverino, invano or la pretende.
Petronilla. Dunque l’avrà quell’altro.
Policarpio.   Quell’altro, ci si intende.
Petronilla. Signor, non vel diceva? Oh, io non fallo mai.
Quando dico una cosa.
Policarpio.   Oh, ne sapete assai.
Petronilla. Par che mi corbelliate, signor sposo garbato.
Policarpio. Corbellarvi? pensate. Sono io il corbellato.
Petronilla. Chiamiamo donna Barbara, facciam che si disponga.
Chi è di là? questa volta è van ch’ella si opponga.
Policarpio. No no, non vi è pericolo. Or mi sovviene a un tratto,
Ch’ella ha detto più volte: quello ch’è fatto, è fatto.
Petronilla. Che vuol dir?

SCENA XII.

Moschino e detti.

Moschino.   Mi comandi.

Petronilla.   Dov’è la di lui figlia?
(a Moschino, accennando don Policarpio)
Moschino. E di là nella camera, che parla e si consiglia.
Petronilla. Con chi?
Moschino.   Con tre signori che hanno pranzato qua.
Petronilla. Ci hanno dunque aspettato? Ci ho gusto in verità.
Chiamate donna Barbara, e dite al Cavaliere,
Ma che gli altri non sentano, che lo vorrei vedere.
(Moschino parte)
Ho piacer che vi siano i cavalieri ancora.
Per altro mi stupisco di codesta signora.
Che senza il genitore, e senza ch’io ci sia,
Ardisca con tre giovani star sola in compagnia.
Star lì senza custodia è una temerità.
Policarpio. Eh, vi sarà qualcuno che la custodirà.

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Petronilla. E chi può custodirla, se non ci siamo noi?

Ho piacer di saperlo.
Policarpio.   Sì, lo saprete poi.

SCENA ULTIMA.

Tutti.

Barbara. Ecomi qui, signora, eccoci tutti insieme.

Petronilla. Ho da dirvi a quattr’occhi qualcosa che mi preme.
Barbara. S’ella parlar mi vuole del marital contratto,
Parli liberamente. Già quel ch’è fatto....
Policarpio.   È fatto.
Petronilla. Bene, a parlare in pubblico non ho riguardo alcuno.
Non ho, quand’ho ragione, soggezion di nessuno.
Sopra di tal proposito sentii più di un parere,
E tutti hanno deciso a pro del Cavaliere.
Cavaliere. Piano, signora mia, che ho da parlare anch’io.
Voi avete ragione, ma il Duca è amico mio.
Ch’egli di me si lagni, per certo io non concedo.
(a donna Petronilla)
Donna Barbara è vostra, signore, io ve la cedo.
(al Duca)
Petronilla. Come! a me. Cavaliere, si fa così gran torto?
Duca. L’offesa ad una dama, signore, io non sopporto.
Me la concesse il padre, è ver, coi labbri suoi;
Ma io per amicizia ve la rinunzio a voi. (al Cavaliere)
Petronilla. Il Duca è un uom d’onore. Barbara è vostra sposa.
(al Cavaliere)
Cavaliere. Anch’io so praticare un’azion generosa.
Corrispondo all’amico col più sincero impegno;
Ditemi, se la sposo, un cavaliere indegno.
Duca. Un’anima onorata non cede in tal cimento.
L’abbandono per sempre, e impegno il giuramento.
Policarpio. (Ci scommetto la testa, che il Duca e il Cavaliere
Sanno ch’è maritata! Stiamo un poco a vedere). (da sè)

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Petronilla. Ecco, signora mia, ecco il grazioso effetto

Del suo brillante spirito, del suo bell’intelletto.
A far conversazione coi cavalien unita,
La sua mente sublime alfine han saporita.
Tanto di lei rimase alcuno stupefatto,
Che tutti l’abbandonano.
Policarpio.   (Io rido come un matto).
(da sè)
Petronilla. E voi non dite nulla? (a don Policarpio)
Policarpio.   Ora che dir non so.
Aspetto un certo passo, e allora parlerò.
Petronilla. Parlerò io frattanto. Signora mia garbata,
Cominci in avvenire a viver ritirata;
Ci va dell’onor nostro lasciar che questo e quello
Di voi fra queste mura si serva di zimbello.
Per voi non vo’ privarmi di mia conversazione,
Ne vo’ che mi tenghiate per questo in soggezione.
Provai di maritarvi: se non ci son nuscita,
Andrete in un ritiro pel corso della vita.
Policarpio. (Or che ci va, sta bene). (da sè)
Barbara.   Ecco, signori miei.
L’ora che vi ho veduto, quasi maledirei.
(al Duca ed al Cavaliere)
Petronilla. Sciocca!
Duca.   Amico, a dir vero, provo un dolore interno,
Che mi farà per essa vivere in un inferno. (al Cavaliere)
Povera signorina! per noi perde uno stato.
Pagherei mille doppie a non aver giurato.
Cavaliere. Un impegno d’onore non vuol ch’io mi ritratti,
Ma consolata almeno la voglio a tutti i patti.
Troviamole un marito.
Petronilla.   Sì, le occasion son pronte!
(con ironia)
Chi volete la pigli (’)?
(I) Ed. Zaita: Chi, volete, la piglia?

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Duca.   La può pigliare il Conte.

Policarpio. (Oh! ci siamo davvero). (da sè)
Conte. Signora, io non ardisco,
Ma la pietà mi move; se mi vuol, mi esibisco.
Barbara. No no, ch’io pigli il Conte, pericolo non c’è.
Policarpio. No no? Signora, adesso tocca parlare a me.
No no, non voglio il Conte? no no, diceste allora
Ch’egli è venuto in casa in questa notte ancora?
Quando che vi ha parlato, e quando vi sposò,
Ditemi, sfacciatella, diceste a lui no no?
Petronilla. Come! sposa in segreto? faceste un simil tratto?
Barbara. Non mi mortificate. Quello ch’è fatto, è fatto.
(con affettata modestia)
A voi chiedo perdono. Lo chiedo al genitore.
Commesso ho un mancamento. Lo dico a mio rossore.
Punitemi, che il merto; ma pria che mi punite,
Pria che mi condannate, le mie discolpe udite.
Se il cuor d’una matrigna....
Petronilla.   Altro sentir non voglio.
Ho capito abbastanza, conosco il vostro orgoglio.
Ite pur collo sposo dove vi guida il fato.
Se vi perdona il padre, per me vi ho perdonato.
Barbara. Dalla bontade vostra posso sperar, signore?...
(a don Policarpio)
Conte. Vostra figlia è consorte d’un cavalier d’onore.
Policarpio. È ver, non so che dire. Mia figlia ha fatto male,
Ma io, per dir il vero, son stato un animale;
Che dovea maritarla sino dal primo dì.
Ma la signora moglie...
Petronilla.   Orsù, basta così, (a don Policarpio)
Cavalieri, vi aspetto alla conversazione.
Non avrem quest’impiccio.
Duca.   Con vostra permissione.
Vi stimo, vi protesto tutti gli ossequi miei;
Ma se ho da dirvi il vero, io ci venia per lei.

[p. 551 modifica]
Petronilla. E me lo dite in faccia?

Cavaliere.   Il Duca è un uom sincero,
E anch’io, perchè son tale, vo’ palesarvi il vero.
Mi piacea donna Barbara, e se mei permettete,
Lascio d’incomodarvi.
Petronilla.   Al diavol quanti siete. (parte)
Policarpio. (Da galantuom ci ho gusto, e lo so io il perchè;
Farà per l’avvenire conversazion con me). (da sè)
Barbara. Signor, se il concedete, vorrei dirvene una.
Policarpio. Dite quel che volete.
Barbara.   Sapete ch’io son sposa.
Policarpio. Sì, le vostre prodezze sono abbastanza note.
Barbara. Se non andaste in collera, vi direi della dote.
Policarpio. No, non vi faccio un torto. Quello che ho destinato,
Benchè noi meritate, un dì vi sarà dato.
Barbara. Tanta bontà non merita, è ver, una figliuola
Che al suo dover mancando...
Mariano.   Signora, una parola.
Barbara. Che cosa vuoi, Mariano?
Mariano.   La vostra tabacchiera
Invece di Mariano l’avrà la cameriera?
Ed io, povero diavolo, sarò sì mal trattato?
Barbara. È giusto, che ti vegga tu pur ricompensato.
Da te conosco in parte la mia felicità.
Ecco dieci zecchini. (gli vuol dar una borsa)
Lisetta.   Signora, date qua.
(leva la borsa di mano a donna Barbara)
Non vo’ ch’egli mi creda di un animo sì avaro.
Gli do la tabacchiera, ed io terrò il danaro.
Mariano. Bella finezza in vero!
Policarpio.   Ah schiuma di bricconi!
Fuori di casa mia, nemici dei padroni.
Barbara. Signor, per dir il vero, sgridate con ragione.
Ho fatto quel che ho fatto, ancor per sua cagione.
Io non avrei ardito di unirmi ad un consorte,

[p. 552 modifica]
Se Marian non l’avesse condotto in queste porte.

Dopo l’error commesso, dopo quel passo audace,
Studiai per non scoprirlo di rendermi sagace.
La mia sagacitade so che non merta lode;
L’onestà, la prudenza, nemica è della frode.
Delle mie debolezze, degli error miei mi pento,
Domando al padre mio novel compatimento;
E lo domando a tutti, e con umil rispetto
Del pubblico perdono un contrassegno aspetto.

Fine della Commedia.


Note

  1. Ed. Zatta: Chi siate.
  2. Ed. Zatta: Sì, egli è un briccone, è vero.