Le Baccanti/Terzo episodio

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Terzo episodio

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Euripide - Le Baccanti (406 a.C./405 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Terzo episodio
Secondo stasimo Terzo stasimo
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Dal di dentro della reggia s’ode la voce di
dioniso
Ehi là!
Ehi là, Baccanti,
Baccanti, udite la voce mia?
i corifea
Qual evio sònito, qual evio sònito
giunge a riscuotermi? Donde partí?
dioniso
Ehi là! Ehi là!
La voce ancora levo io, di Sèmele,
di Giove prole!
ii corifea
Ehi là! Ehi là!
Nostro re, nostro re,
al nostro tíaso,
Bromïo, Bromïo, rivolgi il pie’!
Scossa di terremoto. Romba.

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tutto il coro
Come la terra scuotono i Numi!
Ahimè, ahimè!
Cadrà di Pènteo
la reggia al suolo presto in frantumi.
Sopra la casa piombò Diòniso!
i corifea
Fategli onore!
tutto il coro
Fategli onore!
Nuove scosse di terremoto: la reggia comincia a crollare.
i corifea
Veh! Le marmoree travi dagli ordini
crollano già!
Alzerà Bromio dentro la reggia
ben presto il grido dell’alalà!
dioniso
La face appressa fulminea rutila,
brucia, la reggia brucia di Pènteo!
Nuove scosse. Dalla tomba di Semele si levano altissime fiamme.

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corifea
Non vedi il fuoco? Mira di Sèmele
al sacro avello la fiamma attorno
guizzar, che un giorno
lasciar la folgore di Giove e il tuono!
coro
Prostrate al suolo le membra trepide,
prostrate al suolo, Mènadi! Il Nume
figlio di Giove, tutta in rovina
messa la reggia, qui s’avvicina!
Tutte le Baccanti si prostrano. Dalla reggia esce trionfante e volge il guardo su loro
dioniso
Come dunque, o lidie femmine, v’ha il terror cosí percosse,
che giacete al suol riverse? Certo udiste quali scosse
diede Bacco alla magione di Pentèo. Via, fate cuore,
via, sorgete; e dalle membra vada in bando quel tremore.
corifea
Come esulto, o delle bacchiche cerimonie somma luce,
nel vederti, io che rimasta m’ero sola, e senza luce!
dioniso
V’ha sgomento invaso il cuore, allorché me visto avete
tratto lungi, per cadere di Pentèo nelle segrete?

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corifea
Come no? Chi mi restava, se di te faceano scempio?
Ma com’è ch’ora sei libero? In poter t’avea quell’empio!
dioniso
Io da me, senza fatica, dalla carcere mi tolsi.
corifea
Non t’aveva ei dunque avvinti di catene entrambi i polsi? dioniso
Non potè’ neppur toccarmi: anche in ciò scornar lo seppi:
si nutrí d’illusïone, stringer me pensando in ceppi.
Nella stalla in cui mi chiuse, c’era un toro. Egli, di strambe
gli ravvolse, tutto ardendo di furore, e piedi e gambe:
ed i denti nelle labbra conficcavasi, e grondanti
di sudore avea le membra. Io, tranquillo, a lui davanti
mi sedevo, e lo guardavo. Giusto in quella Bacco arriva,
scuote i muri, e su la tomba di sua madre il fuoco avviva.
Come ciò vede, un incendio Pentèo crede che s’appigli
alla casa, e qua e là va correndo; ed ai famigli,
di portare acqua dà ordine. Mentre invano ognun s’ambascia,
egli immagina ch’io fugga; onde l’opera tralascia,
ed in casa, stretto il ferro, si precipita. Un fantasma
nella corte allora Bacco — Bacco almen parvemi — plasma.
Avventando colpi e colpi sopra questo egli si gitta;
e, credendo me sgozzare, l’aria solo ebbe trafitta.

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E di strazio anche piú amaro lo colpí Bacco alla fine;
rovesciò la reggia al suolo: vedi, un mucchio è di rovine;
ben l’avermi stretto in ceppi gli dovè saper di sale.
Stanco infine, lascia il brando, s’abbandona: ch’ei mortale
con un Nume osò combattere. Io frattanto uscii sicuro
dalla casa, e a voi qui giunsi: di Pentèo poco mi curo.
Ma mi sembra udire un passo risonar dentro. Uscirà
a momenti nel vestibolo. Non è pago? Che vorrà?
Io per me, se pure ei giunga pieno d’impeto selvaggio,
sarò calmo: ché frenarsi dee sapere l’uomo saggio.

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Esce dalla reggia, tra fiaccato e iracondo
penteo
Atroce smacco! Lo straniero, avvinto
or ora di catene, è a me sfuggito!
Vede Diòniso.
Ehi, ehi!
Eccolo, è qui. Che avviene? Sei fuggito,
e innanzi all’atrio mio ti mostri ancora?
Si avventa su lui.
dioniso
Fermo! Deponi l’ira, e a calma torna.
penteo
Come hai spezzati i lacci e sei fuggito?
dioniso
Non ti dissi che alcun sciolto m’avrebbe?

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penteo
Chi mai? Nuovi discorsi ognor mi parli
dioniso
Chi all’uom largisce la pampinea vite.
penteo
Tutte serrate sian le porte in giro.
dioniso
E che? Gli Dei non valicano i muri?
penteo
Saggio, sei, saggio, tranne in quel che devi!
dioniso
In quel che devo appunto, io saggio sono.
Odi or tu le parole di quell’uomo
che a te, dal monte, a dar novelle giunge;
e fa senno: io non fuggo: io qui rimango.
Dalla via che guida al Citerone giunge correndo un bifolco.
bifolco
Pentèo che reggi la tebana terra,
or or lasciato ho il Citerone, dove
fulge perenne scintillio di neve.

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penteo
Per qual cagione a favellarmi giungi?
bifolco
Io le Baccanti venerande vidi,
che nel delirio vinte, saettavano
lungi da questo suol le bianche membra;
e a te, Signore, annunzio, e alla città
che incredibili gesta, e delle fole
piú portentose compiono. — Ma dimmi,
devo tutto narrar liberamente
ciò ch’io lí vidi, o i detti miei velare?
I tuoi súbiti affetti, o re, pavento,
e l’umor tuo troppo regale e acerbo.
penteo
Parla: a niun patto offesa io ti farò:
e quante narrerai piú meraviglie
delle Baccanti, tanto piú la pena
scontar dovrà chi lor tali arti apprese.
bifolco
Una mandra di buoi guidata avevo
poc’anzi al sommo d’una rupe. Il sole
scagliava sulla terra ardenti i raggi.
E tre schiere di femmine vid’io.
Guida è alla prima Autònoe, tua madre

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Agave alla seconda, Ino alla terza.
Al sonno abbandonate avean le membra,
tutte, poggiate alcune alla frondosa
bassa rama d’un pino, altre reclino
sopra foglie di quercia aveano il capo
compostamente; e non, come tu dici,
ebbre, fra coppe e strepito di flauti,
di voluttà segrete invano in traccia
per la foresta. Ora, tua madre udí
il muggito dei buoi. Fra le Baccanti
si levò, e gridò che dal sopore
scuotan le membra. Ed esse, dalle ciglia
scacciato il greve sonno, in pie’ balzarono,
giovani e vecchie e vergini non dome,
a meraviglia costumate. E prima
sciolsero giú per gli omeri le chiome;
e a quelle che slacciate avean le nebridi,
ricomposero i nodi; e tutte ai velli
variopinti fecero corone
di serpi che lambiano a lor le gote.
E quante ancor fresche di parto, prive
dei lor pargoli, gonfie avean le mamme,
stringendo al seno, fra le braccia, un daino,
od i selvaggi cuccioli d’un lupo,
di bianco latte lo nutriano; e al capo
ghirlande si ponean di quercia, d’ellera,
di fiorito smilace. E, in pugno stretto
alcuna il tirso, percotea la rupe,
e polle di fredda acqua ne sgorgavano:
con la ferula un’altra il suol batteva,
e spicciar vino ne faceva il Dio;
e quante brama avean di puro latte,
graffiando il suolo con le somme dita,

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ne attingevano; e giú dai tirsi d’ellera
stillavano di miel rivoli dolci.
Sí, che se fossi stato lí, se avessi
visto, con preci avvicinato avresti
il Nume ch’or di vilipendio cuopri.
Noi, bifolchi e pastori, ci adunammo,
parlammo, contendemmo. Ed uno, pratico
della città, di pronto eloquio, disse:
«O voi che in queste sacre alpestri piagge
dimora avete, ché non si distoglie
la madre di Pentèo dai riti bacchici,
per ingraziarci il nostro re?» Ci parve
che bene egli parlasse, e ci appiattammo
tra i cespugli e le frondi. Or, giunta l’ora
di celebrare l’orge, i tirsi scossero,
Bacco invocando ad alte grida, il figlio
di Giove, Bromio. E insieme risonò
ogni monte, ogni fiera; ed era tutto
un avventarsi, un correre. Vicino
Agave a me passò nella sua corsa.
Per afferrarla, dal cespuglio io balzo
dove mi rimpiattavo; ed ella grida:
«O mie cagne veloci, ad assalirci
son venuti questi uomini: seguitemi,
seguitemi: e le man’ coi tirsi armate!»
Con la fuga evitammo che le Mènadi
ci facessero a brani. Esse piombarono
sopra le greggi che pasceano l’erba,
senz’arme in pugno: e lí, questa vedevi
in due squarciare una mammosa vacca
muggente; l’altra lacerare a brani
a brani le giovenche: e fianchi e bifidi
zoccoli su e giú lanciar vedevansi,

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e sanguinanti penzolar dai rami.
E i tori vïolenti, avvezzi al rabido
cozzo dei corni, al suol giacean fiaccati,
tratti giú dalle mani innumerevoli
delle fanciulle; e in men che tu le palpebre,
o re, non serri, fatti erano in pezzi.
Corser poi come uccelli alzati a volo
pei bassi campi che lunghesso l’Àsopo
maturano ai Tebani il pingue grappolo.
E in Isia, e in Eritría, che sotto il giogo
del Citerone sorgono, piombando
come nemiche, tutto a sacco posero.
Dalle case rapiano i pargoletti;
e quanto si ponean sopra le spalle,
o bronzo o ferro, senza alcun legame
vi adería, né cadea sul negro suolo.
E portavano fuoco sopra i riccioli,
né le bruciava. — I terrazzani corsero
furïosi sull’orme delle Mènadi;
e fu, signore, un orrido spettacolo:
ché di lor sangue tingere le cuspidi
non potevano questi; e quelle, i tirsi
scagliando, li ferivan, li fugavano,
esse donne: ma un Dio le soccorreva.
Poscia tornâr novellamente ai fonti
che per esse sgorgar faceva il Nume,
e detersero il sangue; e da lor gote
lo stillante sudor lambiano i serpi.
Questo Dèmone dunque accogli, o re,
qual ch’egli sia, nella città: ché sommo
è in tutto; ed ai mortali, a quel che dicono,
donò la vite che sopisce il duolo.

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E dove non è vino non è amore;
né alcun altro diletto hanno i mortali.
corifea
Dire al sovrano libere parole
mi fa sgomenta. E pure io parlerò:
A niun dei Numi è inferïor Dïòniso.
penteo
Presto divamperà questo delirio
delle Baccanti come un fuoco, a grande
vituperio dell’Ellade!
Ad un messo.
                                        Or tu, corri
presto alla porta Elettra. E che s’adunino
tutti gli opliti imponi, e quei che inforcano
i corsieri veloci, e quei che imbracciano
scudi leggeri, e risonar degli archi
fanno le corde. Troppa onta sarebbe
quanto or soffriamo sofferir da femmine.
dioniso
Pentèo, tu m’odi e ascolto non mi dài.
Ma, sebben tu m’offendi, io t’ammonisco
a non lottar col Nume, e a star tranquillo.
Bromio non mai sopporterà che tu
dall’orge alpestri le Baccanti scacci.

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penteo
Non vo’ consigli! Ai ceppi sei fuggito:
sii cauto: o ch’io legare ancor ti faccio.
dioniso
Meglio che iroso calcitrare al pungolo,
io, mortale, offrirei vittime al Nume.
penteo
Glie ne offrirò: tra i gioghi alpestri: molto
femmineo sangue, che si sparga degno.
dioniso
Fuggir dovrete! e a vostra onta, coi tirsi
frangeran le Baccanti i bronzei scudi.
penteo
Mal c’imbattemmo in questo forestiero,
che tacer non saprà, se pur l’uccidi.
dioniso
mutando a un tratto piglio e intonazione: benevoloe ironico.
Brav’uomo, ancor, se vuoi, tutto s’accomoda.

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penteo
Come? Servendo chi servir mi deve?
dioniso
Io qui, senz’arme, condurrò le femmine.
penteo
Ahi! Contro me qualche tranello macchini!
dioniso
Quale? Se vo’ con l’arte mia salvarti!
penteo
Portatemi qui l’armi; e tu sta’ zitto.
dioniso
Ehi!
Brami nei monti insiem vederle accolte?
penteo
Piú che ogni cosa; e ne darei molto oro.

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dioniso
Come ti colse questa ardente brama?
penteo
Ebbre vederle mi sarebbe amaro...
dioniso
Amaro, e dolce ti saria vederle?
penteo
Sí, nascosto, in silenzio, fra gli abeti.
dioniso
Ti sapranno scoprire anche nascosto.
penteo
Sí, dici bene. E allora, a viso aperto.
dioniso
Vuoi ch’io ti guidi? Accingiti al cammino.

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penteo
Guidami, presto! Non perdiam piú tempo.
dioniso
Pepli di bisso alle tue membra or cingi.
penteo
Come? Sono uomo, e devo sembrar femmina?
dioniso
Se ti scopron per uomo, esse t’uccidono.
penteo
Dici bene, sei fino, ormai l’ho visto.
dioniso
Dïòniso mi die’ questa finezza.
penteo
Travestirmi da donna? Io n’ho vergogna.

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dioniso
Veder dunque le Mènadi non brami?
penteo
Consigli bene, tu; ma come fare?
dioniso
Entriamo nella reggia, ed io ti acconcio.
penteo
Acconciarmi, tu dici? e in che maniera?
dioniso
La chioma pria sugli omeri ti sciolgo.
penteo
E qual foggia di veste mi porrai?
dioniso
Un peplo sino al pie’: bende sul capo.

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penteo
Quale altra veste a queste aggiungerai?
dioniso
D’un daino il pinto vello, e in pugno il tirso.
penteo
Mai non indosserò veste da femmina.
dioniso
Lotta allor con le donne, e sangue effondi.
penteo
È ver. Prima a spiare andar conviene.
dioniso
Meglio è ciò, che cercar male con male.
penteo
Ma non vo’ che i Cadmèi per via mi scorgano.

[p. 78 modifica]

dioniso
Per vie deserte andremo: io sarò guida.
penteo
Tutto val meglio ch’essere ludibrio
delle Baccanti. Entriamo nella reggia,
e penserò quello che far convenga.
dioniso
Fa’ pure. Pronto per mia parte io sono.
penteo
Entro allora. O con l’arme indi uscirò,
o seguirò gli ammonimenti tuoi.
Entra nella reggia.
dioniso
L’uomo caduto è nella rete, o femmine!
Andrà fra le Baccanti, e sconterà
la colpa con la morte. A te, Dïòniso,
poi che lungi non sei, forne vendetta.
Lieve mania prima in lui poni, e sviagli
la mente: ché vestir femminei pepli
mai non vorrà, finché lo assiste il senno;
ma se dal senno lungi lo sospingi,

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le indosserà. Quei ch’era già terribile
pel suo piglio minace, io vo’ che, tratto
per la città, sotto femminee spoglie,
sia ludibrio di Tebe. Ora gli vado
ad adattar le vesti ond’ei recinto
scenderà nell’Averno, dalle mani
di sua madre sgozzato. E apprenderà
che il figliuolo di Giove, che Dïòniso,
fra i Numi è il piú benigno e il piú terribile.
Entra nella reggia.