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Le Grazie (1835)

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Ugo Foscolo

1812 Indice:Opere scelte di Ugo Foscolo II.djvu Poesie letteratura Le Grazie Intestazione 5 marzo 2017 75% Da definire

Esperimento di traduzione dell'Iliade di Omero Considerazioni sulla poesia lirica
Questo testo fa parte della raccolta Scelte opere di Ugo Foscolo


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LE GRAZIE

FRAMMENTI D’INNI1

A

CANOVA


Cantando, o Grazie, degli eterei pregi
Di che il Cielo v’adorna, e della gioia
Che vereconde voi date alla terra,
Belle Vergini, a voi chieggo l’arcana
Armoniosa melodia, pittrice5
Della vostra beltà, sì che all’Italia

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Afflitta da regali ire straniere
Voli improvviso a rallegrarla il carme.
     Nella convalle fra gli aerei poggi
Di Bellosguardo, ov’io, cinto d’un fonte10
Limpido fra le quete ombre di mille
Giovinetti cipressi, alle tre Dive
L’ara inalzo, e un fatidico laureto
(in cui men verde serpeggia la vite)
La protegge di tempio; al vago rito15
Vieni, o Canova, e agli Inni. Al cor men fece
Dono la bella Dea che in riva d’Arno
Sacrasti alle tranquille arti custode;
Ed ella d’immortal lume, e d’ambrosia
La santa immago sua tutta precinse.20
Forse (o che io spero) artefice di Numi
Nuovo meco darai spirto alle Grazie
Ch’or di tua man sorgon dal marmo. Anch’io
Pingo, e spiro a’ fantasmi anima eterna,
Sdegno il verso che suona, e che non crea;25
Perchè Febo mi disse: Io Fidia primo
Ed Apelle guidai colla mia lira.
     Eran l’Olimpo, e il Fulminante, e il Fato,
E del tridente Enosigeo tremava
La genitrice Terra. Amor degli astri30
Pluto feria, nè ancor v’eran le Grazie.
Una Diva scorrea lungo il creato
A fecondarlo, e di natura avea

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L’austero nome: tra Celesti or gode
Di cento troni, e con più nomi ed are35
Le dan rito i mortali, e più le giova
L’inno die bella Citerea l’invoca.
Perchè clemente a noi, che mirò afflitti
Travagliarci, e adirati un di la santa
Diva all’uscir de’ flutti, ove s’immerse40
A ravvivar la gregge di Nereo,
Appari colle Grazie: e le raccolse
L’onda Jonia primiera, onda che amica
Del lito ameno, e dell’ospite musco
Da Citera ogni dì vien desiosa45
A’ materni miei colli. Ivi fanciullo
La Deità di Venere adorai.
Salve Zacinto, all’Antenoree prode
De’ santi Lari Idei ultimo albergo
E de’ miei padri; darò i carmi, e l’ossa,50
E a te i pensier, che piamente a queste
Dee non favella chi la patria obblia
Sacra città è Zacinto! Eran suoi templi,
Era ne’ colli suoi l’ombra de’ boschi
Sacri al tripudio di Diana, e al coro:55
Nè ancor Nettuno al reo Laomedonte
Muniva Ilio di torri inclite in guerra.
Bella è Zacinto! A lei versan tesori
L’angliche navi, a lei dall’alto manda
i più vitali rai l’eterno Sole:60

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Limpide nubi a Lei Giove concede,
E selve ampie d’ulivi, e liberali
I colli di Liéo. Rosea salute
Spirano l’aure, dal felice arancio
Tutte odorate, e dai fiorenti cedri.65
Tacca splendido il mar, poiché sostenne
Sulla conchiglia assise, e vezzeggiate
Dalla Diva le Grazie, e a sommo il flutto.
Quante alla prima prima aura di zeffiro
Le frotte delle vaghe api prorompono,70
E più e più succedenti invide ronzano
A far lunghi di sè aerei grappoli,
Vanno aliando su’ nettarei calici.
E del mele futuro in cor s’allegrano;
Tante a fior dell’immenso radiante75
Ardìan mostrarsi a mezzo il flutto ignude,
Le amorose Nereidi oceanine,
E a drappelli agilissime seguendo
La gioia alata degli Dei foriera,
Gittavan perle; dell’ingenue Grazie80
Il bacio le Nereidi sospirando.
Poi come l’orme della Diva, e il riso
Delle vergini sue fer di Citera
Sacro il lito, un’ignota violetta
Spuntò al piè de’ cipressi, e d’improvviso85
Molte purpuree rose amabilmente
Si cangiarono in candide. Fu quindi

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Religione di libar col latte
Cinto di bianche rose, e cantar gl’inni
Sotto a’ cipressi; e d’offerire all’are90
Le perle, e il fiore messaggier d’aprile.
L’una tosto alla Dea col radiante
Pettine asterge mollemente, e intreccia
Le chiome dell’azzurra onda stillanti;
L’altra, sorella a Zeffiri, consegna95
A rifiorirle i prati a primavera
L’ambrosio umore, onde è irrotato il seno
Della figlia di Giove; vereconda
La terza ancella ricompone il peplo
Sulle membra divine, e le contende100
Di que’ selvaggi attoniti al desio.
Non preghi d’inni, o danze d’Imenei,
Ma di veltri perpetuo l’ululato
Tutta l’isola udìa, e un suon di dardi;
E gli uomini sul vinto orso rissosi,105
E de’ piagati cacciatori il grido.
Cerere invan donato avea l’aratro
A que’ feroci, invan d’oltre l’Eufrate
Chiamò un dì Bassareo, giovane Dio,
A ingentilir di pampini le balze;110
Il pio stromento irrugginia su’ brevi
Solchi sdegnato; divorata, innanzi
Che i grappoli novelli imporporasse
A’ rai d’autunno, era la vite; e solo
Quando apparian le Grazie i predatori115

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L’arco e il terror deponeano ammirando.
Con mezze in mar le rote iva frattanto
Lambendo il lito la conchiglia, e al lito
Pur colle braccia la spingean le molli
Nettunine. Spontanee s’aggiogarono120
Alla biga gentil due belle cerve
Che ne’ boschi Dittei, schive di nozze;
Cinzia a’ freni educava, e, poi che dome
Aveale a’ cocchi suoi, pasceano immuni
Da mortale saetta. Ivi per sorte125
Vagolando ribelli eran venute
Le avventurose, e corsero ministre
Al viaggio di Venere. Improvvisa
Iri, che siegue i Zeffiri col volo,
S’assise auriga, e drizzò ’l corso all’Istmo130
Del laconico paese. Ancor Citera
Del golfo intorno non sedea regina:
Dove or miri le vele alte sull’onde,
Pendea negra una selva, ed esigliato
N’era ogni Dio da Pigli della Terra135
Duellanti a predarsi; i vincitori
D’umane carni s’imbandian convito.
Videro il cocchio, e misero un ruggito
Palleggiando la clava. Al petto strinse
Sotto il suo manto accolte le gementi140
Sue giovanette, e, o selva, ti sommergi
Venere disse; e fu sommersa. Ahi! tali
Forse eran tutti i primi avi dell’uomo;

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Quindi in noi serpe, miseri un natìo
Delirar di battaglie; e se pietose145
Noi placano le Dee, cupo riarde
Ostentando trofeo l’ossa fraterne:
Ch’io non le veggia almen or che in Italia
. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
Fra le messi biancheggiano insepolte.
Però che quando nell’ascrea convalle150
Disfrenando le tartare puledre
Marte afflisse que’ fiori, e le sacrate
Ossa de’ vati profanò un superbo
Nepote d’Ottomano, allor l’Italia
Fu giardino a que’ fiori, e qui lo stuolo155
Fabbro dell’aureo mel pose sua prole
Il felice alvear. Nè le Febee
Api (benché le altre api abbian crudeli)
Fuggono i lai dell’invisibil Ninfa,
Che, ognor delusa d’amorosa speme,160
Pur geme fra le quete aure diffusa,
E il suo alber nemico ama, e richiama;
Tanta dolcezza infusero le Grazie
Per pietà della Ninfa alle sue voci
Che le lor api immemori dell’opre165
Ozïose in Italia odono l’eco
Che al par de’ carmi fe’ dolce la rima.
. . . . . . . . . . . . . .

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. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
Novella preda a’nostri liti addussero
Vittoriosi i zeffiri sull’ale,
E or fra’ cedri al suo talamo imminenti170
D’ospite amore, e di tesori industri
Questa gentil Sacerdotessa educa.
. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
Come quando più gaio Euro provoca
Sull’alba il queto Lario, e a quel susurro
Canta il nocchiero, allegrami i propinqui175
Liuti, e molle il flauto si duole
D’innamorati giovani, e di Ninfe
Sulle gondole erranti; e dalle sponde
Risponde il pastorei colla sua piva.
Per entro i calli rintronano i corni;180
Terror del cavriol, mentre in cadenza
Di Lecco il maglio, domator del bronzo,
Tuona dagli antri ardenti, stupefatto
Pende le reti il pescatore, ed ode.
Tal dell’arpa diffuso erra il concento185
Per la nostra convalle, e mentre posa
La sonatrice ancora odono i colli.
Già del piè, delle dita, e dell’errante
Estro, e degli occhi vigili alle corde
Ispirata sollecita le note190
Che fingon come . . . . . .

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Agli astri, all’onda eterna e alla natante
Terra per l’Oceàno, e come franse
L’uniforme creato in mílle volti
Co’ raggi e l’ombre, e il ricongiunse in uno195
E i suoni all’aere, e diè i colori al sole;
E l’alterno continuo tenore
Alla fortuna agitatrice e al tempo,
E che le cose dissonanti insieme
Rendan concento d’armonia divina200
Rinnalzino le menti oltre la terra.
Or le recate, o Vergini, i canestri
E le rose, e gli allori a cui materni
Nell’ombrifero Pitti irrigatori
Fur gli Etruschi silvani a far più vago205
Il giovin seno alle mortali Etrusche,
Emule d’ avvenenza, e di ghirlande;
Soave affanno al pellegrin se inoltra
Improvviso ne’ lucidi teatri;
E quell’immensa voluttà del canto,210
Ed errare un desio dolce d’amore
Mira ne’volti femminili, e l’aura
Pregna di fiori gli confonde il cuore.
Recate insieme o vergini, le conche
Dell’alabastro, provvido di fresca215
Linfa, e di vita ahi! breve ai giovanetti
Gelsomini e alla mammola dogliosa.

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. . , . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
Leggiadramente d’un ornato ostello
Che a Lei d Arno futura abitatrice2,
I pennelli posando, edificava220
Il bel Fabbro d’urbino, esce la prima
Vaga mortale,3 e siede all’ara e il bisso
Liberale acconsente ogni contorno
Di sue forme eleganti, e fra il candore
Delle dita s’avvivano le rose,225
Mentre accanto al suo petto agita l’arpa;
Scoppian dall’inquiete aeree fila,
Quasi raggi di sol rotti dal nembo
Gioia insieme e pietà, poiché sonanti
Rimembrali come il Ciel l’uomo creasse230
Al diletto e agli affanni, onde gli fia
Librato e vario di sua vita il volo;
E come alla virtù guidi il dolore;
E il sorriso, e il sospiro errin sul labbro
Delle Grazie; e a chi son fauste e presenti,235
Dolce in cuore ci s’allegri, e dolce gema.
Pari un concento, se pur vera è fama,

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Un dì Aspasia tessea lungo l’Ilisso.
Era allor delle Dee sacerdotessa,
E intanto al suono Socrate libava240
Sorridente, a quell’ara, e col pensiero
Quasi ai sereni dell’Olimpo alzossi.
Quinci il Veglio mirò volgersi obliqua
Affrettando or la via su per le nubi
Or ne’ gorghi Letei precipitarsi245
Di Fortuna la rapida quadriga
Da viventi inseguita. E quel pietoso
Gridò invano dall’alto: a cieca duce
Siete seguaci, o miseri, e vi scorce
Dove in bando è pietà, dove il Tonante250
Più adirato le folgori abbandona
Sulla timida terra. O nati al pianto
E alla fatica, se virtù vi è guida,
Dalla fonte del duol sorge il contento.
Ah! ma nemico è un’altro Dio di pace255
Più che fortuna, e gl’innocenti assale.
Ve’ come l’arpa di costei sen duole.
Duolsi che a tante verginelle il seno
Sfiori, e di pianto in mezzo alle carole
Insidioso Amor bagna i lor occhi.260
. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
Date principio: o giovinetti, al rito,

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E dai festini della sacra soglia
Dilungate i profani. Ite insolenti
Genii d’Amore, e voi livido coro
Di Momo, e voi che a prezzo Ascra attingete.265
Qui nè oscena malìa nè plauso infido
Può, nè dardo attoscato: oltre quest’ara
Cara al volgo e a’ tiranni ite profani.
. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
Con elle
Qui dov'io canto * Galileo sedea270
. . . . . . . . a spiar l’astro4.
Della loro regina, e il disviava
Col notturno rumor l’acqua remota
Che sotto ai pioppi della riva d’Arno
Furtiva e argentea gli volava al guardo.275
Qui a lui l’Alba, la Luna e il sol mostrava
Gareggianti di tinte, or le serene
Nubi sulle cerulee Alpi sedenti,
Ora il piano che . . . . . . alle tirrene
Nereidi, immensa di città e di selve280

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Scena; e di templi e d'arator beati,
Or cento colli, onde Appennin corona
D’ulivi e d’antri, e di marmoree ville
L’elegante Città, dove con Flora
Le grazie han serti, e amabile idioma.




Note

  1. Questi versi dettati con bella varietà e vaghezza di stile, e in cui le greche immagini delle quali si adornano, sono certamente assai vive, e vestono spesso d’un velo trasparentissimo qualche storica o morale verità, appena ci toccano in paragone de’ sentimenti passionali, che loro quà e là si frammischiano, e di cui solo prevale in noi l’impressione. Non puossi per altro a meno di non confessare che talvolta le immagini sono così animate dal sentimento, che non solo ne siamo commossi, ma vi ci affezioniamo come a depositarie fedeli de’ più intimi secreti della nostr’anima. Peccato che non abbiamo finora di questi Inni che i pochi frammenti che pubblichiamo, e che sono già noti!.
  2. Nobil donna fiorentina che abita una casa di cui architetto fu Raffaele.
  3. Introduce nell’inno come sacerdotesse tre belle ed illustre donne viventi.
  4. Quivi Galileo scoperse i satelliti della Luna.