Le Mille ed una Notti/Storia del cieco Baba Abdalla
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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STORIA
DEL CIECO BABA-ABDALLA.
«— Commendatore de’ credenti, io nacqui a Bagdad, con alcuni beni che dovea ereditare da’ miei genitori, morti entrambi a pochi giorni di distanza l’un dal l’altro. Sebbene mi trovassi in età non molto avanzata, non ne usai nondimeno da giovinastro, che li avrebbe scialacquati in poco tempo in inutili spese e negli stravizzi; ma, per lo contrario, nulla tralasciai onde accrescerli mediante la mia industria, le cure e le fatiche, alle quali volli dedicarmi. Finalmente, era divenuto abbastanza ricco per possedere io solo ottanta cammelli, che noleggiava ai mercatanti delle carovane, e mi rendevano grosse somme ad ogni viaggio ch’io faceva nelle diverse parti dell’estensione dell’impero di vostra maestà, dove li accompagnava.
«In mezzo a tale prosperità e con immenso desiderio di vie maggiormente arricchire, un giorno che tornava scarico da Balsora co’ miei cammelli colà condotti carichi di merci d’imbarco per l’India, e li facea pascere in un luogo molto lontano dall’abitato, dove avevami fatto fermare l’ottimo pascolo, un dervis, che andava a piedi a Balsora, mi s’accostò, e si pose a sedermi vicino per riposare. Gli domandai d’onde venisse e dove andasse; egli mi fece le medesime interrogazioni, e soddisfatti ch’ebbimo entrambi alla reciproca curiosità, mettemmo in comune le nostre provvisioni e mangiammo insieme.
«Facendo il nostro pasto, dopo esserci intertenuti di varie cose indifferenti, il dervis mi disse, che in certo luogo poco lontano da quello nel quale ci trovavamo, egli sapeva esistere un tesoro pieno di tante ricchezze, che quand’anche si avessero caricati i miei ottanta cammelli dell’oro e delle gemme che se ne poteano cavare, non sarebbe quasi parso che nulla se ne fosse toccato.
«Quella grata notizia mi sorprese ad un tempo e m’incantò, e la gioia che ne provai fece si che non sapessi più contenermi. Non credeva il dervis capace d’ingannarmi; talchè me gli gettai al collo, dicendo: — Buon dervis, ben veggo che vi curate poco de’ beni del mondo; laonde a che cosa può mai servirvi la cognizione di tale tesoro? Voi siete solo, e non potete asportarne che tenuissima parte. Insegnatemi dov’è, ed io ne caricherò i miei ottanta cammelli, e ve ne regalerò uno, in ricompensa del bene e del piacere che mi avrete procurato.—
«Offeriva poca cosa, è vero, ma era molto, a quanto mi pareva, riguardo all’eccessiva avarizia ch’erasi di repente impossessata del mio cuore, dopo ch’egli avevami fatto quella confidenza; e già risguardava i settantanove carichi che mi sarebbero rimasti, quasi come un nulla in paragone di quello onde doveva privarmi cedendoglielo.
«Il dervis, avvistosi della mia strana passione per le ricchezze, ma pur non isdegnandosi dell’irragionevole mia offerta: — Fratello,» dissemi senza scomporsi, «vedete anche voi che la vostra esibizione non è proporzionata al benefizio che mi chiedete. Io potea dispensarmi dal parlarvi del tesoro, e custodire il mio segreto; ma ciò che ve ne volli dire, può farvi conoscere la buona intenzione che aveva, e tuttavia ho, di recarvi piacere, e darvi materia di ricordarvi per sempre di me, formando la vostra fortuna e la mia. Ho dunque un’altra proposta da farvi più giusta ed equa; sta a voi a vedere se vi garba. Voi dite,» proseguì il dervis, «che avete ottanta cammelli; son pronto a condurvi al tesoro, e li caricheremo, voi ed io, di tutto l’oro e le gemme che potranno portare, a condizione, che quando li avremo caricati, me ne cederete la metà coi rispettivi carichi, ritenendo per voi l’altra metà; poi ci separeremo, e li condurremo dove più ne piacerà, voi dalla vostra parte, io dalla mia. Vedete già che la spartizione non ha nulla che non sia equo, e se mi fate grazia di quaranta cammelli, avrete pure, per mezzo mio, di che comprarne un buon migliaio d’altri. —
«Io non poteva disconvenire che la proposta del dervis non fosse più che giusta. Nondimeno, senza riguardo alle enormi ricchezze che poteano toccarmi a sorte accettandola, risguardava come una gran perdita la cessione della metà de’ cammelli, specialmente quando considerava che il dervis non sarebbe men ricco di me. In conclusione, io già pagava d’ingratitudine un benefizio puramente gratuito, che non aveva ancora ricevuto dal dervis; ma non c’era da titubare: bisognava accettare la condizione o risolversi a pentirmi per tutta la vita d’avere, per mia colpa, perduta l’occasione di fare un’alta fortuna.
«Sul momento stesso raccolsi i cammelli, e partimmo assieme. Camminato per qualche tempo, giungemmo in una valle abbastanza spaziosa, ma il cui ingresso era molto angusto, talchè i miei cammelli non poterono passare se non ad uno ad uno; se non che, siccome il terreno si allargava, trovarono modo di capirvi tutti insieme senza imbarazzarsi. Le due montagne che formavano quella valle, terminando all’estremità in un semicerchio, erano si alte, scoscese ed impraticabili, da non esservi certo a temere che alcun mortale ne potesse scorgere.
«Giunti fra quelle due montagne: — Non andiamo più innanzi,» mi disse il dervis; «fermate i vostri cammelli e fateli inginocchiare nello spazio che vedete, affinchè non abbiamo a durar fatica per caricarli; fatto questo, procederò all’apertura del tesoro. —
«Feci quanto mi aveva detto il dervis, e presto andato a raggiungerlo, lo trovai coll’acciarino in mano, che ammucchiava un po’ di legne secche per far fuoco. Quando n’ebbe acceso, vi gettò sopra un po’ di profumo, pronunziando alcune parole, delle quali non intesi bene il senso; tosto si sollevò nell’aria un denso fumo, ch’egli andava separando, e sul momento, sebbene nella rupe che stava fra le due montagne, e che ergevasi altissima in linea perpendicolare, non apparisse alcuna fessura, ve se ne formò una, grande come una specie di porta a due imposte, praticata nella stessa rupe e della stessa materia con mirabile artificio.
«Quella porta espose a’ nostri occhi, in un ampio sfondo scavato nella rupe, un palazzo magnifico, formato piuttosto dal lavoro de’ geni che da quello de gli uomini, poichè non pareva che uomini avessero potuto nemmeno sognar un’impresa si ardita e sorprendente.
«Ma, Commendatore de’ credenti, è ora ch’io faccio a vostra maestà tale osservazione, non avendoci pensato in quel momento. Anzi, non ammirai neppure le ricchezze infinite che scorgeva da tutti i lati; senza trattenermi a notare l’economia usata nella distribuzione di tanti tesori, come l’aquila si avventa alla preda, tal io mi scagliai sul primo mucchio di monete d’oro che mi s’affacciò, e cominciai a ficcarne in un sacco, di cui erami già impossessato, quante stimai poterne portare. Grandi erano i sacchi, e li avrei volentieri riempiti tutti; ma bisognava proporzionarli alle forze dei cammelli.
«Il dervis fece anch’egli la medesima cosa; ma mi avvidi che attaccavasi piuttosto alle gemme, ed avendomene spiegata la ragione, imitai il di lui esempio, e prendemmo molto più d’ogni sorta di pietre preziose che non d’oro monetato. Terminato in fine di colmare tutti i nostri sacchi, e caricatone i cammelli, più non restava che rinchiudere il tesoro ed an darcene... —
— Sire,» disse qui la sultana delle Indie, «l’alba sorge, e sono costretta a rimandare a domani il seguito di questa storia.»
NOTTE CCCXLV
— Abdalla continuò di tal guisa il suo racconto:
«— Prima di partire, il dervis rientrò nel tesoro, e siccome eranvi parecchi grandi vasi cesellati d’ogni sorta di forme, d’oro, d’argento e di altre materie preziose, osservai ch’ei prese da uno di quei vasi una piccola scatoletta di certo legno a me ignoto, e se la pose in seno, dopo avermi fatto vedere che conteneva una specie di pomata.
«Per chiudere il tesoro, il dervis usò la medesima cerimonia fatta per aprirlo; e pronunziate ch’ebbe certe parole, la porta del tesoro si rinchiuse, e la rupe apparve intiera come prima. Dividemmo allora i cammelli, che facemmo alzare co’ loro carichi, ponendomi io alla testa dei quaranta che mi era serbati, e facendo altrettanto il dervis cogli altri che gli aveva ceduti.
«Sfilammo per dove eravamo entrati nella valle, e procedemmo insieme sino alla strada maestra ove ci dovevamo separare, il dervis per proseguire la sua via verso Balsora ed io per tornare a Bagdad. A ringraziarlo di quel grande benefizio, usai i termini più energici, e quelli che poteano meglio esprimere la mia gratitudine per avermi preferito ad ogni altro nel mettermi a parte di tante dovizie; ci abbracciammo quindi entrambi con molta allegrezza, e scambiati reciproci saluti, ci allontanammo, ciascuno dalla sua parte.
«Non ebbi fatto alcuni passi per raggiungere i miei cammelli, i quali camminavano sempre per la strada in cui io avevali messi, che il demonio dell’ingratitudine e dell’invidia venne ad impossessarsi del mio cuore. Deplorando la perdita degli altri quaranta cammelli, e più ancora le ricchezze ond’erano carichi: — Il dervis,» sclamai fra me, «non ha bisogno di tante dovizie; essendo padrone dei tesori, ne avrà a piacimento.» Così cedendo alla più nera in gratitudine, mi determinai d’improvviso a togliergli i cammelli carichi.
«Per eseguire tal disegno, cominciai dal fermare le mie bestie; poscia corsi dietro al dervis, chiamandolo a tutta gola per fargli comprendere d’avere qualche cosa ancora da dirgli, e gli feci segno di fermare anch’egli i suoi animali per aspettarmi; quando il vecchio udì la mia voce, sostò.
«Allora io, raggiuntolo: — Fratello,» gli dissi, «non v’ebbi appena lasciato, che considerai una cosa alla quale non avea pensato prima, ed a cui pensaste forse neppur voi. Voi siete un buon dervis, uso a vivere tranquillo, scevro da tutte le faccende del mondo, e senz’altro imbarazzo se non di servire a Dio. Forse non sapete in qual fatica v’impegnaste incaricandovi di tanti cammelli. Se volete darmi ascolto, ne condurre te seco voi soli trenta, e credo che ancora avrete estrema difficoltà a governarli. Potete prestar fede alla mia esperienza.
«— Credo che abbiate ragione,» rispose il dervis, il quale non vedeasi in istato di potermi resistere; «confesso,» soggiunse, «di non avervi riflettuto, e già cominciava a provare qualche inquietudine su ciò che mi dimostrate. Scegliete dunque i dieci che vi parrà, ed andatevene con Dio. —
«Ne presi dieci, e fattili voltare, li avviai acciò andassero in coda a’ miei. Non credeva trovare nel dervis tanta facilità a lasciarsi persuadere; talchè, sentendo aumentare la mia avidità, mi lusingai di non provar fatica ad estorcergliene altri dieci. «In fatti, invece di ringraziarlo del ricco donativo da me allora avuto: — Fratello,» nuovamente gli dissi, «per l’interesse che prendo alla vostra quiete, non so risolvermi a separarmi da voi, senza pregarvi di considerare di nuovo quanto siano difficili da guidare trenta cammelli carichi, specialmente per un uomo come voi, non avvezzo a simili fatiche. Ve ne trovereste assai meglio, se mi faceste una grazia simile a quella che or mi avete usata. Ciò che vi dico, come ben vedete, non è tanto per amor mio e per mio interesse, quanto per rendervi maggior servigio. Sbarazzatevi dunque di questi altri dieci cammelli, cedendoli ad un uomo par mio, al quale costa nessuna fatica il prendersi piuttosto cura di cento che d’uno solo. —
«II mio discorso fece il desiderato effetto, ed il dervis mi cedè senza alcuna resistenza i dieci cammelli che gli domandava, di modo che gliene restarono appena venti, mentre io mi trovai padrone di sessanta carichi, il cui valore superava le ricchezze di molti sovrani. Vi parrà che dopo ciò dovessi essere contento; ma, Commendatore de’ credenti, simile ad un idropico che quanto più beve, e più ha sete, mi sentii più di prima infiammato dalla brama di possedere i venti altri che rimanevano ancora al dervis.
«Raddoppiai dunque sollecitazioni, preghiere, importunità per farlo accondiscendere ad accordarmene altri dieci ancora, al che egli si arrese di buona grazia; e quanto ai dieci ultimi che gli restavano, lo abbracciai, lo baciai, e gli feci tante carezze, scongiurandolo a non negarmeli, e mettere così il colmo all’obbligo che gliene avrei avuto in eterno, ch’ei mi riempì d’allegrezza annunziandomi d’acconsentirvi.
«— Fatene buon uso, fratello,» soggiunse, «e ricordatevi che Dio può toglierci le ricchezze nel modo stesso che ce le dà, se noi non ce ne serviamo a soccorrere i poveri, ch’ei si compiace lasciare nell’inopia, per dar campo ai ricchi di meritarsi, colle loro limosine, una maggiore ricompensa nell’altro mondo. —
«Il mio acciecamento era tanto grande, che non fui in istato d’approfittare del salutare consiglio. Non contento di ritrovarmi possessore de’ miei ottanta cammelli e saperli carichi d’inestimabili tesori, che doveano rendermi il più fortunato degli uomini, mi saltò in mente che la scatoletta di pomata presa dal dervis, e ch’egli avevami mostrata, potesse contenere qualche cosa di più prezioso che non tutte le ricchezze delle quali andavagli debitore.
«— Il luogo dal quale il dervis l’ha presa,» dissi fra me,» e la premura ch’ebbe d’impadronirsene, mi fanno credere che contenga qualche cosa di misterioso. —
«A tal pensiero, mi determinai di fare di tutto onde conseguirla. Io l’aveva in quel punto abbracciato, dicendogli addio. — A proposito,» chiesi, tornando verso di lui, «cosa volete fare di quella scatoletta di pomata? Mi pare si piccola cosa,» soggiunsi, «da non valer la pena di portarvela con voi; vi prego di farmene un dono. D’altronde, un dervis come voi, che ha rinunziato alle vanità del mondo, non ha bisogno di pomata. —
«Fosse piaciuto a Dio ch’ei me l’avesse negata, quella scatola! Ma quand’anche avesselo voluto, io non era più in me stesso, mi trovava più forte di lui, e ben risoluto a togliergliela colla violenza, affinchè, per mia intiera soddisfazione, non potesse dirsi ch’egli avesse portata via la minima cosa del tesoro, mal grado l’immenso obbligo che gli doveva.
«Lungi dal ricusarmela, il dervis se la trasse subito dal seno, e presentatamela colla miglior grazia del mondo: — Prendete, fratello,» mi disse, «eccola; voglio accontentarvi anche in questo. Se posso far di più per voi, chiedetelo pure; son pronto a soddisfarvi.»
NOTTE CCCXLVI
Scheherazade, in nome d’Abdalla, ripigliò di tal guisa il filo del racconto:
— «Quand’ebbi la scatola in mano, l’apersi, e guardando la pomata: — Poichè mostrate tanta buona volontà,» gli dissi, «e non vi stancate di compiacermi, vi prego a volermi spiegare l’uso particolare di questa pomata.
«— L’uso n’è sorprendente e maraviglioso,» rispose il dervis. «Se applicate un po’ di quella pomata intorno all’occhio sinistro e sulla palpebra, essa vi farà comparire davanti agli occhi tutti i tesori nascosti nel grembo della terra; ma se ne applicate egualmente all’occhio destro, vi renderà cieco.
«Volli provare su me medesimo l’esperienza di sì mirabile effetto, e: — Prendete la scatoletta,» dissi al dervis, porgendogliela, «ed applicatemi voi stesso di quella pomata sull’occhio sinistro: ve ne intendete meglio di me. Sono impaziente d’esperimentare una cosa che mi pare incredibile. —
«Il buon dervis mi compiacque, e fattomi chiudere l’occhio sinistro, mi applicò la pomata. Quand’ebbe finito, aprii l’occhio, e provai che avevami detto il vero; vidi in fatti un numero infinito di tesori pieni di ricchezze sì immense e svariate, che non mi sarebbe possibile di farne al giusto la descrizione. Ma, siccome era costretto a tener chiuso l’occhio destro colla mano, e ciò mi stancava, pregai il dervis ad applicarmi un po’ di pomata anche intorno a quell’occhio.
«— Son pronto a farlo,» disse il dervis; «ma dovete ricordarvi,» soggiunse, «che se ne ponete sull’occhio destro, diventerete subito cieco. Tale è la virtù di questa pomata, e bisogna che vi ci accomodiate. —
«Lungi dal persuadermi che il dervis dicesse la verità, m’immaginai, invece, vi fosse sotto qualche nuovo mistero cui mi volesse celare.
«— Fratello,» risposi sorridendo, «ben veggo che volete vendermi lucciole per lanterne; non è naturale che questa pomata faccia due effetti così opposti.
«— Eppure la cosa è qual ve la dico,» riprese il dervis, prendendone a testimonio il nome di Dio, «e dovete credere alla mia parola, poiché non so svisare la verità. —
«Non volli fidarmi alla parola del dervis, che mi parlava da uomo d’onore; il desio invincibile di contemplare a mio bell’agio tutti i tesori della terra, e forse di goderne tutte le volte che bramassi darmene il diletto, spinsemi a non voler ascoltare le sue parole, nè a persuadermi della cosa che pur troppo era vera, come sperimentai a breve per mio mal costo.
«Nella prevenzione in cui mi trovava, m’immaginai persino che se quella pomata aveva la virtù di farmi vedere tutti i tesori della terra applicandola all’occhio sinistro, avrebbe avuta forse, applicandola al destro, la virtù di metterli a mia disposizione; in tal pensiero m’ostinai a supplicare il dervis perchè volesse impiastrarmene l’occhio destro; ma egli negò costantemente di acconsentirvi.
«— Dopo avervi fatto tanto bene, fratello,» mi diss’egli, «non posso risolvermi a farvi un sì gran male. Considerate bene voi stesso qual disgrazia sia l’essere privo della luce, e non vogliate ridurmi alla spiacevole necessità di compiacervi in una cosa di cui dovreste pentirvi per tutta la vita. —
«Spinsi l’ostinazione all’estremo. — Fratello,» gli dissi fermamente, «vi prego di passar oltre su tutte le difficoltà che mi fate; mi accordaste generosamente tutto ciò che sinora vi chiesi; volete che mi parta da voi malcontento per una cosa di si poca conseguenza? In nome di Dio, concedetemi quest’ultimo favore. Checchè ne avvenga, io non me la prenderò con voi, e la colpa sarà tutta mia. —
«Fece il dervis tutta la possibile resistenza; ma vedendo ch’io era in caso di costringervelo, mi disse: — Poichè lo esigete assolutamente, eccomi a contentarvi. —
«Presa allora un po’ di quella pomata fatale, me l’applicò sull’occhio destro, ch’io teneva chiuso; ma, oimè! quando volli aprirlo, più non vidi che dense tenebre da ambi gli occhi, e rimasi cieco qual mi vedete.
«— Ah! maledetto dervis,» sclamai in quel momento, «ciò che mi prediceste pur è troppo vero! Fatale curiosità,» soggiunsi, «brama insaziabile delle ricchezze, in qual abisso di mali siete per immergermi! Ben sento ormai di essermeli meritati; ma voi, caro fratello,» tornai a sclamare, volgendomi al dervis, «voi che siete si caritatevole e benefico, fra tanti segreti maravigliosi de’ quali siete possessore, non ne avreste alcuno per ridonarmi la vista?
«— Sciagurato,» rispose allora il dervis, «non fu per mia colpa se tu non evitasti questa disgrazia; ma or non hai se non quello che meriti, e fu l’acciecamento del cuore che t’attirò quello del corpo. Vero è che posseggo molti segreti: ben lo potesti comprendere nel poco tempo che rimasi teco: ma non ne ho per restituirti la vista. Rivolgiti a Dio, se credi esservene uno: lui solo può ridonartela. Egli ti aveva dato ricchezze delle quali eri indegno; te le ha tolte, e le darà, per mia mano, ad uomini che non saranno ingrati al par di te. —
«Il dervis non disse altro, ned io sapeva cosa soggiungere; mi lasciò solo, oppresso di confusione ed immerso in duolo inesprimibile; adunati i miei ottanta cammelli, li condusse via, e prosegui la sua strada verso Balsora.
«Lo pregai a non abbandonarmi in quel miserabile stato, e ad aiutarmi almeno a condurmi sino alla prima caravana; ma fu sordo alle mie preghiere ed alle mie grida. Così, privo della vista, e di tutto ciò che possedeva al mondo, sarei morto di cordoglio e di fame, se all’indomani una caravana, che tornava appunto da Balsora, non m’avesse caritatevolmente raccolto e ricondotto a Bagdad.
«Da uno stato paragonabile a quello de’ principi, se non per forza e potere, almeno per ricchezza e magnificenza, mi vidi ridotto alla mendicità senza speranza di mai più risorgerne. Fui dunque costretto a chiedere l’elemosina, ed è quello che feci sino al presente; ma onde espiare la mia colpa verso Dio, m’imposi nello stesso tempo la pena d’uno schiaffo dalla parte d’ogni persona caritatevole che sentisse compassione della mia miseria.
«Ecco, Commendatore de’ credenti, il motivo di ciò che ieri parve a vostra maestà tanto strano, e che deve avermi fatto incorrere nella sua indignazione; gliene domando nuovamente perdono come suo schiavo, sottomettendomi a ricevere il castigo che mi son meritato. Quand’ella si degni pronunciare intorno alla penitenza che volonterosamente m’imposi, son persuaso che la troverà troppo lieve, e molto inferiore al mio delitto. — «Terminata ch’ebbe il cieco la sua storia, il califfo gli disse: — Baba-Abdalla, il tuo peccato è grande; ma Dio sia lodato perchè ne conoscesti l’enormità, e per la penitenza pubblica che sin adesso ne facesti. Così basta: è d’uopo che d’or innanzi tu la continui in particolare, non cessando di domandare perdono a Dio in tutte le preghiere alle quali sei ogni giorno obbligato dalla tua religione; ed affinchè tu’ non ne sia distratto dalla cura di chiedere il vitto, ti faccio, tua vita durante, l’elemosina di quattro dramme d’argento di mia moneta al giorno, che il mio gran visir ti farà sborsare. Laonde non allontanarti, ma aspetta ch’egli abbia eseguiti i miei ordini. —
«A tali parole, Baba-Abdalla si prosternò davanti al trono del califfo, ed alzatosi, gli fece i suoi ringraziamenti, augurandogli ogni sorta di prosperità.
— Sire,» disse Scheherazade a questo passo del racconto, «è tempo che vostra maestà vada a presiedere al consiglio; domani le narrerò la storia del giovane che batteva sì crudelmente la cavalla.»
NOTTE CCCXLVII
— Contento il califfo Aaron-al-Raschid della storia di Baba-Abdalla e del dervis, si volse al giovane da lui veduto maltrattare la cavalla, e come aveva fatto col cieco, gli chiese il suo nome; quegli rispose chiamarsi Sidi Numan.
«— Sidi Numan,» gli disse allora il califfo, «ho veduto in tutta la mia vita esercitar cavalli, e spesso ne ho esercitati anch’io; ma non vidi mai sospingerli nella barbara maniera come quella colla qual tu ieri spingevi la tua cavalla in pubblica piazza, con immenso scandalo degli spettatori che ne mormoravano altamente. Io non ne fui meno di essi scandalizzato, e poco mancò non mi facessi conoscere, contro la mia intenzione, per rimediare a tal disordine. Eppure il tuo aspetto non mi dinota che tu sii uomo barbaro e crudele. Voglio anzi credere che tu non opri a quel modo senza motivo, essendomi noto non essere la prima volta, ed anzi è già molto tempo che ogni giorno fai alla tua cavalla il medesimo maltrattamento. Bramo sapere qual ne sia il motivo, e ti ho fatto chiamare affinchè tu me ne istruisca. Soprattutto dimmi la cosa com’è, e non dissimularmi nulla. —
«Sidi Numan comprese facilmente ciò che da lui esigeva il califfo. Quel racconto angustiavalo; cambiò più volte di colore, e fece vedere, suo malgrado, quanto fosse grande l’imbarazzo in cui trovavasi. Ma fu mestieri risolversi a dirne il motivo. Però, prima di parlare, si prosternò davanti al trono dei califfo, e quindi rialzatosi, tentò di cominciare per soddisfarlo; ma rimase come interdetto, più colpito dalla natura della narrazione che doveva fargli, che non dalla maestà del califfo, davanti al quale compariva.
«Qualunqué fosse l’impazienza naturale del califfo d’essere obbedito ne’ suoi voleri, pure non dimostrò verun malcontento pel silenzio di Sidi Numan, ben avvedendosi che doveva o mancar d’ardire alla sua presenza, od essere intimidito dal modo onde gli aveva parlato, oppure finalmente vi fossero, in ciò che doveva narrargli, cose le quali avesse bramato di tenere nascoste.
«— Orsù, Sidi Numan,» gli disse il califfo per rassicurarlo, «fa animo, e mettiti in pensiero non sia a me, cui tu debba raccontare ciò che ti domando, ma bensì a qualche amico che te ne pregasse. Se v’ha in questo racconto qualche cosa che ti dia pena, e di cui tu creda ch’io possa offendermi, te la perdono da questo stesso momento. Sgombra adunque ogni inquietudine; parlami a cuore aperto, e non dissimularmi nulla, come se fossi il miglior tuo amico. —
«Rassicurato il giovane dall’ultime parole del califfo, schiuso finalmente il labbro: — Commendatore de’ credenti,» disse, «qualunque sia l’impressione che far debba ad ogni mortale il solo accostarsi alla maestà vostra ed allo splendore del suo trono, pure mi sento forza bastante per isperare che codesta rispettosa impressione non m’interdirà la parola al punto di mancare all’obbedienza che gli debbo, dandogli soddisfazione su tutt’altra cosa da quella che ora da me esige. Non oso dirmi il più perfetto fra gli uomini; ma non sono cattivo si d’aver commesso, e nemmeno avuto la volontà di commettere nulla contro le leggi che possa darmi motivo di temerne la severità. Per quanto buona però sia la mia intenzione, conosco di non andar esente dal peccare per ignoranza, ed è ciò appunto che mi accadde. In tal caso, non dico ch’io abbia fiducia nel perdono, cui piacque alla maestà vostra di concedermi senza avermi udito; mi sommetto anzi alla sua giustizia, e ad essere punito se l’ho meritato. Confesso che la maniera con cui da qualche tempo tratto la mia cavalla, come vostra maestà ne fu testimonio, è strana, crudele e di pessimo esempio; ma spero che ben fondato ne troverà il motivo, e stimerà eziandio ch’io sono degno più di compassione che di castigo. Ma non deggio tenerla più a lungo in sospeso con un tedioso preambolo. Ecco cosa m’è accaduto.»
La sultana, destata quella mattina più tardi del solito, non potè dir altro. La domane, facendo parlare Sidi Numan al califfo, ripigliò essa in questi sensi: