Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)/Pierino da Vinci

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Pierino da Vinci

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Niccolò detto il Tribolo Baccio Bandinelli

[p. 416 modifica]VITA DI PIERINO DA VINCI SCULTORE


Enché coloro si sogliono celebrare i quali hanno virtuosamente adoperato alcuna cosa, nondimeno se le già fatte opere da alcuno mostrano le non fatte, che molte sarebbono state e molto più rare, se caso inopinato e fuor dell’uso comune non accadeva che le ’nterroppe, certamente costui, ove sia chi dell’altrui virtù voglia essere giusto estimatore, così per l’una come per l’altra parte e per quanto e’ fece, e per quel che fatto arebbe, meritamente sarà lodato e celebrato. Non doverranno addunque al Vinci scultore nuocere i pochi anni che egli visse e torgli le degne lode nel giudizio di coloro che dopo noi verranno, considerando che egli allora fioriva e d’età e di studii, quando quel che ognuno ammira, fece e diede al mondo, ma era per mostrarne più copiosamente i frutti, se tempesta nimica i frutti e la pianta non isveglieva. Ricordomi d’aver altra volta detto che nel castello di Vinci nel Valdarno di sotto fu ser Piero padre di Lionardo da Vinci pittore famosissimo. A questo ser Piero nacque, dopo Lionardo, Bartolomeo ultimo suo figliuolo, il quale standosi a Vinci e venuto in età, tolse per moglie una delle prime giovane del castello. Era desideroso Bartolomeo d’avere un figliuol mastio, e narrando molte volte alla moglie la grandezza dell’ingegno che aveva avuto Lionardo suo fratello, pregava Iddio che la facesse degna che per mezzo di lei nascesse in casa sua un altro Lionardo, essendo quello già morto. Natogli adunque in breve tempo, secondo il suo desiderio, un grazioso fanciullo, gli voleva porre il nome di Lionardo, ma consigliato da’ parenti a rifare il padre, gli pose nome Piero. Venuto nell’età di tre anni, era il fanciullo di volto bellissimo e ricciuto e molta grazia mostrava in tutti i gesti e vivezza d’ingegno mirabile. In tanto che venuto a Vinci et in casa Bartolomeo alloggiato maestro Giuliano del Carmine, astrologo eccellente, e seco un prete chiromante, che erano amendue amicissimi di Bartolomeo, e guardata la fronte e la mano del fanciullo, predissono al padre, l’astrologo e ’l chiromante insieme, la grandezza dell’ingegno suo e che egli farebbe in poco tempo profitto grandissimo nell’arti mercuriali, ma che sarebbe brevissima la vita sua. E troppo fu vera la costor profezia, perché nell’una parte e nell’altra (bastando in una), nell’arte e nella vita si volle adempiere. Crescendo di poi Piero, ebbe per maestro nelle lettere il padre, ma da sé senza maestro, datosi a disegnar et a fare cotali fantoccini di terra, mostrò che la natura e la celeste inclinazione conosciuta dall’astrologo e dal chiromante già si svegliava e cominciava in lui a operare. Per la qual cosa Bartolomeo giudicò che ’l suo voto fusse esaudito da Dio; e parendogli che ’l fratello gli fusse stato renduto nel figliuolo, pensò a levare Piero da Vinci e condurlo a Firenze. Così fatto adunque senza indugio, pose Piero, che già era di dodici anni, a star col Bandinello in Firenze, promettendosi che ’l Bandinello, come amico già di Lionardo, terrebbe conto del fanciullo e gl’insegnerebbe con diligenza, perciò che gli pareva che egli più della [p. 417 modifica]scultura si dilettasse che della pittura. Venendo di poi più volte in Firenze, conobbe che ’l Bandinello non corrispondeva co’ fatti al suo pensiero e non usava nel fanciullo diligenza, né studio, con tutto che pronto lo vedesse all’imparare. Per la qual cosa toltolo al Bandinello, lo dette al Tribolo, il quale pareva a Bartolomeo che più s’ingegnasse d’aiutare coloro i quali cercavano d’imparare e che più attendesse agli studii dell’arte e portasse ancora più affezzione alla memoria di Lionardo. Lavorava il Tribolo a Castello, villa di sua eccellenza, alcune fonti, là dove Piero, cominciato di nuovo al suo solito a disegnare, per aver quivi la concorrenza degl’altri giovani che teneva il Tribolo, si messe con molto ardore d’animo a studiare il dì e la notte, spronandolo la natura desiderosa di virtù e d’onore e maggiormente accendendolo l’essempio degli altri pari a sé, i quali tuttavia si vedeva intorno. Onde in pochi mesi acquistò tanto, che fu di maraviglia a tutti, e cominciato a pigliar pratica in su’ ferri, tentava di vedere se la mano e lo scarpello obbediva fuori alla voglia di dentro et a’ disegni suoi dell’intelletto. Vedendo il Tribolo questa sua prontezza et appunto avendo fatto allora fare un acquaio di pietra per Cristofano Rinieri, dette a Piero un pezzetto di marmo, del quale egli facesse un fanciullo per quell’acquaio, che gettasse acqua dal membro virile. Piero, preso il marmo con molta allegrezza e fatto prima un modelletto di terra, condusse poi con tanta grazia il lavoro, che ’l Tribolo e gli altri feciono coniettura che egli riuscirebbe di quegli che si truovano rari nell’arte sua. Dettegli poi a fare un mazzocchio ducale di pietra sopra un’arme di palle per Messer Pierfrancesco Riccio, maiordomo del Duca, et egli lo fece con due putti, i quali intrecciandosi le gambe insieme, tengono il mazzocchio in mano e lo pongono sopra l’arme, la quale è posta sopra la porta d’una casa, che allora teneva il maiordomo dirimpetto a San Giuliano allato a’ preti di Sant’Antonio. Veduto questo lavoro, tutti gli artefici di Firenze feciono il medesimo giudizio ch’el Tribolo aveva fatto innanzi. Lavorò dopo questo un fanciullo che stringe un pesce che getta acqua per bocca, per le fonti di Castello, et avendogli dato il Tribolo un pezzo di marmo maggiore, ne cavò Piero due putti che s’abbracciano l’un l’altro, e strignendo pesci, gli fanno schizzare acqua per bocca. Furono questi putti sì graziosi nelle teste e nella persona e con sì bella maniera condotti di gambe, di braccia e di capelli, che già si potette vedere che egli arebbe condotto ogni difficile lavoro a perfezzione. Preso addunque animo e comperato un pezzo di pietra bigia lungo due braccia e mezzo e condottolo a casa sua, al canto alla Briga, cominciò Piero a lavorarlo la sera quando tornava e la notte et i giorni delle feste, intanto che a poco a poco lo condusse al fine. Era questa una figura di Bacco, che aveva un satiro a’ piedi, e con una mano tenendo una tazza, nell’altra aveva un grappolo d’uva e ’l capo le cingeva una corona d’uva secondo un modello fatto da lui stesso di terra. Mostrò in questo e negli altri suoi primi lavori Piero un’agevolezza maravigliosa, la quale non offende mai l’occhio, né in parte alcuna è molesta a chi riguarda. Finito questo Bacco, lo comperò Bongianni Capponi et oggi lo tiene Lodovico Capponi suo nipote in una sua corte. Mentre che Piero faceva queste cose, pochi sapevano [p. 418 modifica]ancora che egli fusse nipote di Lionardo da Vinci, ma facendo l’opere sue lui noto e chiaro, di qui si scoperse insieme il parentado e ’l sangue, laonde tuttavia dappoi sì per l’origine del zio e sì per la felicità del proprio ingegno, col quale e’ rassomigliava tanto uomo, fu per innanzi non Piero, ma da tutti chiamato il Vinci. Il Vinci addunque, mentre che così si portava, più volte e da diverse persone aveva udito ragionare delle cose di Roma appartenenti all’arte e celebrarle, come sempre da ognuno si fa; onde in lui s’era un grande desiderio acceso di vederle, sperando d’averne a cavare profitto, non solamente vedendo l’opere degli antichi, ma quelle di Michelagnolo e lui stesso allora vivo e dimorante in Roma. Andò addunque in compagnia d’alcuni amici suoi, e veduta Roma, e tutto quello che egli desiderava, se ne tornò a Firenze, considerato giudiziosamente che le cose di Roma erano ancora per lui troppo profonde e volevano esser vedute et immitate non così ne’ principii, ma dopo maggior notizia dell’arte. Aveva allora il Tribolo finito un modello del fuso della fonte del laberinto, nel quale sono alcuni satiri di basso rilievo e quattro maschere mezzane e quattro putti piccoli tutti tondi che seggono sopra certi viticci. Tornato addunque il Vinci, gli dette il Tribolo a fare questo fuso, et egli lo condusse e finì, facendovi dentro alcuni lavori gentili non usati da altri che da lui, i quali molto piacevano a ciascuno che gli vedeva. Avendo il Tribolo fatto finire tutta la tazza di marmo di quella fonte, pensò di fare in su l’orlo di quella quattro fanciulli tutti tondi, che stessino a giacere e scherzassino con le braccia e con le gambe nell’acqua con varii gesti, per gettargli poi di bronzo. Il Vinci per commessione del Tribolo gli fece di terra, i quali furono poi gettati di bronzo da Zanobi Lastricati scultore e molto pratico nelle cose di getto, e furono posti, non è molto tempo, intorno alla fonte, che sono cosa bellissima a vedere. Praticava giornalmente col Tribolo Luca Martini, proveditore allora della muraglia di Mercato Nuovo, il quale desiderando di giovare al Vinci, lodando molto il valore dell’arte e la bontà de’ costumi in lui, gli provvedde un pezzo di marmo alto due terzi e lungo un braccio et un quarto. Il Vinci preso il marmo, vi fece dentro un Cristo battuto alla colonna, nel quale si vede osservato l’ordine del basso rilievo e del disegno, e certamente egli fece maravigliare ognuno, considerando che egli non era pervenuto ancora a diciassette anni dell’età sua et in cinque anni di studio aveva acquistato quello nell’arte che gli altri non acquistano se non con lunghezza di vita e con grande sperienza di molte cose. In questo tempo il Tribolo, avendo preso l’ufficio del capomaestro delle fogne della città di Firenze, secondo il quale ufficio ordinò che la fogna della piazza vecchia di Santa Maria Novella s’alzasse da terra, acciò che più essendo capace, meglio potesse ricevere tutte l’acque che da diverse parti a lei concorrono, per questo addunque commesse al Vinci, che facesse un modello d’un mascherone di tre braccia il quale, aprendo la bocca, inghiottisse l’acque piovane. Di poi per ordine degli ufficiali della torre, allogata quest’opera al Vinci, egli, per condurla più presto chiamato Lorenzo Marignolli scultore, in compagnia di costui la finì in un sasso di pietra forte, e l’opera è tale, che con utilità non piccola della città tutta quella piazza adorna. Già pareva al Vinci avere acquistato tanto nell’arte, che [p. 419 modifica]il vedere le cose di Roma maggiori et il praticare cogli artefici che sono quivi eccellentissimi, gli apporterebbe gran frutto; però porgendosi occasione d’andarvi, la prese volentieri. Era venuto Francesco Bandini da Roma, amicissimo di Michelagnolo Buonarroti; costui per mezzo di Luca Martini conosciuto il Vinci, e lodatolo molto, gli fece fare un modello di cera d’una sepoltura, la quale voleva fare di marmo alla sua cappella in Santa Croce, e poco dopo, nel suo ritorno a Roma, perciò che il Vinci aveva scoperto l’animo suo a Luca Martini, il Bandino lo menò seco, dove studiando tuttavia dimorò un anno e fece alcune opere degne di memoria. La prima fu un Crocifisso di basso rilievo, che rende l’anima al Padre, ritratto da un disegno fatto da Michelagnolo. Fece al cardinal Ridolfi un petto di bronzo per una testa antica et una Venere di basso rilievo di marmo, che fu molto lodato. A Francesco Bandini racconciò un cavallo antico, al quale molti pezzi mancavano e lo ridusse intero. Per mostrare ancora qualche segno di gratitudine, dove egli poteva, inverso Luca Martini, il quale gli scriveva ogni spaccio e lo raccomandava di continovo al Bandino, parve al Vinci di far di cera tutto tondo e di grandezza di dua terzi il Moisè di Michelagnolo, il quale è in San Piero in Vincola alla sepoltura di papa Giulio Secondo, che non si può vedere opera più bella di quella. Così fatto di cera il Moisè, lo mandò a donare a Luca Martini. In questo tempo che ’l Vinci stava a Roma e le dette cose faceva, Luca Martini fu fatto dal Duca di Firenze proveditore di Pisa, e nel suo ufficio non si scordò dell’amico suo, per che scrivendogli che gli preparava la stanza e provvedeva un marmo di tre braccia, sì che egli se ne tornasse a suo piacere, perciò che nulla gli mancherebbe appresso di lui, il Vinci da queste cose invitato e dall’amore che a Luca portava, si risolvé a partirsi di Roma e per qualche tempo eleggere Pisa per sua stanza, dove stimava d’avere occasione d’esercitarsi e di fare sperienza della sua virtù. Venuto addunque in Pisa, trovò che ’l marmo era già nella stanza, acconcio secondo l’ordine di Luca, e cominciando a volerne cavare una figura in piè, s’avvedde che ’l marmo aveva un pelo, il quale lo scemava un braccio. Per lo che risoluto a voltarlo a giacere, fece un fiume giovane che tiene un vaso che getta acqua, et è il vaso alzato da tre fanciulli, i quali aiutano a versare l’acqua il fiume e sotto i piedi a lui molta copia d’acqua discorre, nella quale si veggono pesci guizzare et uccelli acquatici in varie parti volare. Finito questo fiume, il Vinci ne fece dono a Luca, il quale lo presentò alla Duchessa et a lei fu molto caro perché allora, essendo in Pisa don Grazzia di Tolledo suo fratello venuto con le galee, ella lo donò al fratello, il quale con molto piacere lo ricevette per le fonti del suo giardino di Napoli a Chiaia. Scriveva in questo tempo Luca Martini sopra la Commedia di Dante alcune cose et avendo mostrata al Vinci la crudeltà descritta da Dante, la quale usorono i Pisani e l’arcivescovo Ruggeri contro al conte Ugolino della Gherardesca, facendo lui morire di fame con quattro suoi figliuoli nella torre, perciò cognominata della fame, porse occasione e pensiero al Vinci di nuova opera e di nuovo disegno. Però, mentre che ancora lavorava il sopra detto fiume, messe mano a fare una storia di cera per gettarla di bronzo alta più d’un braccio e larga tre quarti, nella quale fece due de’ figliuoli del conte morti, uno [p. 420 modifica]in atto di spirare l’anima, uno che vinto dalla fame è presso all’estremo non pervenuto ancora all’ultimo fiato; il padre in atto pietoso e miserabile, cieco e di dolore pieno va brancolando sopra i miseri corpi de’ figliuoli distesi in terra. Non meno in questa opera mostrò il Vinci la virtù del disegno che Dante ne’ suoi versi mostrasse il valore della poesia, perché non men compassione muovono in chi riguarda gli atti formati nella cera dallo scultore, che faccino in chi ascolta gli accenti e le parole notate in carta, vive, da quel poeta. E per mostrare il luogo dove il caso seguì, fece da piè il fiume d’Arno che tiene tutta la larghezza della storia, perché poco discosto dal fiume è in Pisa la sopra detta torre; sopra la quale figurò ancora una vecchia ignuda, secca e paurosa, intesa per la Fame quasi nel modo che la descrive Ovidio. Finita la cera, gettò la storia di bronzo, la quale sommamente piacque, et in corte e da tutti fu tenuta cosa singulare. Era il duca Cosimo allora intento a beneficare et abbellire la città di Pisa e già di nuovo aveva fatto fare la piazza del mercato con gran numero di botteghe intorno e nel mezzo messe una colonna alta dieci braccia sopra la quale per disegno di Luca doveva stare una statua in persona della Dovizia. Addunque il Martini, parlato col Duca e messogli innanzi il Vinci, ottenne che ’l Duca volentieri gli concesse la statua, desiderando sempre sua eccellenza d’aiutare i virtuosi e di tirare innanzi i buoni ingegni. Condusse il Vinci di trevertino la statua tre braccia e mezzo alta, la quale molto fu da ciascheduno lodata perché, avendole posto un fanciulletto a’ piedi, che l’aiuta tenere il corno dell’abbondanza, mostra in quel sasso ancora che ruvido e malagevole, nondimeno morbidezza e molta facilità. Mandò di poi Luca a Carrara a far cavare un marmo cinque braccia alto e largo tre, nel quale il Vinci avendo già veduto alcuni schizzi di Michelagnolo d’un Sansone che ammazzava un Filisteo con la mascella d’asino, disegnò da questo suggetto fare a sua fantasia due statue di cinque braccia. Onde mentre che ’l marmo veniva, messosi a fare più modelli variati l’uno dall’altro, si fermò a uno e di poi venuto il sasso, a lavorarlo incominciò e lo tirò innanzi assai, immitando Michelagnolo nel cavare a poco a poco de’ sassi il concetto suo e ’l disegno senza guastargli o farvi altro errore. Condusse in questa opera gli strafori sotto squadra e sopra squadra, ancora che laboriosi, con molta facilità, e la maniera di tutta l’opera era dolcissima. Ma perché l’opera era faticosissima, s’andava intrattenendo con altri studi e lavori di manco importanza, onde nel medesimo tempo fece un quadro piccolo di basso rilievo di marmo, nel quale espresse una Nostra Donna con Cristo, con San Giovanni e con Santa Lisabetta, che fu et è tenuto cosa singulare; et ebbelo l’illustrissima Duchessa et oggi è fra le cose rare del Duca nel suo scrittoio. Messe di poi mano a una istoria in marmo di mezzo e basso rilievo, alta un braccio e lunga un braccio e mezzo, nella quale figurava Pisa restaurata dal Duca, il quale è nell’Opera presente alla città et alla restaurazione di essa sollecitata dalla sua presenza. Intorno al Duca sono le sue virtù ritratte e particularmente una Minerva figurata per la Sapienza e per l’arti risuscitate da lui nella città di Pisa: et ella è cinta intorno da molti mali e difetti naturali del luogo i quali, a guisa di nimici, l’assediavano per tutto e l’affliggevano; da tutti [p. 421 modifica]questi è stata poi liberata quella città dalle sopradette virtù del Duca. Tutte queste virtù intorno al Duca e tutti que’ mali intorno a Pisa erano ritratti con bellissimi modi et attitudini nella sua storia dal Vinci. Ma egli la lasciò imperfetta e desiderata molto da chi la vede per la perfezione delle cose finite in quella, Cresciuta per queste cose e sparsa intorno la fama del Vinci, gli eredi di Messer Bartolomeo Turini da Pescia lo pregorono che e’ facesse un modello d’una sepoltura di marmo per Messer Baldassarre, il quale fatto e piaciuto loro e convenuti che la sepoltura si facesse, il Vinci mandò a Carrara a cavare i marmi Francesco del Tadda, valente maestro d’intaglio di marmo. Avendogli costui mandato un pezzo di marmo, il Vinci cominciò una statua, e ne cavò una figura abbozzata sì fatta, che chi altro non avesse saputo, arebbe detto che certo Michelagnolo l’ha abbozzata. Il nome del Vinci e la virtù era già grande et ammirata da tutti e molto più, che a sì giovane età non sarebbe richiesto, et era per ampliare ancora a diventare maggiore e per adeguare ogni uomo nell’arte sua, come l’opere sue senza l’altrui testimonio fanno fede, quando il termine a lui prescritto dal cielo essendo dappresso, interroppe ogni suo disegno, fece l’aumento suo veloce in un tratto cessare e non patì più che avanti montasse e privò il mondo di molta eccellenza d’arte e d’opere, delle quali vivendo il Vinci egli si sarebbe ornato. Avvenne in questo tempo, mentre che ’l Vinci all’altrui sepoltura era intento, non sapendo che la sua si preparava, che ’l Duca ebbe a mandare per cose d’importanza Luca Martini a Genova, il quale sì perché amava il Vinci e per averlo in compagnia e sì ancora per dare a lui qualche diporto e sollazzo e fargli vedere Genova, andando lo menò seco. Dove mentre che i negozii si trattavano dal Martini, per mezzo di lui Messer Adamo Centurioni dette al Vinci di fare una figura di San Giovanni Batista, della quale egli fece il modello. Ma tosto venutagli la febbre, gli fu, per raddoppiare il male insieme, ancora tolto l’amico, forse per trovare che ’l fato s’adempiesse nella vita del Vinci. Fu necessario a Luca per lo ’nteresse del negozio a lui commesso, che egli andasse a trovare il Duca a Firenze, laonde partendosi dall’infermo amico con molto dolore dell’uno e dell’altro, lo lasciò in casa l’abate nero e strettamente a lui lo raccomandò, benché egli mal volentieri restasse in Genova. Ma il Vinci ogni dì sentendosi peggiorare, si risolvé a levarsi di Genova, e fatto venire da Pisa un suo creato chiamato Tiberio Cavalieri, si fece con l’aiuto di costui condurre a Livorno per acqua e da Livorno a Pisa in ceste. Condotto in Pisa la sera a ventidua ore, travagliato et afflitto dal cammino e dal mare e dalla febbre, la notte mai non posò e la seguente mattina in sul far del giorno passò all’altra vita, non avendo dell’età sua ancora passato i ventitré anni. Dolse a tutti gli amici la morte del Vinci et a Luca Martini eccessivamente, e dolse a tutti gli altri, i quali s’erano permesso di vedere dalla sua mano di quelle cose che rare volte si veggono, e Messer Benedetto Varchi, amicissimo alle sue virtù et a quelle di ciascheduno, gli fece poi per memoria delle sue lode questo sonetto:

Come potrò da me, se tu non presti [p. 422 modifica]forza, o tregua al mio gran duolo interno, soffrirlo in pace mai, Signor superno, che fin qui nuova ogn’or pena mi desti? Dunque de’ miei più cari or quegli, or questi verde sen voli all’alto asilo eterno, ed io canuto in questo basso inferno a pianger sempre e lamentarmi resti? Sciolgami al men tua gran bontate quinci, or che reo fato nostro o sua ventura, ch’era ben degno d’altra vita e gente, per far più ricco il cielo e la scultura men bella, e me col buon Martin dolente, n’ha privi, o pieta, del secondo Vinci.

IL FINE DELLA VITA DI PIERO DA VINCI, SCULTORE