Lezioni sulla Divina Commedia/Appendice/VI. Esposizione critica della Divina Commedia/L'Inferno

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VI. Esposizione critica della Divina Commedia - L'Inferno

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VI. Esposizione critica della Divina Commedia - Il subbietto della Divina Commedia VI. Esposizione critica della Divina Commedia - Il Purgatorio
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L’Inferno.


L’inferno è il regno del male, la morte dell’anima e il dominio della carne, il caos: in poesia, il sublime negativo. Elementi informi e disformi; abissi piú e piú inabissantisi; rupi scoscese, triste valli; aere senza tempo e muto di luce; una tetra grandezza compiuta col laido e col grottesco; tutto questo, rappresentato con formidabile uniformitá, produce nel generale una impressione tragica e severa. Trasportando la scena di lá da questa vita, Dante è non solo il poeta, ma l’architetto, lo scultore e il pittore del suo universo. Con incredibile audacia di fantasia fecondata dall’amore di un’alta concezione, egli ha saputo congiungere l’obbiettivitá della natura con la trasparenza dell’arte. Onde la qualitá del luogo risponde agli elementi spirituali delle passioni e degli errori: le tenebre della ragione, il profondare ognora piú nel fango e nel lezzo della carne e il male nelle sue due forme, tragica e comica, secondo che nobile e abbietta è l’anima colpevole. Le descrizioni sono sobrie, ma di una compiuta precisione; e l’impressione risulta meno da’ particolari che dal cupo e fosco colorito e dallo stesso movimento imitativo del verso. Ma il concetto sta immobile nell’architettura, né può esservi espresso che di una maniera molto generale. Nelle pene esso traspare in ogni varietá di attitudine, di movenze, e in tutta la pienezza delle sue differenze individuali. Esprimono le pene la passione nel suo cieco impeto, la viltá nella sua oscena bassezza, la colpa nella sua fredda malizia: è la stessa inesorabile coscienza fatta materia. Il poeta non cade in fredde sottigliezze, né cerca puerili, lontani e minuti rapporti tra la colpa e la pena; ma il concetto vi si rivela a gran tratti, e il corporale vi è in tutta la sua evidenza plastica. Opera di una intelligenza profonda, di una cupa e fiera fantasia, che anima la materia, e vi scolpisce su ora l’ironia, ora il dispregio ed ora il sarcasmo: di che rampollano tante invenzioni di pene, non sai se piú mirabili per veritá o per novitá e varietá di concezione Ma il pensiero non è giunto ancora alla sua piena subbiettivitá esso non è ancora anima. [p. 363 modifica]

Un primo grado di questa forma è ne’ demòni. Il demonio dantesco è senza dignitá, l’elemento turpe e selvaggio del male, il satirico nel suo stato ancor grezzo assai prossimo alla prosa, figurato ne’ satiri dell’antichitá, ne’ quali la brutale sfacciatezza tronca il riso e genera il disgusto. La vergogna e il rossore è proprio della faccia umana; il demonio non arrossisce. In lui niente è rimasto dell’angiolo; sicché egli non ha né l’orrida maestá del demonio del Tasso, né il sublime di quello di Milton. Belfagor, il Diavolo zoppo e Mefistofele si avvicinano alquanto al tipo dantesco; ma Machiavelli, Le Sage e Goethe hanno lor dato dell’umano, espressione ironica e maliziosa della parte comica della vita in opposizione alla seria. Dante ha raggiunto talora questo ideale della commedia, come, a cagion d’esempio, nel demonio che mena a dannazione Guido da Montefeltro, spiritosa caricatura della scienza scolastica del peccatore persuaso al delitto da un sofisma.

                                    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .  Forse
Tu non pensavi ch’io loico fossi!
     

Ma in generale egli ha voluto esprimere nel demonio la piú bassa incarnazione dello spirito nella scala degli esseri, e non solo il carnefice, a cui il tormentare è voluttá, ma il simbolo altresí del vizio da lui punito, congiungendo col mostruoso, col grottesco, con l’osceno e col bestiale la ferocia alla bassezza. Egli si è aiutato con molta sagacia della pagana mitologia, non dando alcun serio valore a quelle invenzioni, ma adoperandole come simboli e segni del suo pensiero.

                                         O voi, ch’avete gl’intelletti sani,
Mirate la dottrina, che s’asconde
Sotto ’l velame degli versi strani.
     

Ma questi esseri allegorici non rimangono nell’ariditá del generale; e niuno ignora quanta vivace individualitá è nelle figure di Caronte, di Cerbero, delle Furie, di Minos, di Gerione, [p. 364 modifica]il cui ingegnoso ritratto fu il germe dell’ammirabile ottava, nella quale l’Ariosto ha descritto la Frode. Nel demonio è ben poco di subbiettivo; nell’uomo il concetto si manifesta chiaramente a se stesso e diviene persona, acquistando carattere, affetto e pensiero. L’idea fondamentale che Dante ha voluto rappresentare nel peccatore è l’impenitenza, cagione e ragione della perpetuitá, della pena. Quale l’uomo fu vivo, tale è morto; egli ha lo stesso ardore del desiderio, ma accompagnato dal sentimento dell’impotenza: onde la disperazione e la rabbia. Ciò che in terra gli fu a diletto, nell’inferno gli è a castigo.

                                         O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
La tua superbia, se’ tu piú punito.
     

E il Manfredi di Byron: il fiume dell’oblio Lete è fuori dell’inferno. La sua passione perpetuamente innanzi gli sta. Egli vede impresso nella condizione del luogo, nella natura della pena, nell’aspetto e negli atti dei suoi tormentatori quello stesso che si agita nel suo cuore. Onde nell’inferno le passioni umane sono non solo ricordanza, ma sentimento vivo e presente: il che gli dá l’aspetto della stessa vita terrestre in un colore fosco e tetro. I personaggi sono caratteri perfetti: oltre alla loro colpevole passione, essi serbano tutte le passioni, i vizii e le virtú che ebbero in terra, né in loro è rappresentata pedantescamente l’immagine di ciascun vizio; ma talora, massime quando la colpa non può o non dee ricevere alcuna esplicazione poetica, come ne’ canti decimo, decimoquinto e decimosesto, sono in essi mostrate altre facce del loro carattere, e può cosí il poeta farci sentire ammirazione e pietá per Brunetto Latini, Cavalcante dei Cavalcanti, Iacopo Rusticucci e simili. Il numero de’ personaggi corrisponde all’ampiezza del disegno: infinita varietá di forme individuali. Talora è una semplice indicazione, poche parole con la grave semplicitá di una scritta.

                                    .    .    .    .    .    Anastagio papa guardo,
Lo qual trasse Fotin dalla via dritta.
     
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                                    Guidoguerra ebbe nome: ed in sua vita
Fece col senno assai e colla spada.
     

Alcuna volta si contenta di un solo epiteto, ma di quegli epiteti nuovi e comprensivi, che scolpiscono e perpetuano, che destano la meditazione e slargano la fantasia e che rimangono nella memoria degli uomini come adagi o sentenze.

                                    Questi sciaurati, che mai non fúr vivi.

Vidi il maestro di color che sanno.

Di quel signor dell’altissimo canto.
     

Spesso gli basta lo scarpello; e niuno meglio di Dante ha compreso l’eloquenza del silenzio.

                                    Supin ricadde, e piú non parve fuora.

E per dolor non par lacrime spanda.

     Di quella sozza scapigliata fante.
     

Espressioni mute di estrema angoscia, di forte animo e di turpe laidezza. Non solo il supremo affetto, ma ancora l’ultima viltá non ha parola.

La parola manifesta l’attivitá interiore, ed è segno estrinseco della dignitá dell’anima: quindi, con profondo significato, i poltroni gemono e piangono, ma non parlano. Dante guarda e passa. Altre volte tutto un carattere è giá vivente in un semplice atto prima ancora che parli il personaggio.

                                    Ed ei s’ergea col petto e colla fronte
Come avesse l’inferno a gran dispitto.

     Chi è quel grande che non par che curi
Lo incendio e giace dispettoso e torto?
     
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Ma piú sovente il gesto cospira con la parola alla compiuta, espressione dell’affetto; né ci ha cosa di tanta pietá, quanto i muti atti di Paolo consonanti come una musica malinconica con le parole di Francesca. La parola è la piú compiuta manifestazione dello spirito e il piú docile strumento della fantasia, sola essa che possa ritrarre in tutte le sue misteriose ambagi il cuore umano. In Dante ella prende tutte le forme, dalla prosa del semplice ragionamento fino alla piú alta espressione lirica. Ne’ caratteri comici brevi dialoghi, pronte risposte, amari frizzi, motti grossolani, e malizie e lordure; il fango osceno della vita in rapidi tocchi, quasi l’alto animo del poeta rifugga dal vile spettacolo.

                                    Ché voler ciò udire è bassa cosa.      

La Commedia è una ironia piú o meno delicata della vita; il corpo che fa la parodia dello spirito, la prosa che imita con caricatura la poesia, opposizione tra l’essere e la apparenza, dal cui improvviso contrasto scoppia il riso. Ma il poeta ha l’animo troppo nobile e sdegnoso, né sa indugiare con pazienza lo sguardo sulle umane fralezze: il suo sorriso è amaro; di sotto alla facezia spunto il disdegno, e spesso nella mano la sferza gli si muta in pugnale. Oltreché egli rappresenta comicamente solo la parte piú sozza ed abbietta del carattere umano; sicché i suoi motti e le sue immagini tengono molto del buffonesco e del plebeo; del qual genere è tipo l’ignobile piato di Sinone e Mastro Adamo.

La parola tragica è cosa perfetta. La tragedia rappresenta la lotta impotente dello spirito con la materia, risoluta in una unitá superiore, il Fato, la ragione, la provvidenza, secondo le tendenze e le condizioni razionali de’ tempi. In questo contrasto talora lo spirito si mostra delicato, sensitivo, femminile, con l’eloquenza del dolore senza il sublime dell’azione; talora con piena coscienza della sua dignitá; imprigionato nella materia, si sente libero, e, vinto, ancora serba la sua serenitá e il suo disdegno. Secondo il primo tipo è Pier delle Vigne, Francesca da Rimini, Cavalcante Cavalcanti; secondo l’altro Farinata degli Uberti, Capaneo e Dante stesso: nel conte Ugolino sono ambi [p. 367 modifica]temperati con grande veritá. Le parole di Pietro delle Vigne contengono in sé il disegno di tutta intera una tragedia. L’alto concetto ch’egli ha del suo glorioso uffizio, la gelosa cura con che ne rimove ogni altro, la fede e la riverenza verso il suo Signore, lo sdegno contro i suoi detrattori e il pensiero che si dá della sua memoria giacente sotto i colpi della invidia ci fanno misurare di un guardo la profonditá di quel dolore, che lo condusse a morte. Quel canto è de’ piú belli: è una mesta armonia di diversi elementi, ciascuno de’ quali risponde ad una fibra del nostro cuore.

Nel canto quinto il poeta aggiunge una morbidezza di stile e di favella, che ci fa giá presentire il Petrarca. La nostra lingua è nata con l’amore, il quale ha in lei svolto l’elemento musicale onde va innanzi a tutti gli idiomi moderni; e giá ne’ primi lirici, sopratutto in Cino da Pistoia, essa ha infiorato di quella grazia e leggiadria che fu seme e della sua perfezione e del suo scadimento. Cino ritrae l’amore piú con pensieri delicati che con vivacitá di affetto; e sembra che la bella Selvaggia abbia avuto potere di svegliare ed ornare il suo spirito senza turbare il suo cuore.

In Francesca apparisce l’amore nella sua veritá drammatica, passione sensuale, prorompente, ma nobile e gentile e nello stesso fervore del desiderio casta e pudica. La narrazione si compie con un ultimo tratto di pennello, di una grande veritá e delicatezza, che fa intendere di lá da quello che esprime, rappresentando il pensiero obliquamente e ricoprendo l’immagine col velo del pudore. Il punto scelto dal poeta e apparecchiato con particolari pietosi è quando la passione, lungamente compressa, scoppia; il quarto atto della tragedia, che ci fa intravvedere una segreta storia di affanno e di desio nel passato, è l’imminente catastrofe.

Il mesto accompagnamento di Paolo, il fremito amoroso che invade ancora quelle nude ombre, la profonda pietá del poeta, l’indole tenera ed affettuosa di Francesca, la squisita delicatezza del sentimento e la melodiosa soavitá che spira dalle parole, dai versi, dalle immagini ci fanno in quel punto dimenticare l’inferno o, per dir meglio, ci rendono l’inferno cosa bella e gentile. [p. 368 modifica]

Cavalcante Cavalcanti non è una rimembranza, ma una scena tragica in atto, nuova d’invenzione e di espressione: è il cuore umano palpitante nel gesto. Cavalcante si leva inginocchione: indi si drizza di subito; poi ricade supino, tre statue di un solo uomo corrispondenti a tre gradazioni di un solo affetto. Dapprima è la speranza di rivedere il figliuolo mista d’incredulitá; indi una mortale ansietá; da ultimo la prostrazione e il silenzio della disperazione. Il poeta con grande arte ha innestato questo episodio nel fatto di Farinata, il quale dinanzi a tanto dolore

                                    .    .    .    .    .    .    non mutò aspetto,
Né mosse collo, né piegò sua costa.
     

Cosi, di un tratto solo, ei ci dipinge la forte tempra dell’anima di costui. Farinata fu uomo di parte e insieme gran cittadino. Il parteggiare a quei tempi non era solo legame di opinione, ma insieme sacro vincolo di famiglia, ereditá di vendetta e di odio. Dante ha voluto in lui esprimere questo ideale della inculta energia di popoli giovani, che egli trovò nella stessa sua anima. Farinata comparisce alla fantasia con proporzioni colossali e con la maestá del Giove di Fidia, torreggiante di tutta la sua altezza sulle cose che lo circondano, quantunque dalla cintola in giú giaccia nascosto nell’arca: la quale illusione procede da questo, che la grandezza dell’anima manifestata negli atti di fuori ingigantisce anche il suo corpo. Il suo dire è riciso, rotto, brusco, imperativo: ci si vede l’uomo d’opera e di comando, maggiore della fortuna. La sua anima è piú grande dell’inferno.

                                    Ciò mi tormenta piú che questo letto.      

Concetto sublime espresso con quella naturalezza e semplicitá, con la quale i grandi uomini fanno le grandi cose.

Capaneo è uno de’ caratteri piú sagacemente pensati e con maggior forza ritratti. Il poeta ha in lui unito ciò che la superbia ha di sublime e di basso ad un tempo. Egli non ha vera forza d’animo; e non l’ha appunto perché sen vanta. La sua [p. 369 modifica]noncuranza è apparente; e quel suo giacere dispettoso e torto e l’amarezza del suo sarcasmo mostra bene il suo dispetto, o, per parlare con Virgilio, la sua rabbia.

A vera sublimitá s’alza il carattere di Dante. Siccome il pianto di Solimano desta piú grande pietá che il lamentio di Tersite; cosí la costanza di un animo sensitivo reca maggiore ammirazione che la stupidezza dell’apatia. Dante sente profondamente il dolore dell’esilio; e basta a mostrarlo il modo pietoso onde ne descrive le ambasce per bocca di Cacciaguida; ma il dolore non ha alcun potere sulla sua volontá, che lo torca ad atto vile o a codardo lamento, e, francheggiato dalla pura coscienza, ei si sente tetragono ai colpi della fortuna.

                                    Però giri Fortuna la sua ruota,
Come le piace, e ’l villan la sua marra.
     

Nel canto trentesimoterzo è posta in atto una vendetta straordinaria pari alla qualitá dell’ingiuria: la situazione è la stessa di Macduff, ed è bello ragguagliare insieme due poeti tanto simili di genio e differenti di carattere, come sono Dante e Shakespeare, i due idoli della critica odierna. Ambi hanno saputo trarre partito dalla fanciullezza. Il fanciullo è una immagine serena, la cui candida ingenuitá orna di grazia l’aspetto severo della vita: tale è il figliuolo di Coriolano in Shakespeare, ed in Goethe il figliuolo di Goetz. Ma quando lo si vede trastullarsi in una stanza funebre o sorridere al carnefice di suo padre, quasi come una ironia, tanto piú profonda, quanto meno intelligente, ogni suo equivoco è una scena, ogni parola uno strazio, ed il contrasto che ne deriva porta all’ultimo suo grado l’effetto tragico. In Ugolino il dolore è senza pianto e senza voce; egli ha l’immobilitá della disperazione; ma il suo dolore diviene eloquente nelle lagrime e nelle parole de’ figliuoli: angoscioso contrasto tra i muti atti dell’uno e l’espansiva innocenza degli altri.

                                         Io non piangeva; sí dentro impietrai;
Piangevan elli; ed Anselmuccio mio
Disse: Tu guardi sí, padre: che hai?
     
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Dante è padre obbiettivo per eccellenza; il pensiero e l’affetto non rimane in lui nella astrazione dell’analisi, ma prende figura ed unitá nell’immagine e nell’azione. L’errore, fecondo di tanta poesia, in cui cadono i figliuoli alla vista del padre mordentesi ambo le mani vale tutta una scena rettorica delle comuni tragedie. Le loro poche parole contenenti in una immagine si peregrina e delicata tanta spontaneitá di affetto sono un grido sublime della caritá filiale, che rapisce in ammirazione e diverte alquanto lo sguardo da tanta angoscia. Succede lungo intervallo di silenzio, lenta agonia de’ fanciulli, taciturna rabbia del padre. Un ultimo tratto di puerile semplicitá, al quale bisogna arrestarsi, ove non si voglia inaridire la lacrima, è questo:

                               .    .    .    .    Padre mio, ché non m’aiuti?      

Quale coltello al cuore di un padre! Il fanciullo morente crede che il padre possa aiutarlo! Dante ha immaginata una vendetta di una brutale ferocia proporzionata al disperato dolore. Alla prima vista di Ugolino noi diamo indietro e lo guardiamo con raccapriccio ed orrore; e quando, compiuto di parlare, riprende il teschio misero co’ denti qual è il sentimento che noi proviamo? Lo stesso ribrezzo e raccapriccio. Scena unica, nella quale una profonda pietá è congiunta con insuperabile orrore: quel padre ci fa fremere e ci fa piangere. Shakespeare ha saputo innalzare l’orrore all’altezza del sublime. — «Egli non ha figli!» — Concetto piú atroce ancora, ma che, presentato non agli occhi, ma all’immaginazione, ci fa intravvedere, in una vaga lontananza, l’infinito della vendetta.

Il concetto ha la sua ultima determinazione in Virgilio ed in Dante, che sono, per dir cosí, il recitativo e l’aria della poesia. Virgilio espone e dichiara l’ultima ragione della natura e dell’ordine delle colpe e delle pene con molta sobrietá e semplicitá; e valga ad esempio il canto decimoprimo, stupendo di proprietá e di evidenza. Alcuna fiata ei si allarga alla spiegazione generale delle cose umane, come fa nel canto settimo, ragionando della. Fortuna, se dir si può ragionamento quella tanto vivace [p. 371 modifica]rappresentazione, nella quale ciascun tratto è un pensiero sublime individuato in una immagine sublime: esempio rimasto immortale di come la scienza possa diventare poesia. Dante è la stessa voce del lettore, il grido del suo cuore commosso, le sue impressioni giá prevenute e rappresentate ora nella violenza delle apostrofi, ora nell’impeto eloquente dell’azione. Cosi noi lo vediamo venir meno di pietá ai casi di Paolo e di Francesca, raunare le frondi sparte per caritá del loco natio, rispondere acceso di santa ira a Filippo Argenti, tempestare sopra Genova e Pisa, severo con Niccolò III, duro con Frate Alberigo.

Tale è l’ordito di questo lavoro in ogni sua parte finito, nel quale un’idea onnipresente penetra e vivifica il tutto: maraviglioso per fantasie nuove ed ardite, per un’infinita varietá di situazioni nella severa unitá del disegno, per grandezza di passioni e di caratteri, per la proprietá ed individualitá delle forme, per l’evidenza della rappresentazione ed il calore dell’affetto.