Lo cunto de li cunti/Introduzione/V

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V, Il Cunto de li Cunti, e la novellistica comparata

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V, Il Cunto de li Cunti, e la novellistica comparata
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V.


Il Cunto de li Cunti e la novellistica comparata.


È stata fatta tante volte la storia del sorgere e del progredire degli studii di novellistica popolare, che, davvero, non è il caso di rifarla. È, ormai, cosa notissima, come dalle raccolte di fiabe, fatte in varii tempi e in varii luoghi, per iscopo artistico o educativo1, si passasse, nel 1812, alla prima raccolta scientifica coi Kinder und Hausmärchen dei fratelli Grimm. E, da quel tempo in poi, studiosi di tutti i paesi, — ed è forse difficile trovare in altro campo di studii tanta fratellanza! — , hanno messo in luce e studiato un immenso materiale, raccolto dal popolo, e si sono adoprati a trarne conclusioni generali per gli studii di psicologia, di storia, di etnologia, di filologia2.

Ora, nell’opera fondamentale dei fratelli Grimm, nel terzo volume, pubblicato la prima volta il 1822, facendosi una specie di rassegna di tutta la letteratura delle fiabe, il primo luogo, per importanza, era assegnato al [p. clii modifica]Cunto de li Cunti del Basile. «Questa raccolta di fiabe, — essi dicevano — , tra quante ne furono state fatte presso qualunque popolo, fu, per un pezzo, la migliore e la più ricca. Non solo la tradizione allora era per se stessa ancor più completa, ma l’autore possedeva anche, con l’esatta conoscenza del dialetto, un’abilità tutta sua nel raccoglierle ed entrar nello spirito di esse. Il contenuto è quasi senza lagune, e il tuono, almeno pei napoletani, perfettamente indovinato; il che gli dà un vantaggio sullo Straparola ........ Si può, dunque, considerare questa raccolta di fiabe, pel suo ricco contenuto, come fondamento delle altre; perchè, quantunque nel fatto non sia cosi, ed anzi non fosse nota fuori del suo paese, e nemmeno tradotta in francese, tuttavia, nel complesso della letteratura popolare, può rappresentare questa parte. Due terzi delle fiabe, ch’essa contiene, si ritrovano, nei loro tratti essenziali, in tedesco, e ancora viventi. Il Basile non ha fatto nessun cangiamento; raramente si è permesso un’aggiunta di qualche importanza; il che dà, anche da questo lato, alla sua opera un valore singolare»3.

Con queste parole, l’opera del Basile fu indicata agli studiosi di tutto il mondo, e uscì dalla mezza luce, nella quale era stata tenuta, come opera scritta in dialetto, e in un dialetto dell’Italia meridionale. Varie novelle furono anche tradotte in tedesco4. [p. cliii modifica]

Ma nel 1846 Felice Liebrecht, testè defunto, nome caro ai cultori di questi studii, seguendo lo stimolo, che era venuto agli studiosi dalle parole dei Grimm, presentava al pubblico una traduzione tedesca completa del Cunto de li Cunti. Uscì, in due volumi, a Breslan, con questo titolo: Der Pentamerone, oder das Märchen aller Märchen von Giambattista Basile, aus dem Neapolitanischen übertragen von Felix Liebrecht, mit einer Vorrede von Jacob Grimm5.

Il Grimm coglieva l’occasione di quella prefazione, per metter sempre in maggior luce l’importanza artistica e filologica del Cunto de li Cunti. E, accennando all’opera del traduttore, diceva: «Tradurre in tedesco il Pentamerone, che esprime tutta la singolarità del dialetto napoletano tanto diverso dal comune italiano, non è cosa facile. Se è già una faccenda seria il solo intender bene tutte quelle immagini, comparazioni, giuochetti di parole, [p. cliv modifica]espressioni d’amore, rimproveri, maledizioni, caldi e vivi come produzione orientale; una difficoltà molto maggiore s’incontra, quando si vuol trasportarli in una lingua, che non ha bastante pieghevolezza, da render questo stile ampolloso in tutti i suoi naturali ghirigori e le sue grazie. Il nostro moderno tedesco, e i tempi nostri sono troppo composti e serii da assumere simili imprese! Un Fischart, col vocabolario e i costumi del secolo XVI, se un simile libro gli fosse venuto tra mano, avrebbe potuto lasciar libero giuoco alla lingua, e colle indomate parole ed espressioni d’allora, che accanto all’onesto dicono, senza rispetto alcuno, anche il disonesto, accanto al pulito, anche il poco pulito, avrebbe potuto raggiungere, anzi superare, il quadro originale. Io avevo consigliato al traduttore (della cui fondamentale intelligenza del testo originale nessuno vorrà dubitare), di sopprimere tutto ciò, che urterebbe il lettore moderno; e comprendo che gli dovesse sembrar arrischiato il rompere la fedeltà e la completezza della sua opera. Ma le parole e le frasi, che a noi ora sembrano basse e triviali, quando anche esse rispondano alla lettera del testo, sono diventate più rozze e più dure per noi, perchè, noi moderni, abbiamo tutt’altri concetti della decenza, e un Trattenemiento de peccerille, innocuo, a Napoli, nel seicento, non potrebbe darsi in mano alle nostre donne e ai nostri fanciulli»6. [p. clv modifica]

Il Liebrecht osò affrontare pel primo tutte le difficoltà del testo del Basile, veramente enormi per uno straniero. Ed erano anche maggiori allora, nel 1846, di quel che sono ora, saranno fra breve. Senza un buon vocabolario napoletano7, senz’aiuto di studii e commenti fatti da scrittori italiani sull’argomento, il Liebrecht dovè, per intendere il suo testo in tutti i suoi particolari, ricorrere agli aiuti della scienza filologica e allo studio diretto degli altri scrittori napoletani, e, specialmente, dei contemporanei del Basile. E, col suo acume, e colla sua diligenza, giunse ad acquistare un’intelligenza, quasi in ogni particolare, completa del testo, che veramente è mirabile. In pochissimi punti errò, quasi sempre per colpa delle scorrette edizioni, che fu costretto ad avere sott’occhio, giacchè egli potè solo confrontare l’edizione del Sarnelli del 1674, che gli parve, ed è difatti, la migliore, rispetto alle seguenti, e specie a quella del Porcelli.

Né è minore il merito letterario dell’opera: con grande facilità e felicità, alle espressioni e alle immagini del Basile, il Liebrecht seppe trovare le equivalenti nella lingua tedesca. E l’ingegno artistico di Gian Alessio Abbattutis vive e palpita, in questa traduzione, in tutto il suo bizzarro e originale carattere. [p. clvi modifica]Poche note aggiunse il Liebrecht, varie delle quali preziose; ma, nelle note, volle essere molto sobrio8, e non volle entrare nel ginepraio dei confronti novellistici, contentandosi dei pochi cenni dati, su alcune delle novelle, dal Grimm, nella prefazione. La mancanza, a quei tempi, di raccolte italiane di fiabe rendeva, del resto, necessaria quest’astensione.

V’aggiunse ancora un lavoro sul dialetto e la letteratura dialettale napoletana9, ch’è fatto con molto garbo, ma ha un valore, più che altro, didascalico, pel pubblico tedesco. Si trovano in esso le acute osservazioni, delle quali s’è tenuto conto, sulla forma e sullo stile artistico del Basile.


Dopo questa fortuna avuta, il Cunto de li Cunti entrò a far parte di tutte le biblioteche dei folkloristi, più spesso nella traduzione, che nelle rare edizioni dell’originale napoletano, e, col nome del Basile o del Liebrecht, è stato ed è continuamente citato.

Due anni dopo, se ne pubblicava anche una traduzione inglese con questo titolo: The Pentamerone, or The story of stories, Fun far the little Ones, by Giambattista Basile, translated from the Neapolitan by John Eduard Taylor, with illustrations by George Cruikshank. [p. clvii modifica]Traduzione eccellente, a giudizio del Liebrecht, che però non contiene se non trentuna fiabe, perchè le altre 19 furono tralasciate come non adatte ai fanciulli, ai quali il libro principalmente si dirige10.

Lo stesso Liebrecht, nel 1851, pubblicando una traduzione tedesca dell’opera già citata del Dunlop, e annotandola largamente, ne prendeva occasione per aggiungere, nelle note, una serie di osservazioni e correzionia varii punti della sua traduzione del Cunto de li Cunti11.

E, in Italia, chi ravvivò la fama del Basile presso noi, guardandolo sotto il nuovo aspetto, fu Vittorio Imbriani, il quale fu anche dei primi che iniziasse presso di noi gli studii di letteratura popolare. Nel 1875, nel Giornale napoletano di filosofia e lettere, l’Imbriani pubblicava lo studio col titolo: Il Gran Basile. Ma l’Imbriani, veramente, studiò nel Basile piuttosto l’artista che il folklorista, o, com’egli avrebbe voluto che si dicesse, il demopsicologo.

La traduzione bolognese si è seguitata a ristampare ai nostri tempi, ed una ristampa ha avuto anche l’orrida traduzione italiana12; e, recentemente, se n’è fatta una nuova scelta e traduzione, o meglio, riduzione, per fanciulli, di solo diciotto fiabe, tratte dalle due prime giornate, per cura di Giustino Ferri13. [p. clviii modifica]

Il Basile raccolse le sue fiabe direttamente dal popolo. La freschezza dei suoi racconti manifesta la loro diretta origine popolare. E, poi, quali sarebbero le sue fonti letterarie? Collo Straparola, egli ha comuni solo alcune fiabe. Il T. III della G. I (Peruonto) si riscontra con la novella I della III notte dello Straparola. Il T. IV della G. II (Cagliuso) con quella I della XI. Il T. I della G. V (Lilla e Lella) Con la II della V. Il T. VII della G. V (Li Cinco Figlie) con la V della VII. Questi riscontri notò il Grimm14; ma altre ve ne sarebbero da aggiungere. Così nello Straparola (X, 3), Cesarino di Berni che libera una principessa destinata ad esser parto d’un dragone; e, ucciso il mostro, gli spicca la lingua, di cui si vale in seguito contro un impudente contadino, che si vantava presso il re di essere l’uccisore del drago», di tal che sposa poi la principessa; si riscontra, per tutta questa parte, col Cienzo del T. VII, G. I, del Cunto de li Cunti. E somiglianze di particolari motivi non mancano.

Ma, con tutto ciò, la conchiusione del Grimm che: «fatto il confronto, si vede chiaro che il Basile scriveva indipendentemente dallo Straparola», resta, a me sembra, indubitata e indubitabile15.

Alcuni altri riscontri si potrebbero trovare di fiabe del [p. clix modifica]Basile con altre, antecedentemente messe in iscritto. Così la prima parte del Vardiello (I, 4) è precisamente la novella XLIX del Morlino: De matre, quae filium custoditum reliquit’’16. Ma un racconto tanto popolare, come pensare che il Basile lo desumesse dal Morlino? E come avrebbe fatto ad atteggiarlo, nell’espressione e nel dialogo, a quel modo tutto popolare, se non era il popolo stesso che glielo dettava?

Il soggetto del T. II, G. II (Verde prato), è questo: «Nella è amata da no prencepe, lo quale, pe no connutto de crestallo, va spesse vote a godere cod essa. Ma, rutto lo passo da le midiose de le sore, se taccareja tutto, e sta nfine de morte. Nella, pe strana fortuna, ntenne lo remmedio, che se pò fare, l’appleca alo malato, lo sana, e se lo piglia pe marito». E si riscontra di tutto punto con una novella, contenuta nell’Angitia Cortigiana de natura del cortigiano (Roma, MDCL), di M. A. Biondo, e ch’è riassunta dal Passano a questo modo: «Narrasi come un gentiluomo, chiamato Pennaverde, per andare a ritrovare l’amata, passasse attraverso un tubo di cristallo; il quale rotto ad arte dalla sorella della ganza, gli lacerava le carni, in modo da condurlo in fin di vita, ed in qual maniera fosse salvato dall’amante»17. Ma anche questo è un racconto molto popolare, e se ne conoscono numerose versioni. [p. clx modifica]Un riscontro, che dà più da pensare, è quello notato dal Rua tra il T. IX della G. III, Rosella e la novella di Filenia, inserita nel C. XXI del Mambriano, Il riscontro è perfettissimo in ogni particolare (salvo un solo, di poca importanza), e l’ipotesi dell’imitazione, fatta dal Basile, acquista più probabilità, «quando si osservi che la mancanza nella novella del Cieco, e anche in quella del Basile, di alcuni tratti popolarissimi e comuni a tutte le versioni, fa pensare ad un rimaneggiamento operato dal poeta nella fiaba popolare»18. Checchè si pensi di ciò (e, in verità, anch’io inclino alla conclusione del Rua), si può sempre affermare con sicurezza che nel Cunto de li Cunti la corrente letteraria, se non fu nulla, fu tanto piccola, da non doverne quasi tener conto.

Circa poi alle variazioni, che il Basile abbia potuto introdurre nella tradizione popolare, esse consistono quasi soltanto in ricami formali, e appena, qua e là, si sorprende qualche particolare di sua invenzione, come l’originalissima pittura della Casa del Tempo nel T. VIII della G. IV19. [p. clxi modifica]

La ricca messe di tradizioni popolari, raccolte dal Basile, rientra quasi tutta in quel genere della produzione novellistica popolare, che più propriamente si chiamano fiabe. Di certo, classificazioni logiche e profonde, nel campo della novellistica, non sono ancora possibili; ma la distinzione delle fiabe dalle leggende storiche o religiose, dagli apologhi, dalle facezie, e anche, dalle semplici novelle, è cosa, che basta enunciarla, perchè s’intenda.

Di trattenemienti, che non sieno fiabe, nel Cunto de li Cunti ve ne son pochi. Vi è, prima di tutto, qualche novella semplicemente faceta. Tal’è quella, intitolata lo Compare (II, 10), nella quale si racconta come «Cola Jacovo Aggrancato ha no compare alivento, che se lo zuca tutto, nè potenno co arteficie e stratagemme scrastaresillo da cuollo, caccia la capo da lo sacco, e, co male parole, lo caccia da la casa».

Il T. II della G. IV (Li dui fratielle) è, — come disse il Grimm — , piuttosto una novella morale (sieht eher einem Lehrgedicht ähnlich). Vi si narra come: «Marcuccio e Parmiero, fratielle, uno ricco e viziuso, n’autro vertoluso e pezzente, se vedono, dapò varie fortune, lo povero scacciato da lo ricco deventato barone, e lo ricco, caduto nmeseria, connutto vicino la forca. Ma, canosciuto nocente, è da lo frate recevuto a parte de le ricchezze soje». [p. clxii modifica]

Qualche altra si avvicina piuttosto alla novella, perchè non vi è mescolanza di persone e cose meravigliose. Così quella di Vardiello (I, 4), che, «essenno bestiale, dapò ciento male servizio fatte a la mamma, le perde no tuocco de tela, e, volenno scioccamente recuperarela da na statola, deventa ricco». Cosi l’altra, la Serva d’aglie (III, 6), nella quale si narra di Belluccia, che, travestita da uomo, va a trattenersi in casa di un amico di suo padre; ed, essendosi il figlio di quest’ultimo innamorato di Belluccia, cerca di scovrirla per donna, quale egli tiene per fermo che sia, e, dopo varii tentativi, ci riesce, e la sposa. Così la Soperbia castecata (IV, 10), che racconta come un re, disprezzato da Cinziella, figlia di re, giungesse a vendicarsene, a possederla, a ridurla a vita miserabile, finchè, dopo averla abbassata e punita, la rialza e la sposa. Così la Sapia (V, 6), che narra come: «Sapia, figlia de na gran baronessa, fa deventare ommo accuorto Cenzullo, ch’era figlio de lo re, che non poteva capere lettere. Lo quale pe no boffettone che le dette Sapia, volennose vennecare, se la pegliaje pe mogliere, e, dapò mille strazie, avutone, senza sapere cosa nesciuna, tre figlie, s’accordano nsieme».

Ma, tutte le altre, appartengono al regno delle fate e degli orchi. Sono strane avventure, con la cooperazione di esseri soprannaturali, che non si riattaccano alle credenze cristiane del popolo che le racconta: misteriose tradizioni, che, pel popolo stesso, hanno un valore tutto fantastico. Una parte del contenuto di esse sono passioni, avventure, casi, che accadono, più meno comunemente, nella vita; ma le relazioni di questi fatti vengono tutte [p. clxiii modifica]alterate dall’intrusione di quegli esseri meravigliosi, e dal concepire il meraviglioso e lo strano come una condizione normale delle cose.

Passando a discorrere degli esseri soprannaturali, «per quanto, — dice il Grimm — , sia grande la ricchezza e la varietà di queste fiabe, cosicchè ve ne sono pochissime simili, e vi si vede una provvista veramente inesauribile degli elementi costitutivi; tuttavia, tutte le altre leve mitiche si possono metter da parte, non operando in esse se non due sole categorie di esseri soprannaturali. Cioè, i buoni e favorevoli, che sono sempre femminili, e i cattivi e sfavorevoli, che si dividono per contrario nei due sessi, e quelli si chiamano fate, e questi ora uerco, ora orca. La fata corrisponde alla gute o weise Frau e l'uorco al wilder Mann o Riese della mitologia tedesca..... È notevole l’assenza da queste fiabe d’ogni figura cristiana: nè Maria, madre del Signore, nè gli angeli, nè il demonio v’hanno una parte, o c’entrano in alcun modo, laddove nelle fiabe tedesche appaiono spesso. Evidentemente, fata e uerco hanno origine latina, cioè romana, e sarebbe stolto attribuirne loro una celtica»20.

Il demonio e altri esseri maligni, sono nominati, qua e là, in modo vago, ma non compariscono mai con personalità spiccata21. Oltre le fate e gli orchi, s’incontrano in queste [p. clxiv modifica]fiabe, alcune personificazioni, come il tempo, i mesi (IV, 8, V, 2); uomini dotati di facoltà meravigliose (I, 5; III, 8); animali fatati, come un asino cacaure (I, 1), un dragone (I, 7), gatti (II, 4, III, 10), uno scarafaggio, un topo e un grillo (III, 5), un uccello fatato (IV, 5), ecc.; fate, principi, orchi, per capriccio o per destino, sotto spoglia di un animale, anche in una pianta: come una mortella, ch’è una fata (I, 2), una lucertola (I, 8), una cerva (I, 9), un serpe (II, 5), colombi (IV, 5); oggetti dotati di mirabili qualità: come un’erba che fa risuscitare i morti (I, 7), un cuore d’animale, una foglia di rosa, che fanno ingravidare (I, 9; n, 8), ghiande, tovagliuoli, bastoni, anelli, datteri (II, 1; I, 1; III, 4; IV, 1; I, 6), il grasso della volpe di un orco impiegati come rimedii per malattie mortali (II, 5; II, 2); finalmente, maledizioni di effetto sicuro, dalle quali è difficile redimersi {Ntr.; II,7; III, 9).

L’elemento morale è il solito delle fiabe, coll’infallibilità distributiva dei premi e delle pene, secondo le virtù e i vizii, non senza qualche ferocia di procedimenti qualche mancanza di scrupoli, che sono caratteristici ricordi di un mondo passato.


Ma i cunti del Basile non sono proprietà particolare del volgo napoletano, dal quale egli li raccolse. Le varie raccolte di fiabe, dei varii paesi d’Europa, e non solo d’Europa, che si vennero pubblicando, rivelarono, prima di tutto, questo fatto: la comunanza della tradizione novellistica tra varii e lontani paesi. [p. clxv modifica]

E, da circa un secolo, gli studiosi si adoprano a notare queste somiglianze, a raccogliere e classificare i varii racconti e i varii elementi costitutivi di essi, riunendoli in famiglie novellistiche, e, finalmente, a cercar di spiegarsi il modo dell’origine e la ragione della comunanza.

Ogni raccolta porge nuovi elementi ad arricchire e illustrar meglio la storia dei singoli gruppi; il che è la preparazione necessaria, per risolvere le quistioni più importanti, della natura e dell’origine.

Il Cunto de li Cunti conserva versioni importanti e, relativamente, più antiche, di molte novelle tipiche. Accenniamo rapidamente ad alcune delle principali di esse, e alle loro relazioni con lo altre versioni, come un saggio delle osservazioni, cui può dar luogo il libro del Basile.

E noi troveremo, anzitutto, che varii trattenemienti appartengono al gruppo di quella, ch’è la fiaba più famosa e più ricca di storia, la fiaba di Psiche. — Cosi il nono della G. II, nella quale si racconta di Luciella, che, andando ad attinger acqua a una fontana, trova uno schiavo, che la invita a seguirlo, promettendole tante belle cose. Luciella lo segue, per una grotta, in un bellissimo palazzo sotto terra; dove è riccamente trattata e servita. E la sera si corica a un letto, tutto racamato de perne e d’oro, nel quale, a lume spento, le si viene a coricare allato un essere sconosciuto. Alcuni giorni dopo, essa ha voglia di rivedere la famiglia e le sue due sorelle; le quali, invidiose, le mettono in mente il pensiero di scoprire chi dorma al suo lato. E le consigliano di gettar via, la sera, fingendo di berla, la bevanda, o sonnifero, che le porge lo schiavo, e vedere così il marito dormente, e [p. clxvi modifica]le danno anche un catenaccio, ch’essa deve aprire per metter fine all’incanto. Così fa Luciella, e si vede accanto un bellissimo giovane. Essa apre il catenaccio, e le sfilano davanti varie donne, che portavano in testa del filato: ad una delle quali cade a terra una matassa. Luciella le grida che la raccolga; ed, a quella voce, il giovane si sveglia, s’adira dell’essere stato scoperto, fa rivestire Luciella dei suoi cenci, e la manda via. E la povera Luciella torna a casa sua, ed è scacciata dalle sorelle, e va girando pel mondo finchè, dopo lungo errare, capita al palagio di un re. Qui è accolta per compassione da una damigella di corte, e partorisce un bellissimo bambino. Ma la notte, mentre tutti dormono, entra un giovane, che dice rivolto a quel bambino alcune strane parole. La damigella ne dà avviso alla regina, che lo sorprende, lo riconosce pel suo figlio, l’abbraccia; e, con questo, cessato l’effetto della maledizione avuta da un’orca, lo riacquista; e il principe sposa Luciella.

Nel T. IV della G. V, Parmetella, cercando di sradicare no turzo d’oro in un bosco, ha la stessa fortuna: un’abitazione meravigliosa, con un marito misterioso, ch’essa perde per la curiosità del volerlo vedere di notte. E lo riacquista, dopo grandi tormenti e grandi prove.

Altri particolari della stessa fiaba si trovano più volte ripetuti: l’invidia delle due sorelle (II, 2, 3); il giovane, che, scoverto, fugge, abbandonando la sua sposa (II, 5); ecc.

Come si sa, le versioni di questa fiaba sono moltissime, e, oltre le numerose elaborazioni letterarie22, se ne [p. clxvii modifica]conosconoversioni raccolte recentemente in ogni parte d’Italia, e in molti altri paesi d’Europa.

La non meno celebre fiaba della Cenerentola è rappresentata nel Cunto de li Cunti dalla Zezolla del T. VI della G. I. La quale, dopo avere, ad istigazione di una sua maestra, uccisa la madrigna, e persuaso il padre a sposar colei, è maltrattata e spregiata dalla nuova madrigna e dalle figliuole, che porta in casa. Ma una fata, che le era diventata amica e protettrice, le manda in dono una pianticella fatata, che le rende possibile di trasformarsi come vuole. E si trasforma, e, splendidamente abbigliata, va alle feste, dove vanno le sorelle, e innamora di sè un principe; il quale, finalmente, giunto a conoscerla, per mezzo di un chianiello, che le era caduto nel tornare precipitosamente a casa, la fa sua sposa.

Ed, anche di questa, le versioni sono abbondantissime, e basti citare la famosa Cendrillon del Perrault, elaborazione artistica, che dette alle fiabe una seconda popolarità.

Molti altri trattenemienti fanno parte di quel ciclo dello sciocco fortunato, ch’è uno dei più ampii. E Antuono, che ha da un orco tre oggetti fatati, i quali perde e poi riacquista (I, 1); è Peruonto, che riceve la fatazione che ogni suo desiderio sia subito recato ad effetto (I, 3); è Vardiello, che vende la tela della madre ad una statua (I, 4); è Nardiello, che, mandato tre volte a mercatare dal padre, compra una volta un topo, un’altra uno [p. clxviii modifica]scarafaggioe la terza un grillo, che sono poi causa della sua fortuna (III, 5); è Moscione, che, mandato via dal padre, incontra quattro persone diversamente virtuose, che gli fanno acquistare grandi ricchezze (III, 8). — La novella dello sciocco si racconta in India come in Russia, in Germania come in Italia; e presso di noi il De Gubernatis l’ha fatta, recentemente, oggetto di un suo studio23.


Una delle fiabe più notevoli della raccolta pareva al Grimm la V della G. V: Sole, Luna e Talia. In Germania è questa la fiaba di Dornröschen: «Nasce una figlia a un re, e dodici fate sono invitate al festino, innanzi a ciascuna delle quali è posto un piatto d’oro. Quando undici di esse hanno pronunciato le loro fatazioni, entra una tredicesima, non invitata, per la quale manca il piatto d’oro. E questa allora, irritata, annuncia che la bambina, divenutta giovinetta, si pungerebbe a morte per mezzo di un fuso. Ma la dodicesima fata, che non aveva ancora parlato, mitiga la maledizione, dicendo che la giovinetta sarebbe solo caduta in un sonno da durare cento anni. Il Re fa togliere tutti i fusi dal suo reame; ma, quando la fanciulla ha raggiunto i quindici anni, giunge un giorno a una torre cadente, dove una vecchia fila; la curiosa fanciulla stende la mano al fuso; ma, subito, si punge cade in un profondo sonno. Tutte [p. clxix modifica]le genti, tutti gli animali nel castello, financo, il fuoco nella cucina, cominciano a dormire. E, intorno al castello, cresce uno spineto così folto, che nessuno può penetrarvi. Dopo molti anni giunge un liberatore». L'attinenza di questa fiaba, — dice il Grimm — , col mito di Brunilde è evidente. « Lo stesso nome: Dornröschen, riconduce alla spina, colla quale Odino punge la valchiria Brunilde, e la immerge in un profondo sonno. Chiusa nell’elmo, e nella corazza, dorme la valchiria, in una stanza inaccessibile e circondata di fiamme, sul monte Hindar. Era riserbato a Sigurd di rompere i suoi legami, cioè di trarre fuori la spina; dopo di che, la sposa. Ed è da notare che, se essa è chiamata Hörgfn, lini datrix, ciò si potrebbe intendere qui piuttosto nel senso di filatrix, perchè tutte le valchirie e le parche filano».

In Francia, è la fiaba della Belle au bois dormant. Anche la fiaba francese comincia colla scena del battesimo, cui intervengono le fate, e continua come nel Dornröschen; solo che le genti e gli animali si addormentano non da sè stessi, ma al tocco della bacchetta della fata. Dopo cento anni, giunge un figlio di re; gli alberi gli fanno largo; va alla bella, s’inchina, e la sveglia. Passa due anni con lei, che gli partorisce una figlia, Aurore, e un figlio, Jour, e la fine della fiaba racconta la. persecuzione della vecchia regina contro questi due bambini, e come vengano salvati.

Nel cunto del Basile, manca la scena dell’invito delle fate e dell’ira di una di esse: vengono solo i saccienti e nevine, e predicano la morte per mezzo di un’aresta de lino. Quest'introduzione si trova invece in un altro [p. clxx modifica]cunto: nell’VIII della G. II, dove si racconta che Lella fa una figlia: «a la quale puosto nomme Lisa, la mannaje a le fate; la quale ognuna le dette la fatazione soja; ma l’utema de chelle, volenno correre a vedere sta peccerella, sbotatose desastrosamente lo pede, pe lo dolore la jastemmaje: che a le sette anne, pettenannole la mamma, se le scordasse lo pettene drinto a li capille mpizzato a la capo, de la quale cosa moresse». E la fiaba ha altri punti di somiglianza con quella di Sole, Luna e Talia.

Il re padre prende ogni sorta di precauzione, perchè non ci sia una sola conocchia nel castello. Ma un giorno, Talia vede passare una vecchia che fila, vuol vedere la conocchia, si punge e muore. Il padre la fa collocare su di un trono, e abbandona il palazzo. Ma, qualche tempo dopo, a un re, che va a caccia, per quei luoghi, sfugge un falcone, che vola a posarsi su una delle finestre del castello abbandonato. Il re batte alla porta: nessuno risponde. Entra, e trova Talia addormentata. E, invaghito della sua bellezza, cosi, addormentata, egli la gode, e se ne riparte. Dopo nove mesi, Talia, sempre addormetata, partorisce due figli, che due fate le pongono al petto. Ma una volta che i bambini non riescono a trovare il petto materno, le prendono il dito, e succhiano, e le traggono l’aresta, ed ecco, Talia si sveglia. Il Re torna qualche tempo dopo; trova i due bambini. Sole e Luna, e promette di venire a ripigliarli. Ma la Regina penetra la cosa; e cerca (come nella fiaba francese) di fare ammazzare e cucinare i due bambini: il che le riesce vano.

«Ciò che mi sembra più notevole, — conchiude il [p. clxxi modifica] Grimm — , è il falcone, che volando indica il castello; perchè egualmente nel Völsungara, cap. 24, quando Sigurdo si avvicina a Brunilde, fugge il suo sparviere nella torre, e si pone alla finestra, e Sigurdo lo perseguita, e trova la valchiria dormente: qui i due racconti, nel resto differenti, sono simili in modo sorprendente. Anche la gelosia della regina per Talia indica una relazione simile a quella tra Gudrun e Brunilde, e il sonno di Talia nel castello, è, di tutto punto, il sonno della valchiria. È bello il tratto che i due fanciulli poppanti le traggano dal dito l’aresta col succhiare: i nomi dei fanciulli presi dai giorni e dagli astri sembrano tradire esseri divini del paganesimo»24.


Un altro riscontro nelle tradizioni mitologiche germaniche, ritrovano i Grimm nel T. V della G. IV. Ivi si racconta di un re di Auta Marina, che aveva fatto forza a una giovane, e poi l’aveva fatta murare in uno stretto carcere. La giovane è protetta da un uccello, ch’è una fata: la quale la nutrisce, e ne piglia cura. E, quando si sgrava di un bambino, l’uccello fa in maniera che il bambino esca dal carcere, capiti nelle cucine del re, e sia poi chiamato in corte. Il re gli mette amore, ma la regina non può soffrirlo, e persuade il re a chiedergli varie cose impossibili, e a mandarlo a varii pericoli, dai quali [p. clxxii modifica]riesce sempre incolume, e con onore, per l’aiuto dell’uccello. Gli chiede tre castelli in aria, e l’uccello li fa fare di cartone, e trasportare in aria da tre grifi. Gli chiede che vada ad accecare una maga, che s’era impadronita del suo regno, e l’uccello fa compiere l’opera da una rondine. Gli chiede, infine, che vada ad uccidere un gran dragone, fratello della regina; e Miuccio, con un’erba datagli dall’uccello, addormenta il dragone, e poi l’ammazza. Con la morte del dragone muore la regina, la cui vita era collegata alla vita di quello, e dovrebbe essere bagnata nel sangue del dragone per risuscitare. Ma, in questo, Miuccio riconosce sua madre, e il re la piglia moglie, e l’uccello si muta in una bellissima giovane, che sposa Miuccio, e la regina morta resta morta.

Le somiglianze di questa fiaba con la leggenda di Siegfried, — dicono i Grimm — , sono evidenti. «La nascita segreta del bambino, il basso servigio presso il cuoco, ricordano la fanciullezza di Siegfried. Poi la vediamo aiutato da un uccello, che ci ricorda quegli uccelli, la cui lingua Siegfried conosce, e dai quali riceve ed accetta consigli. La regina adirata si riscontra con Brunilde, e nel tempo stesso con Reigen, ch’è quello che spinge Siegfried alla lotta col dragone. Il dragone è anche qui fratello della regina, e la vita dell’uno legata a quella dell’altro. Essa vuol essere bagnata nel suo sangue, come Reigen chiede il sangue del cuore di Fafner»25. [p. clxxiii modifica]

La fiaba del Chat Botté, — una delle fiabe più antiche e fondamentali, dice il Grimm — , è rappresentata nel Cunto delli Cunti da Cagliuso (II, 4). Gli stivali appaiono nella versione francese, e sono un tratto molto grazioso, ma non essenziale. La versione più antica è quella dello Straparola (XI, i). Una donna, madre di tre figliuoli, venendo a morte, lascia al primo dei figli un alburlo, al secondo una panara, e al terzo una gatta soriana. I due primi, col prestare i due oggetti, trovano il modo di tirare innanzi la vita; non così il terzo, Costantino, colla sua povera gatta. Ma la gatta era fatata, e prende a proteggere Costantino. Uccide, per esempio, una lepre e la porta al re, come dono del suo padrone: il re le fa assai accoglienze, le dà da mangiare e da bere; ed essa riempie la sua bisaccia ed approvvigiona Costantino. Poi, un giorno, lo fa gittare nel fiume, presso il palazzo reale, e grida all’aiuto: il Re manda gente ad aiutarlo, e la gatta, con una vera simulazione di reato, racconta che era stato assalito da alcuni ladroni e spogliato delle sue gioie. Costantino è fatto rivestire, ed è riccamente regalato. E il re, nella credenza che colui fosse un gran signore, gli dà la figliuola per moglie. Partono gli sposi, e la gatta li precede, e, con un suo stratagemma, fa dire a tutta la gente dei luoghi, pei quali passa la comitiva, che quelle sono terre di Messer Costantino. Finalmente, lo conduce a un bel castello, del quale, per lo stesso stratagemma, lo dice signore. Ed, essendo morto, [p. clxxiv modifica]per avventura, il vero padrone del castello, Costantino vi resta colla figlia del re felicemente. Muore poi anche il re, e Costantino gli succede sul trono.

Nel Cagliuso del Basile ci è qualche differenza: manca l’incidente della caduta nel fiume, ch’è sostituito da un invito del re, e da un’andata al palazzo reale. E il finale è diverso: Cagliuso promette alla gatta, che, alla sua morte, la farebbe imbalsamare, e la metterebbe in una gabbia d’oro, e la terrebbe sempre nella sua stanza. La gatta, qualche giorno dopo, si getta a terra, e si finge morta; ma l’ingrato Cagliuso, quando ha notizia di quella morte, dice: «Pigliala pe no pede, e jettala pe la fenestra!» Onde la gatta, fattogli un gran rimprovero, gli volta le spalle e lo abbandona!

Molte versioni, raccolte recentemente, s’avvicinano a questa; così alcune toscane, livornesi, siciliane, abbruzzesi26. Nel Re Messémiglibecca-’l-fumo, nella Novellaia fiorentina dell’Imbriani, è solo mutato il finale, nel quale il beneficato dalla gatta paga la pena della sua ingratitudine, e, sparito il castello, si ritrova nella sua cantina colla sposa accanto, e senza aver da mangiare, nè nulla.

Nei Contes del Perrault, il gatto richiede un paio di stivali al suo padroncino, calzato dei quali compie le sue imprese, e finisce coll’acquistargli il castello di un Orco, che aveva persuaso a trasformarsi in un topo, e, subito, divorato.

Il Grimm riferisce anche una fiaba norvegese, nella quale si riscontrano entrambe le parti, dei regali portati [p. clxxv modifica]al re in nome del suo padrone, e del viaggio attraverso terre altrui, che la gatta fa passare per terre di lui. Anche in questa poi, la gatta s’introduce nel castello di di un Troll; e, quando il Troll sopraggiunge, lo tiene a bada con discorsi fuori la porta, finchè apparisce il sole, e il Troll scoppia. Infine, la gatta chiede al suo padroncino che le tagli la testa. — Non sia mai! — , dice questi. — Tagliami la testa, se no, ti cavo gli occhi! — Malvolentieri le taglia la testa. E la gatta diviene una bellissima Principessa, ch’egli prende per moglie27.


Al gruppo della novellina della Fanciulla dalle mani tronche si riconnettono due cunti. La Penta Manomozza (III, 2) racconta di un re che, rimasto vedovo, vuol prendere per moglie sua sorella, Penta. Anche nel T. VI della G. II si ha l’amore incestuoso di un re vedovo, al quale la moglie morente aveva fatto promettere di non prendere per moglie se non una donna bella come lei: il Re non trova di pari bellezza se non la propria figlia, e vuole sposarla; ma questa, per un legnetto fatato che ha da una vecchia, si trasforma in un’orsa, e gli sfugge. Ma, tornando a Penta, essa, sapendo che il fratello s’era specialmente invaghito delle sue mani, se le fa tagliare e gliele manda in un bacile. Il re, adirato, la fa mettere in una cassa impeciata e gittare a mare. La cassa è tirata a riva da certi marinai, ma la moglie d’uno di [p. clxxvi modifica]questi, per gelosia, rinchiude di nuovo Penta nella cassa e la gitta a mare. La raccoglie il re di Terraverde, che conduce Penta alla sua corte; e, venuta poi a morte la regina, la sposa. Parte il re per un viaggio: Penta, intanto, partorisce un bel bambino. Il messaggiero, che portava la notizia al re, capita a quella stessa riva, e in casa di quella stessa femmina, che aveva gittato Penta a mare la seconda volta. La malvagia donna scambia la lettera, in modo che giunga alla corte un falso ordine del re, che si bruci la madre e il bambino. Invece, per compassione, i consiglieri la cacciano soltanto, e Penta va raminga. Finalmente, capita alla casa di un mago, che la piglia a proteggere. E bandisce che chi venisse a lui e potesse raccontare la più grande sventura, avrebbe avuto una corona e uno scettro. Il re fratello di Penta, e il re marito, il quale aveva scoperto, frattanto, tutto l’inganno, vengono insieme e raccontano le loro storie innanzi al mago. E Penta è riconosciuta, e si concilia col fratello, ed è ripresa dal marito.

È noto che questa novellina fa parte di un intero ciclo, ch’è stato studiato principalmente dal D’Ancona, dal Wesselofsky, dal Puymaigre. E se ne sono passate a rassegna le varianti e i riscontri che se ne hanno nel romanzo francese del secolo XIII, la Manekine, nell’italiana Rappresentazione di S. Uliva, nella Storia della figlia del Re di Dacia, nel Victorial di Dias de Games, ecc. ecc. Questo ciclo ha tre diramazioni. Le versioni della prima contengono il racconto dell’amore incestuoso del padre, delle mani tagliate, del gittamento a mare, e del matrimonio di Penta; e continuano con le persecuzioni di questa per [p. clxxvii modifica]opera della madrigna, o di altra donna. Le versioni della seconda contengono solo la storia di queste persecuzioni, frangiate di molte varianti. Le versioni della terza non contengono più la storia dell’amore incestuoso, e l’amputazione delle mani ha in esse cause diverse.28


In questi gruppi internazionali, è facile fare rientrare le fiabe del Basile. Ma, formati questi gruppi, sorge la domanda: Qual’è l’origine della tale o tal’altra novellina tipica? Anzi, qual’è l’origine delle novelline popolari in generale? E come si spiega la comunanza di esse tra varii popoli?

Nel cercar di rispondere a queste domande si assommano tutti gli sforzi della novellistica comparata. E le risposte, date finora, sono state varie ipotesi, più o meno confortate da un certo numero di fatti. E sono note le varie scuole, che ora disputano in questo campo: la scuola mitica, fondata dai Grimm, che conta fra i suoi sostenitori il Max Müller, la quale vuole che le fiabe sieno puri miti, frammenti dell’antica mitologia aria, personificazioni di fenomeni naturali, specie del sole e dell’alba, patrimonio recato con sè dai popoli arii in Europa; la scuola storica, che ha per capi il Benfey e il Koehler, la quale nega alle fiabe un senso mitico e vuole che sieno pervenute dall’Asia in Europa per varii canali letterarii [p. clxxviii modifica]e popolari, durante il medioevo; e la recente scuola antropologica di Andrew Lang e suoi seguaci, che, considerando le fiabe come sopravvivenze dell’antico stato selvaggio del genere umano, ne sostiene il poligenismo. E non mancano tentativi eclettici, di conciliazione, fra le varie scuole.

Si potrebbero mostrare queste varie scuole alle prese, in particolari esempii, come per la novellina di Psiche, per la Cenerentola, o per la Fanciulla dalle mani tronche. In Psiche chi vuol riconoscere un mito solare, come ha fatto il nostro De Gubernatis29, chi una semplice trasmissione di una novella popolare indiana, come ha fatto il Cosquin, seguace della scuola storica, e chi il ricordo di un antico rito, caduto in disuso, secondo il quale alla donna non era permesso di veder nudo suo marito30. — Anche nella Cenerentola, il De Gubernatis, rappresentante italiano (alquanto avventato, mi sembra), della scuola mitica, scopre un mito solare: l’ombra della notte, che copro colla cenere del suo colore il fuoco del sole31. Ma altri ne ricerca la provenienza storica; il Coote, dopo avere affermata la trasmissione di essa dall’Italia agli altri paesi d’Europa, crede, tuttavia, che l’Italia la togliesse dalla Grecia; il Kestner trova traccia della Cenerentola in una leggenda che riferisce Eliano (II s. d. C.) intorno a Rodope, e mette innanzi l’ipotesi che alla Grecia potesse essere venuta dall’Egitto32. — La Fanciulla dalle [p. clxxix modifica]mani tronche è spiegata dal Wesselofsky col sistema mitico: «la regina che muore è la dea dell’estate, che finisce; la figliuola, è l’anno futuro; il padre, il Dio Wuotan; il cacciatore, che scopre la fuggitiva, l’inverno; le mani tronche sono le foglie che cadono dagli alberi, che rinascono appena tocche dalle acque vivificatrici, ecc.». Ma altri osserverà: «J’avoue que je ne crois pas du tout à ce mythe» e tenterà un’altra spiegazione33.

La controversia diventa più viva e più grave, quando dai singoli casi si passa ad indagare l’origine e la natura di tutto l’insieme delle novelline popolari. Anche qui, come in tutti i rami degli studii, le ultime conclusioni, proprio quelle che più importano, sono, e saranno abbandonate chi sa per quanto!, a una continua disputa.

  1. Da scrittori italiani, portoghesi, francesi, tedeschi: lo Straparola, il Basile, il Troncoso, il Perrault, la D’Aulnoy, il Musäus, il Günther, il Vulpius, ecc.
  2. Eccellenti esposizioni della storia degli studii di novellistica popolare sono, — per dir di libri italiani — , in Pitrè, Fiabe, novelle e racconti popol. sicil., I, pp. XLIII-LVI; e Novelle popol. toscane, Fir., 1885, introd.
  3. Kinder und Hausmärchen, III, 290-i.
  4. Alcune ne tradussero gli stessi Grimm nei Kinder und Hausmärchen, vol. iii. Nel 1816, nel Taschenbuch für Freunde altdeutscher Zeit und Kunst, I. Grimm tradusse Lo Serpe (II, 5). O. L. B. Wolff, nella Keightley s Mythologie der Feen und Elfen (Weimar, 1828) tradusse Cagliuso (II, 4), Lo Dragone (IV, 5), La facce de crapa (I, 8). Nel libro del von der Hagen, Erzählungen und Märchen (Prenzlau, 1825) si trovano tradotti Cagliuso, Li tre Ri Anemale (IV, 3), e Peruonto (I, 3). Un buon numero, ma piuttosto esposte che tradotte, nell’opera Märchensaal, Marchen alter Völker für Jung und All, gesammelt ubersetzt und hgg. von II. Kletke (Berl., 1845). Tolgo queste notizie dall’opera del Liebrecht, II, 326-7.
  5. Breslau, in Verlage bei Josef Max und Komp., 1846, 2 voll.; il primo di pp. XXVIII-412, e il secondo di pp. 340.
  6. Trad. cit., I, pp. VI-VII. Il Liebrecht, però, osserva giustamente, che, quantunque il Cunto de li Cunti sia intitolato: Trattenimiento de peccerille «tuttavia non è opera nè per questi, e neanche pel basso popolo» (o. c., II, 324).
  7. Nel 1846 non c’era se non il Vocabolario delle parole del dialetto napol. che più si scostano dal dialetto toscano, Nap., Porcelli, 1789; del quale è nota la povertà e la mediocrità; di buono non vi si trovano se non alcuni articoletti del Galiani. Il vocabolario del De Ritis fu cominciato a pubblicare il 1845, e, com’è noto, interrotto alla parola: magnare.
  8. Cita a questo proposito la massima del Johnson: Notes are often necessary, but they are necessary evits (o. c., II, 337).
  9. Einige Bemerkungen über den neapolitanischen Dialekt und dessen Literàtur, so wie über Basile insbesonders (o. c., II, 280-338).
  10. Dunlop-Liebrecht, o. c., p. 515.
  11. 0. c., pp. 515-518.
  12. V. s. p. cxlii-iv.
  13. Gian Alesio Abbattutis (Giambattista Basile), Fate benefiche, racconti per i bambini, libera versione di G. L. Ferri, con illustrazioni di E. Mazzanti, Firenze, Paggi, 1889. — di pp. 178.
  14. Kinder und Hausmärchen, III, 291. Si noti però che dove il Grimm dice X, I, bisogna leggere XI, I, e il riscontro dello Straparola (VII, 5) con la nov. 45, del Basile, cioè 5 della V giornata, bisogna correggerlo: nov. 47, cioè 7 della V giornata.
  15. Kinder und Hausmärchen, III, 291.
  16. H. Morlini, Novellae, Fabulae, Comoedia, Parisiis, MDCCCLV, pp. 94-5.
  17. Passano, o. c., Torino, 1878 (erron., nel cap. prec, Bol., 1868), I, 50.
  18. Rua, Novelle del Mambriano, pp. 88-9.
  19. «Ncoppa la cimma de chella montagna trovarrai no scassone de casa, che non s’allecorda da quanno fu fravecata: le mura songo sesete, le pedaniente fracete, le porte carolate, li mobele stantive, e, nsomma, ogni cosa conzomata e destrutta. Daccà vide colonne rotte, dallà statue spezzate, non essennoce autro sano, che n’arma sopra la porta quartiata, dove nce vedarrai no serpe, che se mozzeca la coda, no ciervo, no cuorvo e na fenice. Comme si trasuta drinto, vedarrai pe terra lime sorde, serre, fauce e potature, e ciento e ciento caudarelle di cennere, co li nomme scritte corame arvarelle de speziale; dove se leggeno; Corinto, Sagunto, Cartagene, Troja, è mille autre città jute all’acito; le quale conserva pe memoria de le mprese soje.....».
  20. G. Grimm, Vorrede, cit., I, X-XI. — Sulle fate e gli orchi, cfr. anche Grimm, Deutsche Mythologie, IV ed., Berlin, 1875-8, I, capp. XVI e XVII, e spec, pp. 340-3, e 402.
  21. Così III, 9, la Gran Turchessa muore e va a pagare la norma a lo mastro che l’aveva mezzato l’arte, e il Gran Turco va a casa cauda (inferno), e Rosella si fa cristiana, ecc. ecc.
  22. Cfr. Psiche, Poemetto, e l’Ozio sepolto e l’Olimpia, Drammi di
  23. V. Storia delle novelline popolari, Milano, Hoepli, 1883, pp. 61-87, e cfr. Florilegio delle nov. pop., pp. 139-156.
  24. I. Grimm, Vorrede, l. c., I, pp. XII-XVI. Per questa e per le due novelle seguenti, ho esposto, e qua e là tradotto alla lettera, ciò che ne scrissero i Grimm.
  25. Grimm, Kinder und Hausmärchen, III, 292-3.
  26. V. cit. in Pitrè, Novelle pop. tosc., n. XII, La Golpe.
  27. I. Grimm, Vorrede, l. c., pp. XVI-XXII.
  28. De Puymaigre, Folklore, Paris, Perrin, 1885, pp. 253-77. La fille aux mains coupées. Cfr. i lavori del D’Ancona e del Wesselofsky, dai quali prende le mosse il De Puymaigre.
  29. Storia delle Novelline pop., pp. 254-82.
  30. Menghini, o. c., pref.
  31. O. c., pp. 9-34.
  32. Arch. st. trad. popol., I, (1882), pp. 265-7, Henry Charles Coote, Origine della Cenerentola; II, (1883), pp. 345-52, Hermann Kestner, La Cenerentola, studii di letteratura comparata.
  33. De Puymaigre, o.c., p. 274.