Maria Stuarda (Alfieri, 1946)/Atto terzo

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Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto

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ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Arrigo.

No, l’indugiar non vale; e omai non deggio

piú rispetti adoprare. Onor fallace
mi si fa, mal mio grado: a che assegnarmi
quella insolita stanza?... È ver, che un tetto
mal coll’inganno l’innocenza alberga;
e me non cape scellerata reggia:
ma soverchio è l’oltraggio; aperto è troppo
il diffidare. Al fin si scelga, al fine,
un partito qualunque. — Ormondo chiede
di favellarmi; ei s’oda. Or forse scampo
(chi sa?) mi s’apre, donde io men lo attendo.


SCENA SECONDA

Arrigo, Ormondo.

Arrigo Ben venga Ormondo alla novella corte,

cui niuna havvi simile.
Orm.   A noi son note
tue vicende, pur troppo; e me non manda
quí Elisabetta spettator soltanto:
ma, piena il cor per te di doglia, vuolmi
fra voi stromento d’una intera pace.

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Arrigo Pace? ove appien non è uguaglianza, pace?

Men lusingai piú volte anch’io, ma sempre
deluso fui.
Orm.   Pur, questo giorno a pace
sacro parmi...
Arrigo   T’inganni. È questo il giorno
scelto a varcar meco ogni meta: e questo
a un tempo è il dí, ch’oltre soffrir piú niego.
Orm. Ma che? non credi che sincera in core
sia ver te la regina?
Arrigo   Il cor? chi ’l vede?
Ma, né pur detti, onde affidar mi deggia,
odo da lei.
Orm.   S’ella t’inganna, è giusto
lo sdegno in te. Benché di pace io venga
medíator, pur oso (e a me l’impone
Elisabetta, ove fia d’uopo) offrirti
qual piú brami, o consiglio, o ajuto, o scorta.
Arrigo Ben io, per me, strada a vendetta aprirmi
potrei, se in cor basso desio chiudessi:
ma, pur troppo, né scorta havvi, né ajuto,
che a disserrarmi omai le vie bastasse
della pace, ch’io bramo. Oh duro stato,
quello in cui vivo! Se alla forza io volgo
il mio pensier, tosto, se pur non reo,
rassembro ingrato almeno: eppur, se dolce
mi mostro alquanto, oltre ogni modo accresco
baldanza e ardir di questi schiavi in core,
che d’ogni mal son fonte. A nulla io quindi,
fra quanto imprender pur potrei, mi appiglio:
e spontaneo prescelgo irmene in bando.
Orm. Che vuoi tu fare, o re? S’io dir tel debbo,
peggior del mal questo rimedio parmi.
Arrigo Tal non mi pare: e spero abbia a tornarne
piú danno altrui, che non a me vergogna.
Orm. Ma, non sai tu, che un re fuor di suo seggio,

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piú che a pietá, vien preso a scherno? E ov’egli

pietá pur desti, può appagarsen mai?
Arrigo Che val superbia, ove di possa è vuota?
Non obbedito re, minor d’ogni uomo
io son quí omai.
Orm.   Ma, di privato i dritti
forse racquisti in mutar cielo? o il nome
di re ti togli? Ah! poiché ardir men porgi
col tuo parlar, ch’io ten convinca or soffri. —
Dove indrizzar tuoi passi? in Gallia? pensa,
ch’ivi e di sangue e d’amistá congiunta
la regia stirpe è con Maria; che tutti
fan plauso a lei colá, dove de’ molli
costumi loro ella da pria s’imbevve.
Colá di Roma un messaggier, munito
di perdonanze e di veleni, stassi
presto ad invader, se glien dai tu il campo.
questo infelice regno. A’ tuoi nemici
datti preso tu stesso: e reo sapranno
farti essi tosto...
Arrigo   Ed agli amici in mezzo
fors’io quí sto?
Orm.   Stai nel tuo regno. — Indarno
ti aggiungerei, come l’Ispano infido,
l’Italo imbelle, asil mal certo l’uno,
infame l’altro, a te sarian: piú dico;
(e vedrai quindi se verace io parli)
dal ricovrarti a Elisabetta appresso,
io primier ti sconsiglio.
Arrigo   E asil mi fora,
terra ov’io fui da libertá diviso?
Ciò non mi cade in mente: ivi rattiensi
a forza ancor la madre mia...
Orm.   Nol vedi
chiaro or per te? la madre tua sarebbe
quí men secura e libera, d’assai.

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Nol niego; avversa Elisabetta avesti:

ma si cangian coi tempi anco i consigli.
Vide appena di voi nascer l’erede
del suo non men, che del materno regno,
ch’ella, appieno placata, ogni sua mira
rivolse in lui, quasi a sua prole; e schiva
quindi ognor piú di sottoporsi ell’era
al maritale giogo. Udendo poscia,
che da Maria tenuto eri in non cale;
che i non schiavi di Roma erano oppressi,
e che col latte il regio pargoletto
superstiziosi error bevendo andava,
forte glien dolse. Or quindi ella m’impone,
che se Maria ver te modi non cangia,
io mi volga a te solo; e mezzi io t’offra,
(di sangue no, che al par di te lo abborre)
ma tali, onde tu stesso al chiaror prisco
t’abbi a tornare. — In un, libero farti;
la mia sovrana compiacere; il figlio
piú in alto porre, ed in piú stabil sorte;
trar d’inganno Maria; tuoi rei nemici
annichilar: ciò tutto, ove tu il vogli,
tosto il potrai.
Arrigo   Che parli?
Orm.   Il ver: tu solo
puoi far ciò ch’altri né tentar pur puote. —
Il regio erede, il tuo figliuol fia ’l mezzo
di tua grandezza, e in un di pace...
Arrigo   Or, come?...
Orm. Servo ei s’educa a Roma in queste soglie;
ei, che seder sovra il britanno trono
pur debbe un dí. Ciò di mal occhio han visto
Elisabetta, e il regno suo: recenti
son nella patria mia le piaghe ancora,
onde, instigata dall’ispan Filippo,
altra Maria lo afflisse. Odio profondo,

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eterno, e tale in noi lasciò la ispana

devota rabbia, che morir vuol pria
ciascun di noi, che all’abborrita cruda
religíon di sangue obbedir mai.
Forza fia pur, che il tuo figliuol si stacchi
dal roman culto, il dí che al soglio nostro
ei salirá: non fia ’l miglior per tutti
ch’egli in error, cui dee lasciar, non cresca?
Arrigo Chi ’l niega? E tu, credi me forse in core
ligio a Roma piú ch’altri? Ma il mio figlio,
cui pur anco il vedere a me si vieta,
come educarlo a senno mio?...
Orm.   Ma tutto,
tutto otterresti, se in poter tuo pieno
lo avessi tu.
Arrigo   Quindi ei m’è tolto.
Orm.   E quindi
ritor tu il dei.
Arrigo   Veglian custodi.
Orm.   E’ puonsi
deludere, comprare...
Arrigo   E pon, ch’io l’abbia;
poscia il serbarlo...
Orm.   Io te lo serbo. Al fianco
d’Elisabetta ei crescerá: gli fia
ella piú assai che madre. Ivi altamente
nudrirassi a regnar; sol ch’io pervenga
a trafugarlo, e ti vedrai tu tosto
signor del tutto. Reggitor sovrano
di questo regno pel crescente figlio
Elisabetta proclamar faratti;
potrai tu quindi alla tua sposa parte
dare qual piú vorrai; quella che appunto
mertar parratti...
Arrigo   — Assai gran trama è questa.
Orm. Spiaceti?

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Arrigo   No; ma scabra parmi.

Orm.   Ardisci;
lieve si fa.
Arrigo   Troppo parlammo. Or vanne:
vo’ meditarvi a posta mia.
Orm.   Fra poco
dunque a te riedo: il tempo stringe...
Arrigo   A notte
giá ben oltre avanzata, a me ritorna,
quanto piú ’l puoi, non osservato.
Orm.   Ai cenni
tuoi ne verrò. Pensa frattanto, o Arrigo,
che il colpo, allor ch’egli aspettato è meno,
piú certo è sempre; e che ragion di stato
il vuole; e ch’util sei per trarne, e laude.


SCENA TERZA

Arrigo.

Laude trarronne, ov’io ’l vantaggio n’abbia. —

Gran trama è questa, e può gran danno uscirne...
Ma pur, qual danno? Ove a me nulla giovi,
a tal son io, che nulla omai mi nuoce...
Chi vien? Che cerca or quí da me costui?


SCENA QUARTA

Arrigo, Botuello.

Arrigo Che vuoi da me? Forse gli usati omaggi

rechi al non tuo signore?
Bot.   Io pur ti sono,
benché mi sdegni, suddito ognor fido.
A te mi manda la regina: ell’ode
che tu, quasi d’oltraggio, alta querela

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fai risuonar dell’assegnato ostello.

Or sappi, ch’ella ivi albergar pur anco
teco in breve disegna: a un tempo dirti
deggio...
Arrigo   Assai piú che la diversa stanza,
duolmi il veder, che riferita venga
ogni parola mia: pur non m’è nuova
tal cosa. Or va; dille, che s’io tenermi
di ciò non debbo offeso, a me ne fia
se non creduta piú, piú almen gradita,
dalla sua propria bocca la discolpa;
e non per via di nunzio...
Bot.   Ove piú alquanto
benigno a lei l’orecchio tu porgessi,
signor, ben altro di sua bocca udresti:
né scelto io fora messagger: ma, teme
ella, che a te i suoi detti...
Arrigo   Ella co’ detti
spiacermi teme; e in un, coll’opre, il brama.
Bot. T’inganni. Io so quant’ella t’ami; e in prova,
io, benché a te sgradito, io, benché a torto
a te sospetto, or mi addossai di farti
tale un messaggio, che affidarlo ad altri
non vorria la regina: e tal, che udirlo
tu pure il dei; né di sua bocca il puote
Maria spiegar: cosa, che a dirsi è dura,
ma che pur segno ella è d’amor non lieve,
se detta vien, qual me l’impone, in guisa
di amichevol rampogna.
Arrigo   Arbitro vieni
d’ascosi arcani tu? — Ma tu, chi sei?
Bot. ... Poiché obliar vuoi di Dumbár la fuga,
donde, spenti i ribelli, entrambi voi
quí ricondussi in vostro seggio; io sono
tal, ch’or favella, perché il dir gli è imposto.
Arrigo Non mi è l’udirti imposto.

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Bot.   Altri pur odi.

Arrigo Che parli? Altri?... Che ardire?...
Bot.   In queste soglie
tradito sei; ma non da chi tu il pensi.
Piú che a noi tutti, a te dovria sospetto
un uom parer, cui d’oratore il nome
a perfidia impunita è invito e sprone.
Messo di pace a noi non viene Ormondo;
e a lungo pur tu l’odi; e a lui...
Arrigo   Felloni!
Questo giá mi si ascrive anco a delitto?
Vili voi, vili, al par che iniqui; a male,
voi tutto a male ite torcendo. Ormondo
chiesta udíenza ottenne: io nol cercai;
messo ei non viene a me...
Bot.   Perfido ei viene
contro di te bensí: né fosse egli altro
che traditor! ma non discreto, e meno
destro, ei giá si mostrò: troppo affrettossi
a disvelar le ascose sue speranze,
e i rei disegni: onde ei tradia se stesso
anzi tempo di tanto, che giá il tutto
sa la regina, pria che teco ei parli.
Né sdegno in lei, quanto pietá, ne nasce
dell’ingannato. In nome suo, ten prego,
esci d’errore, o re; né con tuo biasmo
arrecar vogli ai traditor vantaggio,
danno a chi t’ama.
Arrigo   — O chiaro parla, o taci:
misteríosi accenti io non intendo:
soltanto io so, che dove al par voi tutti
traditor siete, io mal fra voi ravviso
qual mi tradisca.
Bot.   Egli è il vederlo lieve;
cui piú il tradirti giova. Elisabetta,
invida ognora aspra nemica vostra,

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pace teme fra voi. Da lei che speri?

Arrigo Che spero?... Nulla: e nulla chieggio; e nulla...
Ma tu, che sai? che mi si appon? che crede
Maria? che dice?...
Bot.   A generoso core,
chi può rimorder fallo, altri ch’ei stesso?
Che degg’io dir? fuorché un iniquo è Ormondo;
che a te si tendon lacci; e che pel figlio,
per l’innocente figlio, or ti scongiura
Maria, piangendo...
Arrigo   Oh! di che piange?... Lacci,
tendi a me tu...
Bot.   Signor, te stesso inganni;
io non t’inganno. Eran d’Ormondo note
le fraudi giá: giá da’ suoi detti incauti
pria traspirò quell’empio tradimento,
ch’egli a propor ti venne...
Arrigo   A me?... Che dirmi
osi, ribaldo?... Or, se prosiegui, io farti...
Bot. Signor, compiuto ho il dover mio.
Arrigo   Compiuto
ho il mio soffrir.
Bot.   Parlai, perch’io ’l dovea...
Arrigo Piú del dover parlasti. Esci.
Bot.   Che deggio
alla regina dire?
Arrigo   Esci; va; dille,...
che un temerario sei.
Bot.   Signor...
Arrigo   Non esci?

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SCENA QUINTA

Arrigo.

Iniqui tutti; ed io pur anco. — Oh fero

baratro atroce d’ogni infamia e fraude!
Stolto! che volli a messaggier britanno
prestar io fede?


SCENA SESTA

Arrigo, Ormondo.

Arrigo   Oh! giá ritorni?

Orm.   Un solo
dubbio ancor mi rimane: onde a te riedo...
Arrigo Traditor malaccorto; osi tu, vile,
venirmi innanzi?
Orm.   Or, che mai fu?...
Arrigo   Sperasti,
ch’io noi sapessi, onde l’offerte inique
moveano? e speri, che impunita ell’abbia
a rimaner tua fraude?
Orm.   Onde improvviso
ti cangi? Or dianzi favellavi...
Arrigo   Or dianzi
veder voll’io, fin dove insidíose
arti nemiche, sotto vel di pace,
giungeriano. — Ma tu, credestil mai,
ch’io mendicar nel vostro infido regno
a me soccorso, alla mia prole asilo,
volessi io mai?
Orm.   ... Se fabro io fui d’inganni
teco, or di me colpa tu il credi?
Arrigo   Colpa
di te, di chi t’invia, dell’abborrito

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tuo ministero...

Orm.   Della orribil corte,
ov’io mi sto, di’ meglio: di quest’atra
gente infame, è la colpa. Ardito avrei
tentarti io mai, sol per me stesso? a tanto
Maria fe trarmi; a’ cui comandi appieno
Elisabetta di obbedir m’impone.
Ciò ch’ella volle, io dissi: ed or mi accusa,
di ciò a te stesso un doppio tradimento? —
Deluso omai, no, non sarò: fra voi,
cessi il ciel, ch’io mi adopri in nulla omai.
Io, d’ogni cosa che accader quí debba,
innocente son io; tale or mi grido;
tal griderommi ad alta voce ognora.


SCENA SETTIMA

Arrigo.

Ben di’ tu il ver; presso a colei chi è reo? —

Io son preso a dileggio? oh rabbia! — Udrammi
l’iniqua, ancor sola una volta udrammi.
Di brevi detti ultimo sfogo è forza
ch’io doni al furor mio: ma tempo è poscia
di tentar piú efficaci arditi colpi.