Maria Stuarda (Alfieri, 1946)/Atto secondo

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Atto secondo

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ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Arrigo, Lamorre.

Arrigo Sí, tel ridico; ad ottener vendetta

de’ miei nemici io vengo, o a queste mura
io vengo a dar l’eterno addio.
Bot.   Ben fai.
Ma lusingarti di felice evento,
o re, non dei, finché ai rimorsi interni,
ai manifesti replicati segni
del cielo, hai sordo il core. Appien convinto
dell’error che professi in cor tu sei;
di tua crudel persecutrice setta,
a mille a mille, ad ogni passo, innanzi
le dolenti vestigia a te si fanno:
e il rio servaggio pur di Roma imbelle
scuoter non osi; onde tu in faccia al mondo
vile ti rendi, ed empio in faccia a Dio.
La prima è questa, pur troppo! e la sola
cagion terribil d’ogni tua sventura.
Arrigo Piú che convinto io son, ch’io non dovea
mai ricercar regie fatali nozze:
non, che atterrito dall’altezza io sia
del grado, no; che questo scettro istesso
ignoto peso agli avi miei non era:
ma ben mi duol, ch’io non pensai qual vana
instabil cosa ell’è di donna il core;

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e un benefizio, quanto è grave incarco,

se da chi far nol sappia ei si riceve.
Lamor. Uom non son io del volgo: odimi Arrigo.
Grazia in corte non cerco: amor di pace
parlar mi fa. Tutti ammendare ancora
gli error tuoi scorsi, e a sentier dritto puoi
teco tornar tua traviata donna;
puoi far tuo popol lieto; i figli eletti,
non del terribil Dio d’ira e di sangue,
(cui Roma pinge e rappresenta al vivo)
ma del Dio di pietade i veri figli,
che oppressi son, puoi sollevarli; e impura
nebbia sgombrar, che pestilente sorge
dal servo Tebro, ove ogni inganno ha seggio.
Arrigo E che? vuoi tu, che in disputar di vani
riti e di vane opiníoni io spenda
il tempo, allor che del mio grado io debbo
contender?...
Lamor.   Vane osi appellar tai cose?
Pur mille volte e mille han dato e tolto
e regno, e vita. In cor se Roma abborri,
perché tacerlo? Alto il vessillo spiega;
sostegni avrai quanti quí abborron Roma.
Arrigo Di civil sangue io non mi pasco: altrove
pace trovar, ch’io quí non ho...
Lamor.   Che speri?
Per la patria vedere arder da lungi,
pace ne avrai? Fuggirtene, e la fiamma
destar di civil guerra, ei fia tutt’uno.
Io non ti spingo all’armi; io no, ministro
non son di sangue. A prevenir piú atroci
scandali, a trar d’oppressíon tuoi fidi,
pria che sforzati a ribellarsi sieno,
a null’altro, ti esorto. Usar la forza,
tu non dei; ma vietare altrui la forza.
Maria, che bevve a inesauribil fonte

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con il latte stranier stranieri errori;

Maria, che a danno della Scozia accoppia
nel suo cor giovenil di Roma i duri
persecutor pensieri, e i molli modi
delle corrotte Gallie; a te non dico
d’obliar mai, ch’ella ti è sposa, e donna:
ella a sua posta pensi; opri a sua posta:
giá non siam noi persecutori: pace
noi sol vogliamo, e libertá: deh! s’abbia
per te. Tu puoi mercare in un la nostra,
e la tua pace. Oscuro un turbin veggio,
che noi minaccia, e che piombar potria
anco sul capo tuo, se me non odi.
Pessima gente or quí si alberga, e molta,
che perder vuolti, e ti calunnia e abborre.
Franchezza e onor invan fra lor tu cerchi:
se ancor v’ha Scotti, il siam pur noi; di Roma,
di rie straniere effeminate fogge
nemici al par, che di stranier sorgente
dispotico potere. Ai buoni farti
vuoi moderato re? tu il puoi pur anco:
farti a’ rei vuoi tiranno? havvi chi ’l brama
piú assai di te. V’ha chi di ferro scettro
ha fatto giá: troppo intrincato è il nodo;
non è da sciorsi, è da tagliarsi. Il cielo
sa perch’io parli; e s’altro io vo’, che pace. —
Opra dunque a tuo senno: io giá non spero,
che il ver creduto mai da un re mi sia.


SCENA SECONDA

Arrigo.

Schietto è forse costui; ma il mio destino

mi trasse a tal, che dell’error la scelta
sola mi avanza. — Or, ch’io ritorno invano,

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tutto mel dice giá: muto ogni volto;

e la regina ad incontrarmi lenta;
e gli altri... oh rabbia! Ma, ella vien: si ascolti;
risolverò con miglior senno io poscia.


SCENA TERZA

Arrigo, Maria.

Maria Ben giungi, o tu, che alle mie gioje e affanni

indivisibil mio compagno io scelsi.
Tu cedi al fine, e ai preghi miei ti arrendi:
ecco, al fin nella tua reggia tu riedi;
sai ch’ella è sempre tua, benché ti piaccia
starne sí a lungo in volontario bando.
Arrigo Regina...
Maria   Ahi nome! Or, che non di’ consorte?
Arrigo Pari è fra noi la sorte?
Maria   Ah! no; che in pianto
viver mi fai miei lunghi giorni...
Arrigo   Il pianto
mio, tu nol vedi...
Maria   Io giá bagnar ti vidi
la guancia, è ver, di lagrime di sdegno,
ma d’amor no.
Arrigo   Sia che si voglia, io piansi;
e tuttor piango.
Maria   E chi cessar può il duolo,
chi rasciugar può il ciglio mio, chi all’alma
render mi può pura e verace gioja,
chi, se non tu?
Arrigo   Di noi chi ’l voglia, e il possa,
chiaro or tosto sará. Ti dico intanto
ch’oggi io non vengo a nuovi oltraggi...
Maria   Oh cielo!
perché aspreggiarmi anzi che udirmi vuoi?

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Se oltraggio chiami il non veder piegarsi

ad ogni tuo pensier l’altrui pensiero,
certo, quí spesso, e mal mio grado sempre,
oltraggiato tu fosti. Hanno, tu il sai,
i re lor modi, e le lor leggi i regni,
cui nuoce a tutti oltrepassar: né ardiva
io vietarti il varcarle in altra guisa,
che come a me tolto lo avrei, se a possa
illimitata un mio voler non saggio
spinta mi avesse. Ma, consorte amato,
se pur di me, se del mio cor tu parli,
e del mio amore, e dei privati affetti,
di me qual parte non ti diedi io tutta?
Tu mio signor, tu mio sostegno, e prima,
e sola cura mia, dimmi, nol fosti? —
E il sei tuttor, sol che deposto il truce
sdegno non giusto, esser pur anco or vogli
del regno in quanto uso di legge il soffre,
di me, senza alcun limite, signore.
Arrigo Oltraggio chiamo io l’alterigia, i modi
superbi, usati a me dagli insolenti
ministri, o amici, o consiglieri, o schiavi;
ch’io ben non so come a nomar me gli abbia,
quei che intorno ti stanno. E oltraggi chiamo
quanti ogni giorno a me si fan; del nome
appellarmi di re, mentre mi è tolto,
non che il poter, perfin la inutil pompa
apparente di re; vedermi sempre
piú a servitú che a libertá vicino;
e i miei passi, e i miei detti opre e pensieri,
tutto esplorarsi, e riferirsi tutto;
e ogni dolcezza togliermi di padre;
e il mio figliuol, non che a mio senno io ’l possa
educar, né il vederlo essermi dato;
e a me solo vietarsi. — Or, che piú dico? —
Ad uno ad uno annoverar gli oltraggi

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che vale? Il sai, quanto infelice, e oppresso,

ed avvilito, e abbandonato, e forse
tradito è quei, che mal tu scelto hai sposo;
ma, che pur scelto, aver nol puoi tu a vile.
Maria Io replicarti forse anco potrei,
che l’opre tue non caute a tal ridotto
t’han sole; e dirti io pur potrei, quant’era
mal guiderdon, quel che al mio amor da prima
rendevi tu; che a soggiogar piú intento,
che a guadagnarti con benigni modi
gli animi altrui di freno impazíenti,
tu li perdevi affatto; e nei mentiti
amici tuoi troppo affidando, in pria
consigli rei, poi tradimenti e danni
da lor traevi. Anco direi... Ma posso
io proseguire?... ah! no... Fia lieve amore
quel che d’amato oggetto osserva, o biasma,
o giudica gli errori. — Or tutto vada
in oblio sempiterno. Se a te piace
ch’io m’abbia il torto, avrommelo: deh, solo
che a niun di noi ne tocchi il danno! In calma
te stesso torna, e gli altri tutti a un tempo:
riapri il petto alla fidanza; e omai
di novitá desio non ti lusinghi.
Di regnar l’arte entro tua reggia apprendi,
regnando. Io di tant’arte a te per norma
me non addito; che piú volte anch’io
errai, non molto esperta: il giovenile
mio senno, il debil sesso, anco la poca
capacitá natía, mi han tratta forse
in molti errori. Altro non so, che scerre,
per quanto è in me, destro consiglio e fido;
quindi tentar con piè timido il vasto
regale aringo. Ah! cosí, pure io fossi,
come in amarti il sono, in regnar dotta!
Arrigo Ma in corte ogni uom destro consiglio e fido

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appare a te, tranne il tuo sposo: ed egli

è pure il solo, in cui private mire
non si ponno albergare...
Maria   O almen, nol denno. —
Ma, cessa omai: tu nel mio cor la piaga
del diffidare apristi; e tu la sana.
Non che il rancor, né la memoria pure
io ne serbo, tel giuro; or, deh! mel credi.
Ma lo star lungi non accresce affetto,
né il sospettar minora. Al fianco stammi;
ognor beato io stimerò quel giorno,
ov’io prove d’amor, per una, mille
contraccambiare a te potrò. Maligna
gente non manca, il so, cui fra noi giova
il mantener la ria discordia; e forse
fomentarla si attenta. Ma, se appresso
mi stai tu sempre, in chi altri mai poss’io
piú affidarmi, che in te?
Arrigo   Dolci parole
odo, ma fatti ognor piú duri io provo.
Maria Ma, che vuoi? parla: io farò tutto...
Arrigo   Io voglio
re, padre, sposo, essere in fatti; o i nomi
spogliarmen vo’...
Maria   Meno il mio cor, vuoi tutto.
Piú che la chiesta tua duro è il rifiuto;
pur voglia il ciel, che almen di ciò ti appaghi!
Sí, tutto avrai, quanto in me sta; sol chieggio
da te, che alcun contegno, al mondo in faccia,
meco almen serbi, e che all’antica mostra
di spregiarmi non torni. Altrui, deh! lascia
creder, che almen mi estimi, se non m’ami.
Tel chieggo a nome del comune pegno,
non del tuo amor, del mio. L’amato nostro
unico figlio, il rivedrai; fia reso
agli amplessi paterni: ei ti rammenti

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che re, consorte, e genitor tu sei.

Arrigo So quale incarco è il mio: se me da tanto
io finor non mostrai, ne sia la colpa
di chi mel tolse. Io voglio oggi, piú ch’altri,
contraccambiare con l’amor l’amore;
ma, col disprezzo l’arte. — A chiarir tutto,
bastante è il dí. Vedrò de’ tuoi nel volto,
alta norma di corte, il pensar tuo.


SCENA QUARTA

Maria, Botuello.

Bot. Poss’io venir della tua nuova gioja

testimon lieto? Il ricovrato sposo,
di’, qual ti par? migliore assai...
Maria   Lo stesso.
Che dico? ei mesce ora allo sdegno antico
un derisor sorriso: a scherno or prende
i detti miei. Misera me! Qual mezzo
piú omai mi resta a raddolcirlo? Io parlo
d’amore; ei parla di possanza: io sono
l’oltraggiata, ei si duole. Invaso e guasto
d’ambizíon, ma non sublime, ha il core.
Bot. Ma pur, che chiede?
Maria   Illimitata possa.
Bot. L’hai tu, per darla?
Maria   Ei chiamerebbe or poca,
quanta glien diedi pria ch’ei mi astringesse
a ripigliarla. Appien dato all’oblio
ha i perigli, ond’io ’l trassi.
Bot.   Eppur non puoi,
senza tuo biasmo, al tuo consorte or nulla
negar di quanto è in te. Ciò ch’ebbe dianzi,
ciò che a lui dan le leggi, anco a tuo costo,

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tutto render gli dei.

Maria   S’io men lo amassi,
piú d’un consiglio avria; da se lasciarlo
precipitarsi a forza in mille e mille
palesi danni: che a buon fin (pur troppo!)
uscir non ponno i mal tessuti suoi
disegni omai. Ma, combattuta io vivo
in feroce tempesta. Ogni suo danno,
per una parte, piú che a lui, mi duole;...
ma s’egli, ei sol, vuole il suo peggio... Eppure
colpa mia grave ogni suo danno or fora.
E il figlio... Oh ciel! se il figlio in mente io volgo,
in cui forse gli error potrian del padre
cadere un dí!... piú allor non so...
Bot.   Regina,
tu non m’imponi d’adularti: ed io
di servirti m’impongo. In te sol pugni
l’amor di madre coll’amor di sposa.
Tranne il figlio, dar tutto a Arrigo dei.
Maria E il figlio appunto, oltre ogni cosa, ei chiede.
Bot. Ma ne sei donna tu? Pubblico nostro
pegno ei forse non è? Qual maraviglia,
se reo marito, peggior padre or fosse?
Maria Pure, a placar la sempre torbid’alma,
io gli promisi...
Bot.   Il figlio? Egli disporne?
Bada.
Maria   Ei disporne? non l’ardisco io stessa:
pensa, se il lascio altrui.
Bot.   Dunque antivedi,
ch’altri nol tolga a te.
Maria   — Ma, dove or vanno
i tuoi detti a ferir? sai forse?...
Bot.   Io?... Nulla...
Ma penso pur, ch’oggi quí forse a caso
non torna Arrigo. Ai delator, che molti

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sariano in corte, io primo tutte ho tronche

le vie finora, onde (o supposte, o vere)
mai non giungesser le minacce vane
di Arrigo a te. Ma, se a piú rei disegni
ei mai volgesse il suo pensier, mio incarco
ad ogni rischio allor fia di svelarti,
non ciò ch’ei dice, ciò che oprar si attenta.
Maria Certo, ei finora i replicati inviti
miei non curò... Chi può saper?... Ma, dimmi;
qualche doppia sua mira oggi il potrebbe
ritrarre in corte?
Bot.   Nol cred’io; ma stolto
consigliero sarei, se a te non fessi
antiveder quanto or possibil fora.
Soverchio amor mai nol pungea del figlio:
or, perché il chiede? Ormondo, anch’ei bramoso,
veder pretende il regal germe: ei reca
l’arti con se della britanna donna:
tutto esser può: nulla sará; ma in trono
cieca fidanza, è inescusabil fallo.
Maria Precipitar d’una in un’altra angoscia
ognor dovrò? Fatal destino!... Eppure,
che far poss’io?
Bot.   Vegliar, mentr’io pur veglio;
altro non dei. Sia falso il temer mio;
purché dannoso altrui non sia, non nuoce.
Sotto qual vuoi piú verisimil velo,
fa soltanto che Arrigo abbia or diversa
stanza da questa, ove il regal tuo pegno
si alberga; e quí de’ tuoi piú fidi il lascia
a guardia sempre. Ad abitar tu quindi,
quasi a piú lieto o piú salubre ostello,
con Arrigo ne andrai la rocca antica
che la cittá torreggia; ivi ben tosto
vedrai qual possa abbia il tuo amor sovr’esso.
Cosí al ben far gli apri ogni strada; e togli

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sol ch’ei non possa, né a se pur, far danno.

Maria Saggio consiglio; io mi v’attengo. Intanto
tu, per mia gloria sicurezza e pace,
trova efficaci e dolci mezzi, ond’io
prevenga il mal, che irrimediabil fora.