Nostalgie/Parte I/Capitolo VI

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Capitolo VI

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VI.


Stravaganze, veramente, ella non ne commetteva, ma i suoi discorsi diventavano sempre più strani, e se qualche volta divertivano Antonio, più spesso lo tormentavano.

Nella sua calma apparente Regina non sapeva abbastanza nascondere che un’idea fissa la dominava. A che pensava? Anche tenendola stretta fra le sue braccia, nel più tenero degli amplessi, Antonio la sentiva lontana, incommensurabilmente lontana da lui.

Nei luminosi e sonnolenti meriggi primaverili, mentre i due giovani sposi riposavano nel gran letto candido, Antonio ripeteva a sè stesso la solita domanda:

— Ma che cosa le manca?

Non erano felici? Dalla finestra socchiusa penetrava una luce soave che indorava le pareti. Una beatitudine infinita pareva regnasse nella camera velata di penombre d’oro, fragrante di vaniglia, cullata e non penetrata dai rumori di un mondo lontano. E Regina, a momenti, si sentiva vinta da quella beatitudine sonnolenta, da quella dolcezza profonda di camera nuziale. La [p. 113 modifica]domanda intima di Antonio echeggiava anche nell’anima sua.

Che cosa le mancava? Erano giovani e sani entrambi. Antonio l’amava ardentemente, ciecamente: viveva di lei. Ed egli era bello, e c’era in lui, nelle sue mani morbide, nei suoi occhi voluttuosi, nel profumo naturale dei suoi capelli, un fascino che riusciva spesso a inebbriarla.

Eppure, in quei meriggi deliziosi nei momenti in cui ella sembrava più felice, mentre Antonio le accarezzava i capelli, tirandone su qualcuno e osservandolo come una cosa preziosa, ella improvvisamente s’oscurava in viso e ricominciava i discorsi stravaganti.

— Che cosa facciamo noi nella vita?

Antonio non si spaventava.

— Che cosa facciamo? Viviamo. Ci amiamo, lavoriamo, mangiamo, dormiamo, andiamo a passeggio, e quando possiamo anche a teatro.

— E ciò non è vivere! O per lo meno è una vita inutile, della quale io sono stanca.

— Cosa vorresti fare?

— Non so; vorrei volare. Non nel senso sentimentale che si dà a questa parola, ma veramente volare. Uscire dalla finestra, rientrare dalla finestra. Vorrei inventare io il modo.

— Ci ho pensato anch’io, qualche volta.

— Tu non capisci niente! — ella diceva, un po’ stizzita. — No. Io vorrei fare qualche cosa che tu non puoi capire, e che del resto non capisco neppur io!

— Brava allora!

— Senti, è come quando si ha sete di una bevanda introvabile, sete che nessuna cosa può dissetare. Tu lo avrai provato... [p. 114 modifica]— Sì. L’ho provato anch’io.

— No! Tu non puoi averlo provato! Tu non capisci niente.

— Ma, scusami. Fammi il piacere di darmi un filo delle tue idee...

— Niente. Tu non puoi capire e basta. Lasciami stare i capelli.

— Guarda, ce n’hai tanti biforcati: perchè non li spunti? Io dicevo...

— Che cosa m’importa dei capelli, e perchè dovrei spuntarli? È una cosa perfettamente inutile.

— Senti, — egli diceva, fingendo di cercare e trovare un’idea luminosa, — perchè non ti fai conduttrice di tram? — E imitava il movimento della mano del conduttore e il rumore del tram.

— Io non mi degno risponderti, — ella diceva; e andava a coricarsi in fondo al letto; ma dopo un momento ritornava presso il marito, lo guardava e lo pregava infantilmente:

— Fa l’uccellino.

Ella rideva, anch’egli rideva per il piacere di vederla ridere, e diceva:

— Come siamo bambini! Se una scena così si svolgesse in teatro Dio sa che ridere e che fischi! Eppure succede!

— Oh, il teatro! Che falsità! E i romanzi? Prova un po’ a scrivere un romanzo ove si svolga la vita come veramente è, e tutti ti diranno: è inverosimile. Oh, io vorrei saper scrivere! Descrivere la vita come io la concepisco, come veramente è — con le sue grandi piccolezze e le sue meschine grandezze: farei un libro o una commedia che meraviglierebbe l’Europa! [p. 115 modifica]Egli la guardava fingendosi così sbalordito da non trovar parole: ella si stizziva ancora.

— Tu non capisci niente! Tu ti burli di me. Eppure... se io potessi....

Antonio, suo malgrado, diventava serio.

— E perchè non potresti?

— Bisognerebbe anzitutto che io... No, non te lo dico; non puoi capirmi! Eppoi? Io non so scrivere, non so esprimermi. Il mio pensiero è grande, ma la parola mi manca! Quanti e quanti sono così! Cosa credi tu che siano gli uomini grandi? I così detti pensatori? Fortunati che hanno saputo esprimersi. Nietzsche, per esempio? Credi tu che io, che centomila altri, non possiamo avere le idee di Nietzsche, senza averlo mai letto? Soltanto egli ha saputo esprimersi, mentre noi altri non possiamo. E dico Nietzsche come posso dire l’autore dell’Imitazione.

— Tu dovevi sposare uno scrittore, — diceva Antonio, con una segreta gelosia per l’uomo che Regina forse aveva sognato e non aveva incontrato. Ma ella si stizziva ancora.

— È inutile! Tu non puoi capirmi. Io non so che farmene degli scrittori. Lasciami, ora! Ti ho detto di non toccarmi i capelli!

— Aspetta! Resta vicino a me: discorriamo ancora dei tuoi grandi pensieri. Tu mi credi uno stupido. Eppure, senti, io vorrei dirti una cosa... Non ridere, però. Fa un figlio, giacchè vuoi fare una cosa meravigliosa. Tu sai che un autore americano, Emerson mi pare, diceva a sua moglie che il più grande miracolo che la donna può fare...

— È di fare un figlio! Lo so! — ella [p. 116 modifica]rispondeva con un sorriso malizioso. — Non so se ciò dipenda da me! Del resto io penso sempre che la vita è inutile, l’umanità inutile; ma dal momento che non mi suicido, vuol dire che ammetto la vita. Ora, ammettendo la vita, certo, la cosa più grande che io possa fare è un figlio. E lo farei con entusiasmo, con orgoglio, se fossi certa ch’egli non diventasse un piccolo borghese come noi!

— Egli potrebbe diventar ricco, essere utile alla società.

— Storie! Sogni da piccoli borghesi! — ella diceva con amarezza. — Egli sarebbe infelice come noi.

— Ma io sono felice! — protestava Antonio.

— Se sei felice vuol dire che non capisci niente, e così sei doppiamente infelice! — ella diceva, rabbuiandosi, con gli occhi foschi che mettevano paura al marito.

— Mia cara, tu diventerai matta come i tuoi grandi autori.

— Ecco il piccolo borghese, il quale non sa quello che dice.

E così proseguivano, finchè Antonio guardava l’orologio e trasaliva comicamente.

— È già passata l’ora! Se tu dovessi andare all’ufficio, cara mia, certe idee, ti assicuro io, non ti passerebbero per la mente.

Balzava dal letto, correva a lavarsi, poi con le mani umide, col viso fresco e umido, correva a baciare Regina.

— Sembri un sorbetto di fragole! — ella diceva, convinta. E così facevano la pace. [p. 117 modifica]

*


Col sopravvenire del caldo crebbe la malinconia, la nostalgia, la nervosità di Regina. Di notte Antonio la sentiva voltarsi e rivoltarsi nel letto, e qualche volta gemere sommessamente. Una notte ella gli confessò che soffriva al cuore.

— Mi palpita per ore ed ore, e mi tronca il respiro. Pare voglia aprirmi il petto e uscir fuori. Devono essere le scale: non ho mai sofferto di palpitazione.

Egli, allarmato, voleva condurla da uno specialista: ma ella si oppose.

— Mi passerà... appena sarò partita.

Stabilirono la partenza di lei per gli ultimi di giugno: in agosto Antonio sarebbe andato a raggiungerla rimanendo con lei una quindicina di giorni.

— Se avremo abbastanza denari, al ritorno passeremo e resteremo qualche giorno a Viareggio.

Regina non disse ne sì nè no. In quei primi sette mesi di matrimonio i due sposi avevano risparmiato solo duecento lire, che a mala pena bastavano per il viaggio, ma Antonio sperava mettere da parte qualche altra cosa durante l’assenza di sua moglie. I giorni passavano; Roma si spopolava rapidamente, benchè a un breve periodo di caldo fossero seguite ancora delle pioggie incessanti e nojose. Antonio contava i giorni.

— Ancora dieci, ancora otto giorni... e te ne andrai! Come farò io solo, solo, per un mese!

Ella s’irritava quando egli parlava così; [p. 118 modifica]pareva che non volesse pensare alla sua partenza, della quale non parlava mai.

— Solo! Perchè solo? Non hai tua madre e i tuoi fratelli?

— La moglie è più che i fratelli, più che la madre.

— E se io morissi, allora? Se io mi ammalassi, e i medici mi prescrivessero, per guarire, un lungo soggiorno al mio paese?

— Questo non può accadere.

— Tu parli come un bambino. Perchè non può accadere? Può invece accadere benissimo, — ella disse, sempre più stizzita. — Ecco, tutto quello che dico io è fantastico, tutto non può accadere! Ma perchè non può accadere? Basta che dica io una cosa perchè...

— Ma, Regina! — egli esclamò meravigliato. — Perchè ti stizzisci così?

— Ma sicuro! Perchè non può accadere che io mi ammali? Sono forse di ferro, io? Può darsi che il medico mi ordini di non far più le scale, per un certo tempo, e di vivere all’aria aperta, di respirare l’aria di campagna. Dove vuoi che vada, allora, se non a casa mia? Me lo proibiresti forse tu?

— Sarei anzi il primo a consigliartelo. Ma ora non è il caso. Per la tua palpitazione di cuore? Vedrai che passerà. Vedremo intanto di scendere in un appartamentino meno alto di questo; sebbene, per dirti la verità, io ora ami questo nostro piccolo nido con intenso affetto. Siamo così felici, qui! — egli disse, guardandosi intorno con tenerezza.

Ella non rispose, e andò ad affacciarsi alla finestra, con gli occhi torbidi di una nube cupa. [p. 119 modifica] Che cosa? L’odio per l’appartamentino dove le pareva sempre più di soffocare, o la stizza per le idee sentimentali di suo marito?

— Oggi è venerdì, — disse poi. — Devo andare a congedarmi dalla tua principessa? Quando va via, lei?

— Alla metà di luglio, credo. Va a Carlsbad.

— Ebbene, che vada al diavolo, lei e tutti i signori con lei.

— Perchè sei così cattiva? E tu non vai in campagna? Pensa a tutti coloro che resteranno nella città ardente, agli operai nelle officine, ai fornai davanti ai loro forni.

— Appunto per ciò ho imprecato.

Più tardi ella si vestì ed uscì per recarsi dalla principessa; non perchè le premesse di congedarsi da lei, ma per passare in qualche modo l’interminabile crepuscolo estivo.

Si strinse molto nella vita, e mise un abito nuovo, azzurro, molto a coda, con tanti volantini in fondo alla gonna; le parve di essere bella, e indubbiamente molto più elegante di quando era arrivata a Roma, ma non provò alcuna soddisfazione.

Passando davanti al Costanzi, vide il gentiluomo dal viso color di albicocca del «giardinetto dei gattini», fermo con un altro signore pingue, dagli occhi azzurri rotondi e smorti, che teneva un cagnolino rosso e irrequieto sotto il braccio. Ella conosceva anche questo signore; era un grande artista che recitava al Costanzi.

Le parve che i due uomini la guardassero con piacere, e arrossì di compiacenza; ma subito intuì qualcosa di colposo in questo moto istintivo dell’anima sua, e si arrabbiò contro sè [p. 120 modifica] stessa, come poche ore prima s’era stizzita contro Antonio che «parlava come un bambino».

Arrivò dalla principessa con un umore aggressivo, ed entrò a testa alta, senza salutare nè guardare il domestico, che riceveva sempre lei ed Antonio con una certa famigliarità, rispettosa sì, ma un pochino umiliante.

Nei salotti di madame, sebbene fossero stati tolti i tappeti e le pellicce, c’era molto caldo: dai vasi di metallo una profusione di lilla spandeva fragranze intense, amare, quasi velenose.

V’erano soltanto due signore una delle quali chiacchierava con Marianna, parlando male di Roma. La ragazza, resa bruttissima da un ridicolo vestito rosso scollato, protestava ferocemente, minacciando di mordere la signora maldicente.

La principessa ascoltava, pallida, fredda, col grasso viso immobile. Appena Regina entrò, Marianna le si precipitò incontro gridando:

— Se poi venite ad aggiungervi anche voi, divento rabbiosa davvero.

Regina sedette avvolgendosi la coda dell’abito intorno alle gambe, come aveva visto fare da miss Harris, e saputo di che si trattava disse con un cattivo sorriso:

— Certamente, Roma è odiosa.

— Vi graffio! — gridò Marianna. — E sarebbe un peccato, perchè oggi siete così bella! Ora che avete arrossito siete più bella ancora. Il vostro cappello mi ricorda il cappello d’una granduchessa che vidi a Budapest.

— Roma è odiosa? — disse la principessa, rivolta a Regina, che sorrideva ironica per le [p. 121 modifica] sciocchezze di Marianna. — L’altro giorno ella non diceva così.

— Si cambia facilmente opinione.

— Scusi?

— Si cambia facilmente opinione, — ripetè Regina con voce alta e quasi irritata. — Eppoi l’altro giorno io dicevo che Roma è bella soltanto pei ricchi mentre pei poveri è abbominevole. Il povero, a Roma, è come il mendicante davanti alla porta chiusa d’un palazzo... un mendicante che rosicchia un osso...

— E qualche volta passa il cane del ricco, e strappa di mano al mendicante anche quell’osso... — disse Marianna.

L’altra rise nervosamente.

— È vero! È vero!

La principessa sollevò sul viso di Regina i suoi piccoli occhi giallognoli, la guardò un momento, poi si volse alla signora che le stava seduta a fianco e le parlò in tedesco.

Ma parve a Regina che madame avesse voluto dirle qualche cosa col suo sguardo freddo e fugace, qualche cosa di triste, di amaro, di beffardo; e cessò di ridere.


*


« 28 giugno 1900.

«Antonio,

«Tu leggerai questa lettera dopo che io sarò partita. La leggerai, ancora un po’ triste per la nostra separazione, e ti parrà forse dettata da un mio capriccio passeggiero. Se invece tu sapessi da quanti e quanti giorni, anzi da [p. 122 modifica]quanti mesi, io la medito, la esamino, mi torturo con essa! E se tu sapessi quante e quante volte ho tentato di esprimerti a parole ciò che ora vorrei scriverti! Ma non mi è riuscito mai possibile: una forza tiranna mi ha impedito sempre di aprirti il mio cuore; mi pareva che, a parole, non ci saremmo compresi. Chissà se neppure ora tu vorrai e potrai comprendermi. Mi sembrava facile esprimermi per lettera, ma ora... ora sento quanto ciò sia penoso e difficile. Avrei voluto anche attendere di essere lassù, a casa mia, per scriverti questa lettera; ma non voglio che tu possa credere che ragioni esteriori o consigli altrui mi abbiano spinto a questo passo. No, Antonio mio, buono e caro; siamo noi due soli: soli, lontani da ogni voce estranea e molesta, noi due, soli, che decidiamo il nostro destino. Ascoltami. Ora tenterò di spiegarti, come meglio potrò, il mio pensiero. Senti, Antonio, anche l’altro giorno ti dicevo: «Se io mi ammalassi e i medici mi ordinassero di tornare a respirare l’aria natìa, e di soggiornare per qualche tempo nel mio paese, me lo proibiresti tu?» E tu hai risposto: «Sarei anzi il primo a consigliartelo». Ora io sono davvero malata, d’una malattia morale che mi consuma peggio di una malattia fisica, ed ho bisogno di ritornare al mio paese, e di rimanervi per qualche tempo. Antonio, mio adorato, mio amico e mio fratello, sforzati a comprendermi e leggi intensamente queste mie righe come se leggessi entro l’anima mia. Io ti amo, io ti ho sposato per amore, per quell’amore indescrivibile fatto di sogni e di incanti che si prova una volta sola nella vita; e mai come in [p. 123 modifica]questo momento ho sentito di amarti e di essere legata a te per tutta la vita. Quando tu mi apparisti lassù, sull’argine verde, la cui linea tagliava come una lama tutto l’orizzonte dei miei sogni, io vidi in te appunto la personificazione dei miei sogni più belli... Da quanti anni io ti sognavo e ti aspettavo! E già questa attesa deliziosa cominciava a velarsi di tristezza, di paura, quando tu venisti. Tu eri per me tutto il mondo ignoto e meraviglioso che i libri, i sogni, forse anche l’atavismo, avevano creato entro di me; eri il turbine ardente della vita; la città coi suoi splendori: tutto ciò che di più folle e di più dolce la mia giovinezza anelava. Anche se tu fossi stato brutto, grasso, più povero di quello che sei, ti avrei amato lo stesso. Tu venivi da Roma, e questo bastava! Nè tu, nè alcuno di coloro che non sono nati e vissuti per lunghi anni in fondo ad una provincia, potrete mai immaginare ciò che l’ultimo degli impiegati della capitale, piovuto per caso in fondo a questa provincia, rappresenta per una fanciulla che sogna il mondo senza averlo mai veduto da vicino.

«Quante volte, passando per via Nazionale inondata di folla, io ho amaramente e beffardamente pensato, che se l’ultimo di quei borghesucci a spasso, il più anemico, il più meschino di quegli impiegatucci dall’anima incompleta, o disseccatasi come un frutto prima di esser maturo; uno di quegli individui che ora mi destano una infinita pietà, fosse passato sull’argine, davanti al nostro villino, avrebbe potuto destare in me una profonda passione! Tutta l’anima mi si rivolta di disgusto al solo [p. 124 modifica]pensarci. Ma non offenderti, Antonio; tu non sei uno di quelli: tu eri e sei per me qualche altra cosa, ed ora, svanito l’incanto dei sogni vani, resti per me qualche cosa che è al di sopra di questi stessi sogni: tu eri e sei per me l’uomo, l’uomo buono e leale, l’amante giovane e dolce che la fanciulla pone come una statua meravigliosa in mezzo al giardino dei suoi sogni. Ma il nostro giardino, Antonio, il nostro giardino è arido e triste. Noi eravamo ancora troppo poveri per unirci e formare il nostro giardino di amore. Sposandoti e venendo a Roma io avevo gli occhi bendati; mi figuravo che le nostre due piccole fortune, messe assieme, rappresentassero a Roma ciò che rappresentavano al mio paese! Troppo tardi mi accorsi che, invece, esse rappresentavano appena il pane quotidiano. E di solo pane, non si vive: si muore, o per lo meno ci si ammala gravemente se non si è abituati a tale regime. L’amore, per quanto grande sia, non basta a guarire un malato. Ora, ti ripeto, io sono malata; l’urto della realtà, la durezza del pane quotidiano, ha prodotto in me una specie di anemia morale! E il male si è fatto così acuto che io non posso più andare avanti così. La vita a Roma, per me è un martirio. Bisogna che, per qualche tempo, io fugga, mi ritiri nel mio covo, come si dice facciano le bestie ferite, e mi curi e sopratutto mi abitui a pensare di dover vivere così.

«Antonio mio, sforzati di comprendermi, anche se io non riesco a spiegarmi come vorrei. Lascia che io ritorni nel mio nido, presso mia madre, alla quale farò credere d’essere realmente ammalata e di aver bisogno dell’aria [p. 125 modifica]natìa; e lasciami lì uno o due anni. Faremo ora ciò che avremmo dovuto far prima: aspetteremo. Aspetteremo come due fidanzati l’ora della riunione: io mi abituerò all’idea di vivere una vita diversa da quella che avevo sognato; ed intanto la tua posizione (e chissà forse anche la mia), migliorerà. Quanti e quanti non fanno così? Anche una mia cugina fece così: suo marito era professore di ginnasio a Milano. Assieme non potevano vivere. Allora ella tornò a casa ed egli studiò, pubblicò, concorse, fu nominato professore di liceo e mandato in una piccola città; allora si riunirono ed ora sono felicissimi.

«Sentimi, Antonio; anche tu, certo involontariamente ma indubbiamente, hai avuto dei torti. Ma anche tu non sapevi! È il destino che scherza con noi. Quando nelle dolci ere del nostro fidanzamento io ti parlavo di Roma con un tremito nella voce, tu avresti dovuto capire ciò che io stoltamente sognavo; tu avresti dovuto intravedere fra le mie parole il mio sogno splendido e vano, come si intravede la luna attraverso la nebbia della sera. E invece! Invece tu alimentavi il mio sogno: tu mi parlavi di principesse, di sale, di ricevimenti.

«Vedi, è come se io avessi toccato il fuoco: qualche cosa si è bruciato in me. È mia la colpa? Se ho colpa, ora, è quella di non saper fingere: un’altra donna, al mio posto, sentendo come sento io, avrebbe finto, avrebbe accettato apparentemente la realtà, sarebbe rimasta presso di te, ma ti avrebbe avvelenato l’esistenza. Ricordati: anch’io, anch’io, nei primi mesi ti ho tormentato con la mia tristezza, i miei lamenti [p. 126 modifica] e i miei dispetti: sentivo però tutto il mio torto e ne provavo vergogna e rimorso. Se avessimo continuato così, se non mi fosse balenata in mente l’idea che ora eseguisco, avremmo finito come finiscono tanti: oggi un bisticcio, domani uno scandalo, forse un delitto. Io sentivo intorno a me come un vortice. Io non sono romantica, tu lo sai; forse più scettica che romantica; ma tutto ciò che è piccolo, gretto, volgare, mi ferisce l’anima. Io sono nata così e non posso rifarmi: e quante altre donne sono come me, ma più disgraziate perchè più deboli, non sanno fermarsi a tempo sull’orlo del precipizio, e non sanno guardarlo, studiarlo ed evitarlo.

«Eppure, Antonio, io ti voglio bene; ti amo molto più di quando eravamo fidanzati: e per conservarmi degna di te compio il sacrifizio di allontanarmi alcun tempo da Roma. Non voglio renderti infelice. Le lagrime mi bagnano il viso, tutto il mio cuore sanguina... ma è necessario, è fatale doverci lasciare.

«Mi pare di morire pensando a ciò, ma è necessario, è necessario. Antonio, caro caro caro, comprendimi; leggi e rileggi intensamente ogni mia parola, e non darle un significato diverso da quello che il mio cuore le dà.

«Sentimi, sopratutto, sentimi come se io fossi sul tuo petto e vi piangessi tutte le mie lagrime; sentimi e comprendimi come qualche volta mi hai sentito e compreso.

«Ti ricordi, la mattina di Natale?

«Io piangevo, e mi parve di vedere anche i tuoi occhi velarsi: fu in quel momento che io sentii di amarti sopra ogni cosa al mondo, e decisi di fare per te qualche sacrifizio: e il [p. 127 modifica]sacrifizio è questo: di lasciarti per alcun tempo, per cercar di guarire e poi tornare a te sana e buona.

«Nella mia casetta io vivrò di te, e lavorerò; sì, voglio anch’io portare la mia pietra all’edifizio del nostro benessere avvenire. Siamo giovani, troppo giovani ancora: potremo far molto, se lo vorremo.

«Tu di me sei sicuro; anche io sono sicura di te, perchè so quanto mi ami, e so che mi ami molto appunto perchè io sono come sono: e non dubito di te, come non dubito di me.

«Senti, fra due o tre settimane, come avevamo stabilito, tu verrai al mio paese; fingerai di trovarmi tanto sofferente che deciderai di lasciarmi lassù finchè starò bene. Poi tornerai a Roma e vivrai pensando a me, studierai, farai il concorso. Intanto i mesi passeranno: ci scriveremo tutti i giorni, faremo economia, o meglio tesoro di amore e di... denari. La nostra posizione migliorerà, e quando ci riuniremo, cominceremo una luna di miele ben diversa dalla prima, e che durerà per tutta la vita».

· · · · · · · · · · · · · ·

Arrivata a questo punto della sua lettera, Regina si sentì gelare tutta, quasi un soffio di vento freddo la colpisse alle spalle.

Non era tutto menzogna, tutto illusione quello che scriveva? Parole, parole.

— Chissà come è fatto l’avvenire? — pensò.

Ma la stessa espressione fatto, la colpì vivamente.

— Chi fa il nostro avvenire? — Nessuno. Lo facciamo noi stessi col nostro presente. Il mio avvenire io lo faccio con questa lettera; solamente neppure io stessa so quello che faccio. [p. 128 modifica]Ed ebbe paura di questa sua oscura opera; ma subito si rianimò pensando che aveva scritto la lettera col vivo sangue del suo cuore.

Poteva illudersi, ma era sincera: quindi niente paura, avvenga quel che può avvenire. La vita è di quelli che hanno il coraggio di compiere quanto si propongono. Però le parve inutile ascrivere oltre; le sembrava di aver già detto troppe cose inutili senza riuscire ad esprimere tutto ciò che veramente le turbinava nell’anima. Scrisse solo qualche altra riga.

«... rispondimi subito appena leggerai la presente. No, non subito... lascia prima passare qualche ora. Quanto avrei da dirti ancora; ma non so, non posso: ho il cuore troppo gonfio, soffro tanto. Perdonami, Antonio, se nel momento in cui leggerai queste righe ti causerò dolore: vedrai poi che da tale dolore nascerà una gran gioia. Rassicurami dicendomi che hai compreso e approvi la mia idea. Lassù, dove ritroverò tutto ciò che di noi è andato smarrito nella triste prova di questi ultimi mesi, aspetterò la tua lettera come una sentenza. Poi ti scriverò ancora, ti dirò o cercherò di dirti quello che ora mi gonfia il cuore fino a farmelo soffrire davvero.

«Addio, arrivederci: vedi, piango già pensando al bacio che ti darò prima di partire. Dio, tu non saprai l’angoscia, l’amore, la promessa, la speranza che racchiuderà quel bacio!...

«Qualunque cosa pensi di me, Antonio, non accusarmi di leggerezza: ricorda che io sono la tua Regina, la tua strana, la tua malata, ma non cattiva, ma non sleale

«Regina

[p. 129 modifica]

Finito di scrivere, ella piegò e chiuse la lettera in fretta in fretta, senza rileggerla. Aveva di nuovo paura. Ma poi pensò: poteva esserle sfuggito qualche errore, qualche particella che potesse cambiare tutto il senso di una frase. Staccò il lembo ancora umido della busta, rilesse, con disgusto e con paura, e non corresse niente, non aggiunse niente; ma provò una tristezza ancora più intensa. Ah, come era fredda e scritta male quella lettera! Era lunga, troppo lunga, eppure niente di quanto le fremeva nel cuore era passato su quei foglietti inanimati!

— Ed io penso di scrivere un romanzo, un dramma! Ma se non sono capace di scrivere neppure una lettera! Ma egli capirà ugualmente — pensò poi, richiudendo la busta; — sono certa che capirà. E dove la metterò? Dio mio, se egli, per esempio, la trovasse prima della mia partenza! Che accadrebbe? Forse riderebbe; mentre trovandola dopo... forse piangerà. Ah, ecco, la metterò, prima di uscire, sul suo tavolino. E se per un caso qualunque egli tornasse indietro?

Con questi ed altri piccoli pensieri e con un cumulo di piccoli quesiti, cercò di scacciare la tristezza e l’inquietudine che l’agitavano.

Cominciò a far la valigia: doveva partire l’indomani mattina col diretto delle nove e non aveva ancora preparato niente. Tutto il lungo pomeriggio era passato mentre ella scriveva.

— Che farà egli, dopo? — s’ostinava a pensare. — Terrà poi l’appartamento? E la serva? Mi tradirà? No, non mi tradirà; ne sono sicura. Io dico che tornerà a vivere presso la madre e i fratelli. Purchè non lo sobillino poi contro di me. Forse affitterà quest’appartamentino, [p. 130 modifica]mobiliato com’è. Quanto gliene daranno? Cento lire? Ma no, egli è un po’ sentimentale; gli dispiacerà che gente estranea, forse volgare, venga a profanare il nostro nido, come egli dice. E a me non dispiacerebbe? Sciocchezze, frasi stupide! Io qui ho tanto sofferto: questi mobili, quei due tappeti con quei cani sono odiosi. Non voglio più vederli... Eppure!... Basta, Regina, sei una stupida, stupida e stupida...

— E del mio corredo che ne farà? Lo porterà a casa sua? Ebbene, cosa mi importa? Faccia egli quel che crede.

Di tratto in tratto l’assaliva un pensiero, che tante altre volte l’avea tormentata. E se egli non perdonava? Come andrebbe a finire la loro storia? Ma no, sciocchezze! Egli non poteva non perdonare; tutt’al più sarebbe andato a raggiungerla per persuaderla o costringerla a ritornare.

Ma ella resisteva e lo convinceva... Ella viveva già quel momento, e già provava lo strazio del nuovo addio.

Intanto aveva riempita la valigia; ma non era contenta dell’opera sua.

— Che cosa amara e cretina è la vita! Addio e sempre addio, fino all’addio definitivo della morte. La morte, — pensò poi, vuotando la valigia e rimettendo in nuovo ordine la roba. — Poichè dobbiamo morire, perchè procurarci tanti dolori inutili? Perchè vado via, ora? Tanto, il tempo passerà egualmente. Ma appunto perchè si deve morire bisogna passar la vita il meglio possibile. Uno o due anni passano presto, mentre trenta o quarant’anni sono lunghi. E in due anni... Ebbene, — pensò ancora, [p. 131 modifica]piegando e ripiegando una gonna che non voleva stare ben distesa nella valigia, — è proprio vero che in due anni la nostra posizione migliorerà? E anche se migliorerà un pochino, sarò forse contenta? Non ricomincerò questa stessa vita... che durerà sempre... sempre... fino alla fine! Morire, andar via davvero, ma sì! Almeno allora non si avrà la seccatura di fare questa maledetta valigia. Va, — aggiunse con rabbia, dando un pugno alla gonna, spiegandola e buttandola via. — Perchè anche tu non vuoi piegarti come voglio io? Va, perchè devo prenderti, del resto? Tanto, per chi dovrò essere elegante?

Si buttò sulla sponda del letto e cominciò a singhiozzare infantilmente. Mai come in quel momento le era apparsa tutta l’assurdità e la cattiveria del suo capriccio. Ancora le parve che tutto fosse menzogna in lei; che ella volesse soltanto far dispiacere al marito, così, per crudeltà istintiva, per vendetta puerile. Ma dopo un momento si rialzò e tornò a ripiegare la gonna.

Rientrando, Antonio la trovò ancora affaccendata attorno alla valigia.

— Aiutami a chiuderla, — disse Regina, e mentre egli si curvava per guardare la serratura un po’ guasta della valigia, ella aggiunse: — E se avvenisse uno scontro ferroviario ed io restassi morta?

— Speriamo di no, — egli rispose tranquillamente, esaminando sempre la serratura.

— E se, per esempio, restassi ferita? Se si dovesse trasportarmi in qualche ospedale e dovessi restarci molto tempo?

Questa volta egli neppure rispose. [p. 132 modifica]

— Rispondimi, dunque! Cosa faresti?

— Ma... perchè ti vengono sempre queste idee? — E se ti vengono queste idee perchè parti? Ecco chiuso. Dove son le cinghie? — egli chiese, sollevandosi.

Ella lo guardò, così alto, così bello, così dritto davanti a lei, con le labbra fresche come un frutto appena colto e gli occhi luminosi, nella luce rosea del tramonto.

— Domani saremo lontani! — ella disse, gettandoglisi perdutamente al collo e baciandolo con una specie di delirio. — Non mi tradirai, di', non mi tradirai? Dio mio, se non ci vedessimo più!

— Mi vuoi dunque bene?

— Tanto, tanto, tanto...

Egli la vedeva impallidire e tremare, e la stringeva a sè e perdeva anch’egli la coscienza di sè stesso, preso dall’impeto di passione e di piacere che lo inebbriava ogni volta che Regina gli dimostrava la sua tenerezza.

Si scambiarono dei baci che avevano un ardore amaro, un occulto sapore di angoscia, e nello stesso tempo una voluttà ineffabile. Regina piangeva; Antonio diceva delle cose insensate, e la pregava di non partire.

Poi risero entrambi.

— Se non pare che tu debba partire per il polo Nord! — disse Antonio. — Hai pianto davvero!... Dopo tutto, un mese passa presto. Verrò presto, poi: verso quest’ora andremo in barca, quando il Po è tutto rosso.

— Se non avviene lo scontro! — ella disse con crudele scherzo. — Ecco le cinghie: stringi bene...