Orlando innamorato/Libro secondo/Canto ventesimonono

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Libro secondo

Canto ventesimonono

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Libro secondo - Canto ventesimottavo Libro secondo - Canto trentesimo

 
1   La più stupenda guerra e la maggiore
     Che racontasse mai prosa né verso,
     Vengo a contarvi, con tanto terrore
     Che quasi al cominciare io me son perso;
     Né sotto re, né sotto imperatore
     Fu mai raccolto esercito diverso,
     O nel moderno tempo, o ne lo antico,
     Che aguagliar si potesse a quel che io dico.

2   Né quando prima il barbaro Anniballe,
     Rotto avendo ad Ibero il gran diveto,
     Con tutta Spagna ed Africa alle spalle
     Spezzò col foco l’Alpe e con lo aceto;
     Né il gran re persïano in quella valle
     Ove Leonida fe’ l’aspro decreto,
     Con le gente di Scizia e de Etïopia
     Ebbe de armati in campo maggior copia,

3   Come Agramante, che sua gente anombra
     Solo a la vista, senza ordine alcuno.
     De le sue velle è tanto spessa l’ombra,
     Che il mar di sotto a loro è scuro e bruno;
     E sì l’un l’altro il gran naviglio ingombra,
     Che fu mestier partirse ad uno ad uno,
     Avendo il vento in poppa alla seconda.
     Avanti a gli altri è Argosto di Marmonda:

4   Ne la sua nave è la real bandiera,
     Che tutta è verde e dentro ha una Sirena.
     Il re Gualciotto apresso di questo era,
     Quale era ardito, e bella gente mena,
     Ed era la sua insegna tutta nera,
     Di bianche columbine al campo piena;
     E Mirabaldo viene apresso a loro,
     Che porta il monton nero a corne d’oro:

5   Il campo ove è il montone, è tutto bianco.
     E da questi altri venìa longi un poco
     Sobrin, che è re di Garbo, il vecchio franco,
     Il qual portava in campo bruno il foco;
     E dietro mezo miglio, o poco manco,
     Il re de Arzila seguitava il gioco:
     Il nome di costui fu Brandirago,
     Che avea nel campo rosso un verde drago.

6   Dapoi Brunello, il re de Tingitana,
     Avea la insegna di novo ritratta,
     Più vaga assai de l’altre e più soprana,
     Perché lui stesso a suo modo l’ha fatta;
     Come oggi al mondo fa la gente vana,
     Stimando generosa far sua schiatta
     E le casate sue nobile e degne
     Con far de zigli e de leoni insegne.

7   Così Brunel, la cui fama era poca,
     Come intendesti, ché era re di novo,
     Nel campo rosso avea depinta una oca,
     Che avea la coda e l’ale sopra a l’ovo.
     De ciò parlando lui con gli altri, gioca
     - Ben - dicendo - fo antico, e ciò ti provo:
     Ché lo evangelio, che è dritto iudicio,
     Afferma che la oca era nel principio. -

8   Il re Grifaldo apresso a lui ne viene,
     Che porta una donzella scapigliata,
     E quella un drago per l’orecchie tiene:
     Cotal divisa avea tutta la armata,
     Benché sua insegna a questa non conviene,
     Ché solo è nera e di bianco fasciata.
     Il re di Garamanta era vicino,
     Giovane ardito, e nome ha Martasino.

9   Costui portava nel campo vermiglio
     Le branche e il collo e il capo de un griffone;
     E dietro alla sua nave forse un miglio
     Veniva il re di Septa, Dorilone,
     Qual porta al campo azurro un bianco ziglio;
     Poi Soridano, che porta il leone.
     Il leon bianco in campo verde avia:
     Costui ch’io dico, è re de la Esperia.

10 E re di Constantina, Pinadoro,
     Venne, che al rosso la acquila portava,
     Ch’è gialla, con due teste, in quel lavoro;
     E poco apresso Alzirdo il seguitava,
     Che ha la rosa vermiglia in campo d’oro;
     E Pulïano alla bandiera blava
     Segnata avea de argento una corona;
     Franco è costui, che è re de Nasamona.

11 Né ’l re de la Amonìa ponto vi manca,
     Benché sua gente è tutta pedochiosa,
     Dico Arigalte da la insegna bianca,
     Né dentro vi ha dipenta alcuna cosa.
     Poi Manilardo, che porta la branca
     Qual tutta è d’oro a l’arma sanguinosa:
     La branca di cui parlo, è di leone.
     La armata apresso vien di Prusïone.

12 De la Norizia è re quel Manilardo,
     Questo altro de Alvarachie, ch’io vi conto.
     Saper volete qual sia più gagliardo?
     Né l’un né l’altro, a dirvelo ad un ponto.
     Re di Canara, il qual venne ben tardo,
     Ma pure apresso di questi altri è gionto,
     Portava, se Turpin me dice il vero,
     Nel campo verde un corvo tutto nero.

13 Era costui nomato Bardarico,
     Che in occidente ha sua terra lontana.
     Poi venne Balifronte, il vecchio antico,
     E Dudrinasso, il re de Libicana;
     Fo re di Mulga quel vecchio ch’io dico,
     E porta in campo azurro una fontana;
     E Dudrinasso alla bandiera e al scudo
     Porta nel rosso un fanciulletto nudo.

14 E Dardinello, il giovanetto franco,
     Ha le sue nave a queste altre congionte.
     Il quartiero ha costui vermiglio e bianco,
     Come suolea portare il padre Almonte;
     E pur cotale insegna, più né manco,
     Portava indosso ancora Orlando il conte.
     Ma ad un di lor portarla costò cara;
     Questo garzone è re de la Zumara.

15 Presso vi viene il forte Cardorano,
     Il re di Cosca; e porta per insegna
     Un drago verde, il quale ha il capo umano.
     Da poi Tardoco, che in Alzerbe regna,
     E seco Marbalusto, il re de Orano;
     Quello avia al scudo una serpe malegna,
     Che intorno avolto ha il busto tutto quanto,
     Per non odire il verso de lo incanto.

16 E Marbalusto un capo de regina
     Portava, intorno a quello una ghirlanda.
     Poi Farurante, che è re di Maurina,
     Che al scudo verde ha una vermiglia banda.
     Alzirdo ha la sua armata a lui vicina
     (In campo azurro avea d’oro una gianda);
     E de Almasilla il re Tanfirïone,
     Qual porta in bianco un capo di leone.

17 Or già vien de la corte il concistoro,
     Che a quella impresa è tutta gente eletta;
     Mordante avea il governo di costoro.
     La prima armata vien di Tolometta,
     Con due lune vermiglie in campo d’oro,
     Che portava Mordante e la sua setta;
     Costui fo grande e di persona fiero,
     Filiol bastardo fo di Carogiero.

18 Da Tripoli seguia la gente franca:
     Non fo di questa la più bella armata,
     Né più fiorita; e, se nulla vi manca,
     Da Rugier paladino era guidata.
     Lui ne lo azurro avea l’acquila bianca,
     Qual sempre da’ suoi antiqui fu portata.
     Da poi venìa la armata de Biserta,
     Ove Agramante ha la sua insegna aperta.

19 Di Tunici ivi apresso era il naviglio,
     E quel governa il vecchio Daniforte,
     Omo saputo e di molto consiglio,
     Gran siniscalco de la real corte.
     Portava in campo verde un rosso ziglio
     Costui, che viene in Franza a tuor la morte;
     E poscia da Bernica e da la Rassa
     L’una armata con l’altra insieme passa.

20 Di queste avea il governo Barigano,
     Quale ha nutrito il re da piccolino,
     E porta per insegna quel pagano
     In campo rosso un candido mastino.
     Dietro da tutti il gran re di Fizano,
     Mulabuferso, ha preso il suo camino;
     Lui porta divisato nel stendardo,
     Come nel scudo, in campo azurro un pardo.

21 In cotal modo, come io vi discerno,
     La grande armata in Spagna se disserra;
     Il re Agramante ha de tutti il governo:
     Non fu tal furia mai sopra la terra.
     Come se aprisse il colmo de lo inferno,
     Se far volesse al paradiso guerra,
     E la sua gente uscisse tutta integra,
     Qual con pallida faccia e qual con negra:

22 Morti e demonii, dico, tutti quanti,
     Del fuoco uscendo e d’ogni sepultura,
     Sarebbono a questi altri simiglianti,
     Per contrafatte membra e faccia oscura.
     Il stil diverso e i navigli son tanti,
     Che cento miglia e più la folta dura,
     Qual nel litto di Spagna se abandona,
     E da Maliga tiene a Taracona.

23 Il re Agramante lui sotto Tortosa
     Discese, ove il fiume Ebro ha foce in mare;
     Là se adunò la gente copïosa,
     E verso Franza prese a caminare
     A gran giornate, senza alcuna posa.
     Già la Guascogna sotto a loro appare,
     Callando l’Alpe, e giù scendono al piano,
     Sin che fôr gionti sopra a Montealbano.

24 Di sotto a quel castello, alla campagna,
     Era battaglia più cruda che mai,
     Però che il re di Franza e il re di Spagna,
     Come di sopra già vi racontai,
     Con lor persone e con sua corte magna,
     E gente de’ suoi regni pure assai,
     Sono azuffati, e sopra di quel dosso
     Corre per tutto il sangue un palmo grosso.

25 Là se vedea Ranaldo e Feraguto,
     L’un più che l’altro alla battaglia fiero;
     E il re Grandonio orribile e membruto
     Avea afrontato il marchese Oliviero;
     Ad alcun de essi non bisogna aiuto.
     E Serpentino e il bon danese Ogiero
     Se facean guerra sopra di quel piano;
     E il re Marsilio contra a Carlo Mano.

26 Ma Rodamonte il crudo e Bradamante
     Avean tra lor la zuffa più diversa;
     Ché, come io dissi, il bon conte de Anglante
     Avea de un colpo la memoria persa,
     Quando il percosse il perfido africante,
     Che tramortito a dietro lo riversa.
     Tutta la cosa vi narrai a ponto,
     Però trapasso e più non la riconto.

27 Se non che, essendo quella dama altiera
     Ora affrontata al saracino ardito,
     E durando la zuffa orrenda e fiera,
     Il conte Orlando se fu risentito;
     E ben serìa tornato volentiera
     A vendicarse, come aveti odito:
     Essendo dal pagan sì forte offeso,
     Gli avria pan cotto per tal pasto reso.

28 Ma pur, temendo a farli villania,
     Poi che era de altra mischia intravagliato,
     Sua Durindana al fodro rimettia,
     E, lor mirando, stavasi da lato.
     Quel loco ove era la battaglia ria,
     Posto è tra duo colletti in un bel prato,
     Lontano a l’altra gente per bon spaccio,
     Sì che persona non gli dava impaccio.

29 Tre ore, o poco più, stettero a fronte
     La dama ardita e quel forte pagano;
     E stando quivi a rimirare il conte,
     Alciando gli occhi vidde di lontano
     Quella gran gente che callava il monte,
     E le bandiere poi di mano in mano,
     Con tal romor che par che ’l cel ruine,
     Tanta è la folta; e non se vede il fine.

30 Diceva Orlando: - O re del celo eterno,
     Dove è questo mal tempo ora nasciuto?
     Ché il re Marsilio e tutto suo governo
     Di tanta gente non avrebbe aiuto.
     Credo io che sono usciti dello inferno,
     Benché serà ciascuno il mal venuto
     E il mal trovato, sia chi esser si vôle,
     Se Durindana taglia come suole. -

31 Così parlava con molta arroganza;
     Verso quel monte ratto se distende.
     Sopra del prato integra era una lanza:
     Chinosse il conte e quella in terra prende,
     Ché cotal cosa avea spesso in usanza.
     Non so se lo atto a ponto ben s’intende;
     Dico, stando in arcione, essendo armato,
     Quella grossa asta su tolse del prato.

32 Con essa in su la coscia passa avante
     Sopra de Brigliador, che sembra occello.
     Ma ritornamo a dir del re Agramante,
     Che, veggendo nel piano il gran zambello,
     Forte allegrosse di cotal sembiante,
     E fie’ chiamarsi avante un damigello,
     Qual fu di Constantina incoronato,
     E Pinadoro il re fu nominato.

33 A lui comanda che vada soletto
     Tra quelle gente e, senza altra paura,
     Là dove il grande assalto era più stretto
     E la battaglia più crudiele e dura,
     Piglia qualche barone al suo dispetto,
     Vivo lo porti a lui con bona cura;
     O quattro o sei ne prenda ad un sol tratto,
     Accioché meglio intenda tutto il fatto.

34 Re Pinadoro parte cavalcando,
     E prestamente scese la gran costa;
     Da poi, per la campagna caminando,
     Non pone a speronare alcuna sosta,
     Ma poco cavalcò che trovò Orlando,
     Come venisse per scontrarlo a posta,
     E disfidandol con molta tempesta
     Se urtarno adosso con le lancie a resta.

35 Quivi de intorno non era persona,
     Benché fosse la zuffa assai vicina;
     L’un verso l’altro a più poter sperona
     A tutta briglia, con molta ruina.
     Ciascadun scudo al gran colpo risuona,
     Ma cade a terra il re di Constantina;
     Sua lancia andò volando in più tronconi,
     E lui di netto uscì fuor de l’arcioni.

36 Orlando lo pigliò senza contese,
     Poi che caduto fu de lo afferante,
     Però che lui non fece altre diffese,
     Né puote farle contra al sir de Anglante;
     E seco ragionando il conte intese
     Come quel ch’è nel monte è il re Agramante,
     Che per re Carlo e Francia disertare
     Con tanta gente avia passato ’l mare.

37 De ciò fu lieto il franco cavalliero:
     Guardando verso il cel col viso baldo
     Diceva: "O summo Dio, dove è mestiero,
     Pur mandi aiuto e soccorso di saldo!
     Ché, se non vien fallito il mio pensiero,
     Serà sconfitto Carlo con Ranaldo,
     Ed ogni paladin serà abattuto,
     Onde io serò richiesto a darli aiuto.

38 Così lo amor di quella che amo tanto
     Serà per mia prodezza racquistato,
     E per la sua beltate oggi mi vanto
     Che, se de incontro a me fosse adunato
     Con l’arme indosso il mondo tutto quanto,
     In questo giorno averòl disertato."
     Ciò ragionava il conte in la sua mente,
     E Pinadoro odìa de ciò nïente.

39 Ma il conte, vòlto a lui, disse: - Barone,
     Ritorna prestamente al tuo segnore,
     Se ti ha mandato per questa cagione
     Che tu rapporti a lui tutto il tenore.
     Dirai che il re Marsilio e il re Carlone
     Fan per battaglia insieme quel furore,
     E s’egli ha core ed animo reale,
     Venga alla zuffa e mostri ciò che vale. -

40 Re Pinador lo ringraziava assai,
     Come colui che molto fo cortese;
     E torna adietro e non se arresta mai,
     Sin che il destriero avanti il re discese,
     Dicendo: - Alto segnore, io me ne andai
     Ove volesti, e dicoti palese
     Che la battaglia ch’è sopra a quel piano,
     È tra Marsilio e il franco Carlo Mano.

41 Né so circa a tal fatto il tuo pensiero,
     Ma giù non callerai per mio consiglio,
     Perché io trovai nel piano un cavalliero
     De la cui forza ancor mi meraviglio,
     Che il scudo e sopraveste de quartiero
     Ha divisato bianco e di vermiglio;
     E se ciascun de gli altri serà tale,
     Il fatto nostro andrà peggio che male. -

42 E disse sorridendo il re Sobrino,
     Che a questo ragionare era presente:
     - Quel dal quartiero è Orlando paladino:
     Or scemarà il superchio a nostra gente;
     Ben lo cognosco insin da piccolino.
     Così Macon lo faccia ricredente,
     Come di spada e lancia ad ogni prova
     Il più fiero omo al mondo non se trova.

43 Or saperà se io ragionava invano
     Dentro a Biserta, allor che io fui schernito,
     Perché io lodai da possa Carlo Mano
     E lo esercito suo tanto fiorito.
     Traggasi avanti Alzirdo e Pulïano
     E Martasino, il quale è tanto ardito,
     Ché Rodamonte, alor cotanto acceso,
     Per la mia stima adesso è morto o preso.

44 Tragansi avanti questi giovanetti,
     Che mostravano aver tanta baldanza,
     E sono usati a giostra, per diletti,
     Andar forbiti e ben portar sua lanza.
     Ed acciò che altri forse non suspetti
     Ch’io dica tal parole per temanza,
     Gir vo’ con essi, e l’anima vi lasso,
     Se alcun di lor mi varca avanti un passo. -

45 Re Martasino a questo ragionare
     De ira e de orgoglio tutto se commosse,
     E disse: - Certamente io vo’ provare,
     Se questo Orlando è un om di carne e de osse,
     Poi che Sobrin non lo osa ad affrontare,
     Che sin da piccoletto lo cognosse.
     Chi vôl callar, se calla alla pianura:
     Nel monte aresti chi de onor non cura. -

46 Così parlava il franco Martasino:
     Non avea il mondo un altro più orgoglioso.
     Grossetto fu costui, ma piccolino
     De la persona, e destro e ponderoso,
     Rosso de faccia e di naso acquilino,
     Oltra a misura altiero e furïoso;
     Onde, cridando e crollando la testa,
     Giù de la costa sprona a gran tempesta.

47 Re Marbalusto il segue e Farurante;
     Alzirdo e Mirabaldo viene apresso,
     E Bambirago e il re Grifaldo avante.
     Né il re Sobrin, de cui parlava adesso,
     Mostra aver tema del segnor de Anglante,
     Ma più de gli altri tocca il destrier spesso,
     E con tanto furore andar se lassa,
     Che a Martasino avanti e a gli altri passa.

48 Né valse de Agramante il richiamare,
     Ché ciascaduno a più furia ne viene;
     Di esser là giù mille anni a tutti pare,
     Come livreri usciti di catene.
     Quando Agramante vede ogniomo andare,
     Movese anch’esso, e già non se ritiene,
     Né pone ordine alcuno alla battaglia,
     Ma fa seguire in frotta la canaglia.

49 Lui più de gli altri furïoso e fiero,
     Sopra de Sisifalto avanti passa,
     E seco a lato a lato il bon Rugiero,
     Ed Atalante, che giamai non lassa.
     Contar l’alto romor non fa mestiero;
     Ciascun direbbe: "Il mondo se fraccassa."
     Trema la terra e il cel tutto risuona,
     Cotanta gente al crido se abandona.

50 Suonando trombe e gran tamburi e corni
     La diversa canaglia scende al piano.
     Pochi di lor ne avea di ferro adorni,
     Chi porta mazze e chi bastoni in mano.
     Non se numerariano in cento giorni,
     Sì sterminatamente se ne vano.
     Ma tutti eran di lor con l’arme indosso
     Avanti van correndo a più non posso.

51 In questo tempo il re Marsilïone
     Gionto era quasi al ponto di morire,
     Né più se sosteniva ne lo arcione,
     Ma già da banda se lasciava gire,
     Però che adosso ha il franco re Carlone,
     Che ad ambe man non resta di ferire,
     E, come io dico, lo travaglia forte,
     Che quasi l’ha condutto in su la morte.

52 Ma, alciando gli occhi, vidde il re Agramante,
     Qual giù callando al piano era vicino,
     Con tante insegne e con bandiere avante,
     Che empìano intorno per ogni confino.
     Quando vidde callar gente cotante,
     Fasse la croce il figlio di Pepino;
     Per meraviglia è quasi sbigotito,
     Veggendo il gran trapel di novo uscito.

53 Il re Marsilio abandonò di saldo,
     Per porre altrove l’ordine ed aiuto.
     Poco lontano ad esso era Ranaldo,
     Che male avea condotto Feraguto.
     Benché ancor fosse alla battaglia caldo,
     Il brando pur di man gli era caduto;
     Or con la mazza ben gran colpi mena,
     Ma de la morte se diffende appena.

54 Ranaldo l’avria morto in veritate,
     Come io vi dico, e sempre il soperchiava,
     Perché poco estimava sue mazzate,
     E de Fusberta a lui spesso toccava.
     Tra le percosse orrende e sterminate
     Odì re Carlo, che a voce chiamava:
     Sì forte lo chiamò lo imperatore,
     Che pur intese intra tanto romore.

55 - Figlio, - cridava il re - figlio mio caro,
     Oggi d’esser gagliardo ce bisogna;
     Se tosto non se prende un bon riparo,
     Noi siam condotti alla ultima vergogna.
     Se mai fu giorno doloroso e amaro
     Per Montealbano e per tutta Guascogna,
     Se la Cristianità debbe perire,
     Oggi è quel giorno, o mai non de’ venire. -

56 A questo crido de lo imperatore
     Il franco fio de Amon fu rivoltato,
     A benché combattesse a gran furore
     Con Feraguto, come io vi ho contato,
     Il qual de la battaglia avia il peggiore;
     E poco gli giovava esser fatato:
     Tanto l’avea Ranaldo urtato e pisto,
     Che un sì malconzo più non fu mai visto.

57 E sì fu per affanno indebilito,
     Ed avea l’armi sì fiaccate intorno,
     Che intrare a nova zuffa non fu ardito,
     Ma prese posa insino a l’altro giorno.
     Ranaldo al campo lo lasciò stordito,
     Tornando a Carlo, il cavalliero adorno,
     Che ordinava le schiere a fronte a fronte
     Verso Agramante, che discende il monte.

58 De le schiere ordinate la primiera
     Dette il re Carlo a lui, come fu gionto,
     Dicendo: - Va via ratto alla costiera,
     Ove e nemici giù callano a ponto.
     Fa che seco te azuffi a ogni maniera
     Nel piè del monte, sì come io ti conto;
     Apizza la battaglia al stretto loco,
     Ove è quel re che ha in campo nero il foco.

59 Ora certanamente me divino
     Che il re Agramante avrà passato il mare,
     Ché quel da tale insegna è re Sobrino:
     Ben lo cognosco e so ciò che può fare.
     Di certo egli è gagliardo saracino.
     Or via, filiolo, e non te indugïare! -
     Poi la seconda schiera Carlo dona
     Al duca de Arli e al duca di Baiona.

60 Entrambi son del sangue di Mongrana:
     Sigieri il primo, e l’altro ha nome Uberto.
     Poscia il re Otone e sua gente soprana
     L’altra schiera ebbe sopra al campo aperto.
     La quarta, ch’era a questa prossimana,
     Governa il re di Frisa, Daniberto;
     La quinta poi il re Carlo arriccomanda
     A Manibruno, il quale era de Irlanda.

61 El re di Scozia giù mena la sesta;
     La settima governa Carlo Mano.
     Or se incomincia il crido e la tempesta.
     Gionto alla zuffa è il sir de Montealbano,
     Sopra Baiardo, con la lancia a resta:
     Tristo qualunche iscontra sopra il piano!
     Qual mezo morto de lo arcion trabocca,
     Qual come rana per le spalle insprocca.

62 Rotta la lancia, fuor trasse Fusberta:
     Ben vi so dir che spaccia quel cammino.
     - Or chi è costui che mia gente diserta, -
     Diceva, a lui guardando, il re Sobrino
     - Ed ha il leon sbarato alla coperta?
     Io non cognosco questo paladino.
     Nel gran paese dove Carlo regna,
     Mai non viddi colui, né questa insegna.

63 Ma debbe esser Ranaldo veramente,
     Di cui nel mondo se ragiona tanto.
     Or provarò se egli è così valente,
     Come de lui se dice in ogni canto. -
     Nel dir sperona il suo destrier corrente
     Quel re che di prodezza ha sì gran vanto;
     La lancia rotta avia prima nel piano,
     Ma ver Ranaldo vien col brando in mano.

64 Ranaldo il vidde e, stimandol assai
     Per le belle arme e per la appariscenza,
     Fra sé diceva: "Odito ho sempre mai
     Che il bon vantaggio è di quel che incomenza;
     Al mio poter tu non cominciarai,
     Ché chi coglie de prima, non va senza."
     Così dicendo sopra de la testa
     Ad ambe man lo tocca a gran tempesta.

65 Ma l’elmo che avea in capo era sì fino
     Che ponto non fu rotto né diviso,
     E nïente se mosse il re Sobrino,
     Benché non parve a lui colpo da riso.
     Ma già son gionto a l’ultimo confino
     Del canto consueto; onde io me aviso
     Che alquanto riposar vi fia diletto:
     Poi serà il fatto a l’altro canto detto.