Pandemonio/Parte V. Avvenimenti mondiali fra Calabria e Sicilia/Il delitto più grande di questo secolo
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IL DELITTO PIÙ GRANDE DI QUESTO SECOLO
Ritorniamo sul campo di Messina.
Un avvicendarsi di scosse, un freddo intenso, fuoco, fumo, nebbia. il terrore del pericolo permanente, cacciò alla marina tutti quelli che potevano reggersi in piedi anche moribondi o mal vivi perchè guasti nelle membra.
La mattina del 28 Dicembre a Catania si sentì una forte scossa di terremoto. Fuori tutti, semivestiti.
Non si seppe della sciagura di Reggio e Messina, sebbene ci fosse il telegrafo. Solo verso sera, dodici ore dopo il disastro, si sparse la voce che v’erano stati colà danni e morti e feriti, ma si credeva esagerazione. Ed ecco la stessa sera la sorpresa dell’invasione dei feriti e dei profughi, quasi ignudi, affranti, terrorizzati, sotto la pioggia. Vennero ricoverati alla meglio, ed erano in gran numero.
Pur nella sera medesima De Felice partì in automobile seguito da una squadra di volontari catanesi imbarcatasi su un vapore a spese del Municipio, perchè il Prefetto non poteva autorizzare a partire senza avere l’ordine da Roma.
Da Catania volevano accorrere molti altri giovani baldi ma esso ne li impedì.
In ogni luogo i prefetti e i sottoprefetti procrastinavano di dar viglietti gratis alle squadre di soccorso perchè non vi si credevano autorizzati.
Mentre tutto il mondo già il giorno 29 si commoveva al disastro, ecco quanto avveniva sul luogo:
Nel porto di Messina stazionavano l’incrociatore Piemonte con parecchie torpediniere e controtorpediniere che stettero inoperose. Solo la Spica uscì dal porto nel pomeriggio per andare a partecipare dalla stazione di Nicotera al governo la notizia che a Messina c’era un centinaio di vittime e di feriti!
Il giorno 29 alle 7 del mattino le navi della squadra russa Cesarowitch, Bagati, Makaroff, Slava, provenienti da Augusta, sbarcavano i loro eroici marinaj; e mezz’ora dopo li seguivano gli Inglesi delle navi Euryalus, Sultley e Minerva provenienti da Siracusa.
Nel pomeriggio si aggiunsero ai Russi gli incrociatori Gylak e Zoretz che giungevano da Palermo, mentre da Malta accorrevano le altre navi inglesi, l’Esmouth e la Dunkan.
Contemporaneamente arrivavano da Napoli le nostre navi: La Regina Elena, Napoli, e poi Regina Margherita, Sardegna, Sicilia e Coatit, cariche di medicinali e di munizioni. E ciò il 29 Dicembre.
Di quel grande rapajo di ministri dell’istruzione pubblica nella Minerva di Roma, — che per venire sanato dovrebbe esser raso al suolo arato, spargendovi entro il solco il sale; spesso il Palladio dell’analfabetismo; e qui davvero esclamo: povero Nasi! — quattro soli, se li ho bene in mente, saranno stati in grado di leggere dei terremoti successi in Italia, cioè: Villari, Bonghi, Mamiani, De Sanctis.
Non letto il Colletta, non solo, ma neppure l’inchiesta sul terremoto della Calabria 1905, la quale avrebbe fatto rilevare i provvedimenti da prendersi. Essa venne soppressa. Vi era uno studio del prof. Riccò sul terremoto del 1788, molto sensato, che parrebbe profezia.
Non dico letta la descrizione (sic) del terremoto di Lisbona del Baretti, che si trova in tutte le vecchie antologie ad uso delle scuole, cosa molto rettorica, dove due passi che parvero terrificanti e assai commossero allora, ora ci muovono al riso. Li cito soltanto per far vedere quante false fame ci furono in Italia e quante contraddizioni nei nostri scrittori. Perchè in Italia parve un prodigio la libertà dal Baretti iniziata nel giudicare di letteratura nella sua «Frusta letteraria». Non comprende Dante. Innalza Metastasio.
«Se in un’altra ora, del pranzo, fosse stato dalla Divina Provvidenza mandato tanto sterminio!
«Sin le povere monache, con crocifisso in mano, fur viste fuggire non solamente dalle case — oh, oh, le monache di casa! — e da’ monasteri per gli usci e per le porte, ma buttarsi giù dalle finestre, ecc.
«Colà il comune infortunio agguagliava ogni grado di persone, e i signori e le donne del paese, non eccettuati i principi e le principesse del real sangue.... e la plebe più abbietta.
«Non pochi morti d’inedia sugli occhi del loro addoloratissimo sovrano che per tutto il disastroso giorno altro non ebbe che amare lagrime da dar loro.
«Ecco i frammenti del muro che cadde addosso all’ambasciatore di Spagna, ed ecco dove le guardie che seguivano il fuggitivo nostro monarca furono dalla morte repentinamente involate al suo sguardo reale!»
Dunque fu a sera che il monarca scappò, perchè durante la giornata era occupato a versare amare lagrime.
Pietro Colletta nella «Storia del Reame di Napoli» ha tre descrizioni del terremoti calabro-siculi.
La prima del 1783 che è la principale e la più rilevante; poi quella della catastrofe del 1804, poco meno disastrosa della prima, che avvenne il 16 Luglio alle due della notte, e fu in Terra di Lavoro. Descrizioni per un governo che governi parimenti istruttive.
Precipitarono allora 200 tra città e villaggi e morirono 60,000 calabresi.
Altre scosse. Aeremoti. Incendii per le travi cadute sui focolari che parevano vulcani. Gli uomini attoniti e immoti per lo spavento e straziati dal dolore e dal timore che i parenti stessero ancora sotto le rovine.
E quanti sepolti aspettavano d’essere soccorsi! Creature umane viventi furono rinvenute dopo dieci undici giorni e più.
Quando tutti i cadaveri si scopersero fu visto che la quarta parte sarebbe rimasta in vita se gli aiuti non fossero tardati.
Un lattante fu estratto vivo il terzo giorno. Una pregnante dopo 30 ore. Un fanciullo il sesto giorno. Altra donna dopo undici. Un uomo di 91 anno fu tratto vivo dopo 22 giorni.
Animali domestici, forse fino all’alba carezzati e amici dell’uomo, divennero necrofori.
Il fetore dei cadaveri produsse morbi.
Corvi famelici e ladri si aggiravano fra le rovine.
In questi terremoti gli uomini furono più buoni che tristi e alcuni profondamente virtuosi.
Tornando al terremoto di Calabria del 1905, ricordo con amarezza d’essermi trovato a Bologna quando per tutte le vie ti venivano innanzi, da tutti i vicoli saltavano ragazzi e studenti chiedendo con bel garbo e vera pietà un soldo per le Calabrie, e parevano dire: «Date obolucci Belisario»; come la cara figlia di cotestui diceva a chi incontrava.
Poichè vuole la tradizione che il capitano che tanto fece per Giustiniano, al solito, s’ebbe regale mercede: gli furono cavati gli occhi. Se anche è leggenda, la voce del popolo prova che questo credè capace l’imperatore di compensare in tal guisa i servigi a lui resi.
Ricordo che venendo in ferrovia da Verona a Vicenza, vedemmo carrozze magnifiche della Croce Rossa, tutte verniciate lustre, cogli assistenti in uniforme nuova fiammante. I passeggeri gridavano affacciati alle finestre: «Oh bene, bravi! bene! Vanno certamente in Calabria. Sono forniti di tutto quanto occorre in simili frangenti. Come sono bene equipaggiati i nostri ospitali ambulanti!»
«No, andiamo a fare esercizi.»
E in Vicenza dove rimasi con la consorte, quelli coi parenti ed amici giravano facendo la bella gamba, come si dice in dialetto veneto. E in Calabria morivano di fatiche e d’inedia! Di tale misfatto parlò pure l’Avanti.
La marina da guerra italiana, assolutamente impreparata, partita, come dicemmo, tardi da Napoli, arrivò ultima al salvataggio.
«Le navi! le navi! La nostra bandiera! il tricolore!»
E i miseri accorsi alla riva riprendono fiato e speranza.
Le navi per la spera della nebbia ingigantite apparivano come fantasmi.
La squadra del Mediterraneo trovò già i Russi all’opera. Ma fasce ed altro occorrente vennero meno. Allora si rivolsero ad una delle navi da guerra per averne.
«Non posso, rispose il comandante; non ho ordini.»
«Ma buttate almeno da bordo un po’ di biscotto!»
E il comandante: «Non ho il permesso. Impossibile.»
Qualche marinaro agì di nascosto, dando del proprio biscotto a rischio di venire punito.
Con tutte le regole vollero andare, come in faccia a paese nemico! Proprio così. Senza permesso del superiori anche un ammiraglio non si permette di far nulla. Onde la squadra stava lì senza dare aiuto. Come una nave ferma nei ghiacci del Polo. Inesorabile come un gigante allegorico del militarismo.
Che dio ce ne guardi, ma se mai questo comandante si troverà in una battaglia navale a soccorrere i naufraghi, a gettare corde e salvagente per prenderli a bordo, dovrà domandare con segnali all’ammiraglio se lo permetta. Ma se l’ammiraglio per prudenza scapperà sopra un’altra nave e tutti i segnali saranno invano, allora.... che affoghino anche senza permesso!
Questo comandante della nave macabra, se non ostasse l’età e l’epoca, o se io credessi alla metempsicosi, direi fosse uno di quei generaloni austriaci dalla lunga coda, che a Marengo, per ogni mossa contro l’armata del Bonaparte s’affannavano di domandare ordini a Vienna. Il Bonaparte li spazzò via.
Oppure colui, non so più chi fosse, a Porto Arturo, che non s’acconciava ad agire perchè ogni mossa l’attendeva da Pietroburgo, dallo Zarre 8000 miglia distante che stava alla scacchiera.
Oppure quel comandante dello Spielberg di cui narra il Pellico a proposito del Maroncelli. Sentiamolo con le parole stesse delle «Mie Prigioni»:
«Un momento dopo viene il sottointendente e dice a Maroncelli: — Il protomedico non s’è accontentato di spiegarsi qui in sua presenza. Temeva che ella non avesse la forza di udirsi annunziare una dura necessità, e io l’ho assicurato che lei non manca di coraggio.
« — Spero, disse Maroncelli, d’aver dato qualche prova nel soffrire senz’urli questi strazi. Mi si proporrebbe mai?...
« — Sì, signore, l’amputazione. Se non che il protomedico, vedendo un corpo così emunto, esitava a consigliarla. In tanta debolezza si sentirà ella capace di sostenere l’amputazione? Vuol ella esporsi al pericolo?...
« — Di morire? E non morrei in breve egualmente se non si mette termine a questo male?
« — Dunque faremo subito relazione a Vienna d’ogni cosa, ed appena venuto il permesso d’amputarla....
« — Che! ci vuole un permesso?
« — Sì signore. —
«Di lì ad otto giorni l’aspettato consentimento giunse.»
Chi avrebbe detto allora ai due sventurati amici Pellico e Maroncelli, che davanti alle loro prigioni sarebbero stati posti i loro ritratti, che si sarebbe pagato l’ingresso per conservare quelle prigioni come un sacello, che sopra il ritratto di Silvio Pellico sarebbero messe firme e foglie; un libro per notare i visitatori forestieri, i quali convengono spontanei a visitare le segrete, non allettati da richiami ufficiali come al Pantheon per V. E.
Non è ciò indizio della grandezza dei due defunti? O dei tempi mutati?
Ma quanto diverso mi parve il ritratto da quel Silvio che nel 1847 vidi in Roma e mi consigliò, anzichè di coltivare le lettere, di studiare legge per difendere i politici!
Leggendo la storia imparziale del comm. Bersezio «Casa Savoja», risulta che per così dire nei tempi preistorici essa tendeva a sperare o a preparare l’unità d’Italia. — Come dunque non si mosse, non dico per reclamare, ma per minorare la pena a un suddito sardo che si travagliava per l’unita d’ ltalia? —
Si volle militarizzare il terremoto. Costringere a imbarcarsi quelli che avevano tutto il diritto di restare nelle case loro, anche rovinate. Affamare gli affamati. Non si permise alle squadre volontarie di lavorare, temendo che scemasse il prestigio dell’armata e gli altri facessero dal canto loro prodigi senza il controllo governativo.
Parecchi reggimenti d’infanteria da Palermo, arrivati non poterono far nulla, perchè non avevano strumenti, nè le coperte dei depositi, nè le medicine; nulla affatto.
In nessun modo fu provveduto. Altra volta la Calabria venne soccorsa dalla nazione. Avvennero sperperi di somme distribuite secondo il colore politico e la votazione; e rapine di fornitori.
Il governo doveva saperle queste cose ed esservi preparato, come dovevano trovarsi allestite le ambulanze di pronto soccorso.
Al 31 ancora non fasce nè altro occorrente; non cloroformio, onde senza narcosi si amputavano i feriti gravi, in quell’aria appestata di cadaveri, come si squartano animali dal beccajo. E sulle navi era tanto e tutto bellamente riposto. L’equipaggio e gli ufficiali fremevano. E uno disse: «Mi vergogno di essere Italiano». La burocrazia intralciava tutto.
Intanto i marinaj stranieri appena giunti e sbarcati, infaticabilmente, scavando, aiutando, trasportando i feriti alle lor navi facevano prodigi; e i nostri stavano ad aspettare gli ordini per andare a soccorrere gli sventurati che invano pregavano aiuto.
Si dovette al re personalmente e alla regina, che vennero il 30, se fu presa la decisione di trasportare i profughi e i feriti sulle nostre navi da guerra.
Dopo quattro giorni alcuni superstiti non avevano ancora ricevuto un solo pane. Nella stiva del Tebe vi erano dal giorno 29 parecchi quintali di pane.
Ma il comando in capo non aveva ancora l’ordine di sbarco e donne e bambini morivano di fame.
I primi reparti di truppa giunsero nel porto senza alcun utensile per gli scavi. Il primo gennajo, sul quinto giorno! vennero zappe, vanghe, badili, non tutti poi completamente distribuiti.
Nella notte le operazioni di salvataggio si dovevano sospendere per mancanza d’apparati d’illuminazione. Delle torcie erano state inviate due giorni prima ma non si seppe in quale piroscafo e in quale imballaggio fossero chiuse.
Quasi riconoscendo la propria deficenza in quel frangente, a petto agli eroi stranieri, i nostri si adattarono meglio al servizio meno difficoltoso del trasporto dei feriti nelle varie città d’Italia.
Finchè il giorno tre gennajo, con improntitudine stupefacente il generale Mazza faceva sapere all’ammiraglio Litvinoff che da quel momento egli disponeva di mezzi sufficienti per un’opera di soccorso indipendente.
Perchè lo disse? anzi lo fece? Ne aveva il diritto? Per dovere?
Fu un momento di vanità, presunzione, vanagloria, codarda albagia?
«Io domino la situazione. Ho gli occhi a tutto; ho sotto di me tutto. Farò. Farò quanto voi.»
Le relazioni de visu di De Felice, Morgari, Colajanni, vennero dette calunnie dagli alti ufficiali di marina.
Tutte le squadre che per conto loro furono sul luogo, fecero bene.
Nello stesso giorno fu proclamato lo stato d’assedio a Messina e Reggio. Per salvare le casseforti e gozzovigliare con più libertà. Come si banchettava allegramente a bordo del «Duca di Genova»! E gli ufficiali di marina, in pieno assetto sportivo, scendevano a terra a respirare con la bambagia antisettica nelle narici.
Il governo, se avesse avuto un po’ di previdenza, non dico provvidenza, avrebbe dovuto presentare una legge di espropriazione, edotto dal grande terremoto delle Calabrie, quando certi baroni, cioè feudatarj, negavano persino il permesso di ricostruire le case diroccate ai contadini sul loro terreno, o si facevano pagare finanche pochi metri di terra incolta. Così fu favorita la emigrazione che si ebbe dopo, e l’avidità dei fornitori più ingordi che mai, succhioni in fiore.
E commissioni e sottocommissioni assorbirono parte dei danari raccolti.
Una sola idea del governo. Salvare le proprietà; i beni particolari; e anche questa idea non venne subito, perchè i primi giorni abbandonarono la città ai malfattori, vere jene.
Poi le fucilazioni lasciate in balìa dei soldati, che in ciò diedero prove di una risurrezione dell’istinto di caccia innato nell’uomo. Fucilate anche le ombre. Fu sacrificata una giovane vita per cento lire che certo non avranno mai trovato il loro padrone.
E dovevano essere tutti ladri coloro che cercavano fra le macerie? Era naturale che i poveri andassero cercando il poco loro, mentre i ricchi chiedevano ed ottenevano il permesso di scavare.
Forse anche molti avevano l’illusione di trovare ancora vivi i loro cari. Una piccola cagna fu estratta viva a Messina dopo cento giorni di sepoltura. Un medico mi diceva: «Io ho fibre forti ma piansi sentendo quanti vivi ancora erano sotto le rovine.»
Uno venne fucilato perchè in possesso d’un pacco di sigari che non potè provare fossero suoi. Uno perchè aveva ai piedi un paio di scarpe nuove.
Un altro fu deferito al giudizio statario perchè concitato nelle risposte.
Italiani contro Italiani! Un soldato fucilato per esserglisi trovate indosso mille lire. E forse aveva salvato chi sa quanta gente e obbedito alla violenza della forza irresistibile nella indebita appropriazione. Ci voleva Lombroso!
Se immantinenti dopo il disastro avessero fucilato le jene, — sebbene contro la pena di morte, perchè gli averi sono cose e non vite, — ci sarebbe stato un motivo plausibile. Così per la villa di Cannizzaro che venne subito saccheggiata. Ma dopo due giorni fu ingiustizia che per l’indolenza del governo, i primi, i più rei, si fossero arricchiti impuniti, poi tanti poveri inermi venissero fucilati.
Altro gran lampo di genio fu quello di spargere calce su tutto e abbandonar tutto. Questo immane vaso di Pandora, colmo di tanti malanni, il governo lasciò restasse a render vana la speranza di soccorso!
E i poveri bambini e fanciulli rimasti soli derelitti sulla terra! Raccomandati alla pietà dei raccoglitori non tutti certo benevoli.
Anche dall’estero vennero richieste di bambini; anche dall’abate ***, già ben noto per un processo....
Ma chi mi dice quanti di quegli innocenti non saranno stati trafugati all’estero, come ogni giorno i quadri e gli oggetti d’arte che passano sotto gli occhi dei doganieri con varj sotterfugi o con bandiera extra territoriale?
Quanto sfruttamento di bambini sarà avvenuto! Tutti i conventi con le braccia aperte a riceverli, come gli oblati nel Medioevo, bambini donati ai conventi dai genitori per la salvezza dell’anima propria, non dei figliuoli. La formula era «Pro remedio».
Certo che i conventi fecero i maggiori acquisti di fanciulli, per trarne servette e valletti e ritenerli poi per tutta la vita, obbligandoli a non uscirne più, anche gli ebrei battezzati a forza. Onde d’ora innanzi più vasti manicomi!
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