Platone in Italia/XIII. Discorso di Clinia

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XIII. Discorso di Clinia

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XII. Di Cleobolo a Speusippo XIV. Discorso di Archita
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XIII

Discorso di Clinia

[Sviluppo delle scienze — Primitiva identitá di scienza e religione — Progressi della scienza di mano in mano che si conosce piú particolareggiatamente l’immensa catena di esseri intercedenti tra la divinitá e gli uomini — Distinzione delle scienze in morali e fisiche — Contatti tra le une e le altre — Dialettica, scienza delle scienze — Sofistica — Suoi danni — i° credere di sapere ciò che s’ignora — 2° credere d’ignorare ciò che si sa — Il vero è l’ente — Idee sensibili e idee intellettuali — Varie opinioni sull’origine delle idee — Impossibile saperne nulla di certo — Fallacia delle sensazioni — Necessitá dell’eliminazione deMe apparenze — Dottrina della scuola eleatica sull’ente — Xenofane, Empedocle e Parmenide — Teorie italiche sulla duplicitá o molteplicitá degli enti — Talete, Anassimene, Anassagora — Unitá e indivisibilitá dell’ente — Diodoro e Diogene, e loro disputa sul moto — Metodi e studi dei dialettici italici — Scienza delle categorie — Opere di Archita — Logica — Grammatici — Retori — Eloquenza — Oratoria pochissimo utile alla ’ era eloquenza — Sola fonte di questa la sapienza — Sola materia, il nudo vero — Solo metodo efficace, quello matematico — Interrogazione, arma valida di persuasione Ma soltanto presso chi giá senta l’amor del vero — Gli indifferenti occorre commoverli e interessarli — Teoria aristotelica dell’eloquenza — La degenerazione dell’eloquenza in semplice arte di piacere è sintomo della decadenza di un popolo.]

— Tu vedi — mi diceva Clinia, passeggiando per la biblioteca, — tu vedi il deposito di tutto ciò che gl’italiani hanno pensato. Le scienze sono tra noi molto antiche. Ne’ primi tempi esse furon semplici e si occuparono di pochi oggetti. Col correr degli anni, il numero di questi si accrebbe, ed è stato [p. 59 modifica]necessario introdurre tra li medesimi delle nuove divisioni, le quali, mentre favorivano il piú profondo esame di ciascuno, impedivano la confusione di tutti. L’ordine, che tu osservi nella disposizione di questi volumi, dipende dalla divisione che si è seguita nelle idee che essi contengono.

Ne’ primi tempi, gli uomini ancora selvaggi ed indolenti, quali son sempre i selvaggi, non osservarono altro che i grandissimi fenomeni della natura. Il primo sentimento, che li mosse ad osservare, fu il timore. Ricercarono la cagione di ciò che temevano, e credettero ritrovarla nella idea sublimemente tenebrosa di un ente indefinitamente forte, che lo stesso timore avea fatto immaginare. Il timore fece nascere la religione, e tutte le scienze in origine non furono che religione. Si cercava la cagione del fulmine? Era negl’iddíi, perché la loro idea era la prima che gli uomini avessero immaginata. Si ricercava la ragione di un dovere? Dovea ritrovarsi negl’iddíi, perché non aveano ancora immaginata un’altra idea. Gli uomini non conoscevano ancora altra cagione universale, la quale potesse esser nesso di tutte le cose. Quindi, per i primi popoli, i sapienti non eran altri che gli stessi sacerdoti: la scienza della natura non era che la scienza degli augúri, cioè della volontá degl’ iddii; la scienza dell’uomo non era che la scienza de’ sacrifici e delle espiazioni, cioè de’ modi di propiziarsi la volontá di quegl’iddii che il popolo temeva1.

Col tempo, si è scoperto che tra noi e la divinitá esiste una catena immensa di esseri, dei quali l’uno dipende dall’altro; e, prima di arrivare all’ultimo anello, è necessitá conoscere i rapporti di tutti gli altri che sono di mezzo, e la varia natura de’ quali forma leggi inalterabili tanto per quelli che ne dipendono quanto per gli altri da’ quali dipendono essi stessi. Pindaro diceva che la legge siede regina de’mortali e degl’immortali. Rimane però tuttavia una scienza di divinazione, perché è quella sulla quale le menti di tutt’i popoli eran modellate, e perché, essendo impossibile che i filosofi conoscano tutti gli [p. 60 modifica]anelli della catena, ed ignorando il volgo la parte piú difficile della sapienza, che e quella di dubitare, appena i primi si arrestano, il secondo salta tutti gli anelli incogniti e corre colla mente al primo.

I filosofi dividon la filosofia in due parti: una ricerca ciò che è in me; l’altra ciò che è fuori di me. Quindi la divisione di tutte le scienze in morali e fisiche2. Ma vi è in me una parte libera ed un’altra sottoposta alle stesse leggi che dominano tutti gli altri enti dell’universo; e questi, al contrario, hanno una natura intrinseca ed immutabile ed un’altra apparente, la quale cangiasi a seconda del mio modo di sentire e di vedere. Quindi la scienza dell’uomo deve avere ed ha molti punti comuni con quella della natura; e da questi punti discendono tutte quelle nostre cognizioni pratiche, quali sono la medicina, la ginnastica, la meccanica, quella parte della musica la quale si occupa degl’istrumenti...

Prima però di poter conoscere tutte queste cose, era necessario preparar la mente dell’uomo alla ricerca del vero, onde potesse riconoscerlo in tutte le occasioni, e, riconosciutolo, afferrarlo potentemente e non perderlo mai. Questa terza parte delle nostre cognizioni è comune a tutte le altre due, ed è quasi la scienza delle scienze; quella senza di cui non ve ne sarebbe nessun’altra, perché mancherebbe il solo mezzo che abbiamo per conoscere il vero. Noi l’abbiam chiamata «dialettica», perché il suo fine principale è quello d’istruir gli uomini nella disputa. E difatti, quando ricercasi il vero, l’uomo è in disputa o con gli altri o con se stesso.

Senza dialettica non vi è veruna scienza; perché, se la scienza è la ricerca del vero, non potrá mai ricercarsi ciò che non si conosce. La tua mente ondeggerá in eterno dubbio, talora ignorando ciò che sai, talora credendo di saper ciò che ignori. [p. 61 modifica]— Credi tu, o Clinia — dimandai io, — che l’uomo possa mai ignorar ciò che sa? Che possa talora credere di sapere ciò che ignora, l’ho udito dir mille volte da Platone; ed egli chiama questa la piú funesta e la piú vergognosa di tutte le ignoranze3.

— Né meno funesta — rispose — né meno comune è l’altra, o Cleobolo. Sai tu quei tanti mezzo-sapienti i quali inondano la vostra Grecia: Gorgia, Protagora, Prodico?... Il maggior numero è di siciliani4. Corrotti una volta, in Sicilia, gli ordini pubblici, le menti degli uomini, non potendo professare il giusto, non han potuto piú ricercare il vero, e si sono rivolte tutte a quella scienza che solo serve a lusingare il forte. Voi li solete chiamar «sofisti», come chiamate le Furie «pietose»5. Di’ a taluni di loro che vuoi prender il maneggio degli affari pubblici e che vuoi imparar da lui la scienza del governo. Egli ti dira di saperla, t’insegnerá qualche precetto, e poco dopo ti congederá dalla sua scuola giá dotto. Egli allora t’inganna, facendoti credere di saper ciò che non sai: non è vero?

— È verissimo, o Clinia.

— Ebbene: a questo stesso uomo confida un tuo bravo desiderio. Digli, per esempio, che tu potresti arricchire a spese del pupillo, che la legge e l’amico morto ti han confidato. Tu sai che la fede è sacra. Ma egli ti dirá che i doveri della fede debbon cedere ai calcoli della utilitá; che... Io inorridisco in ripeterti ciò che egli ti potrebbe dire. Ma, quando ti avrá convinto, che altro avrá fatto, se non farti dubitare di ciò che era certo, farti credere di non sapere ciò che veramente sapevi? Un mio amico di Elea6, che oggi non è piú tra noi, tali sofisti soleva chiamarli «facitori di simulacri, ma non veri». [p. 62 modifica]— Essi ti danno dunque — io dissi — le opinioni proprie come ritratti delle cose che esistono. Fin qui l’intendo. Ma dimmi adesso, o Clinia: che è mai il vero? —

CLINIA. Lo hai detto tu stesso, o Cleobolo. Il vero è ciò che esiste7; il vero è l’ente. Dir il falso è lo stesso che dir una cosa che non è.

Or come riconoscer la cosa che è, e distinguerla da un’altra, che solamente appare? Molte cose ci sembrano e non sono; molte altre sono tali per un momento e poi cangiano.

La dialettica incomincia dal dirti che tu hai due specie di cognizioni, perché hai due specie di idee: talune ti vengon dai sensi, e noi le sogliamo chiamar «sensibili»; altre si formano in te stesso, e si chiamano «intellettuali». In queste tutto è vero, perché la cosa non è che la stessa tua idea, e non vi è tra la cosa e te un simulacro di cui ti sia permesso dubitare. Tutto in queste idee deve esser vero, perché, non essendo a noi permesso di passar piú innanzi, se il vero ivi non istesse, non potrebbe stare altrove. Tu vedi un ritratto, e puoi dir: — Chi sa se rassomigli all’originale? — Ma, se tu vedi l’originale, non puoi dire: — Chi sa se rassomigli a se stesso? —

I nostri hanno ricercata l’origine di tali idee. Ti potrei mostrar molti volumi scritti sopra tal quistione. Taluni credono che noi queste idee non l’abbiamo, ma che le formiamo noi stessi da quelle che ci vengon da’ sensi8. Altri, che le nostre menti le aveano prima di esser rinchiuse nel corpo, e che il formarle altro non sia che riprodurle9. Altri, finalmente, credono che tali idee dipendano da una forma intrinseca della mente nostra. E queste due ultime opinioni, che poco o nulla differiscono, sono le piú comuni tra li filosofi nostri. Io credo che in tal quistione non si saprá mai nulla di certo.

— E perché? — dimandai io.

Ed egli: — Perché la sola veritá che abbiamo è in noi. [p. 63 modifica]Fuori di noi non vi è veritá nessuna. Il tuo occhio vede. Finché ti contenti di dire solamente: — Io vedo, — tu dici il vero. Ma tu vuoi dire anche di piú; tu dici: — Esiste ciò che io vedo, ed è quale io lo vedo. — E questo può esser falso.

Per la via de’ sensi noi riceviamo solo le apparenze, non mai la realtá. Tu vedi sulla mia veste il color bianco, ma questo colore non ci è: solo esiste nella veste mia una tal disposizione di parti, che, riflettendo la luce, produce in te la sensazione del bianco. Se io cangio sito, forse il bianco ti sembrerá piú pallido, quasi terreo, cenericcio, e che so io? Le apparenze son molte; ma la veritá non può esser che una, perché una è la mia veste. E quindi la prima via per avvicinarci alla veritá è quella dell’eliminazione.

Difatti, eliminando tutte le apparenze, i nostri filosofi son giunti a toglier dal numero degli enti molte nostre sensazioni; e nella scuola di Elea, ove piú che altrove si è data opera alladialettica, si è giunto a credere che il vero ente sia un solo, e che esso non abbia veruna delle qualitá die da noi gli si dánno. Tu vedi qui i libri di Zenofane, di Parmenide, di Zenone ed anche di Empedocle, i quali non hanno professata altra dottrina. Zenofane è oscuro, e quasi lo diresti «agreste»; Empedocle pare che balbutisca una dottrina nuova; colui, che meglio degli altri ha compreso ciò che diceva, è Parmenide10

Taluni filosofi di Taranto, di Locri, di Reggio han sostenuto esservi due enti diversi, la mente e la materia; e finora la lite pende indecisa. Altri, piú grossolani ancora, han confusi gli enti con quelli che i fisici chiamano «elementi delle cose sensibili», ed han detto gli enti esser quattro, cinque, sei, dieci, mille, distinguendoli per quelle apparenze, le quali per noi è dimostrato non esser altro che nostre sensazioni.

— Ma come sai tu che tutto è uno? — Tu a me dimandi questo? Dovrei io dimandar a te: — Come sai che vi sia piú di uno? — Tu distingui le cose, seguendo le diverse sensazioni che esse producono in te; ed [p. 64 modifica]asserisci l’acqua e l’aria esser due, perché quelle sensazioni, che desta la prima, son tutte diverse da quelle che ricevi dalla seconda. «Tutto è acqua», diceva il vostro Talete; «tutto è aria», sosteneva Anassimene: «tutto è in piccolo qual apparisce in grande», diceva Anassagora. Essi credono scomporre la natura, e non scompongono che le sensazioni proprie. Ma, dimostrato una volta che queste nostre sensazioni non esistono negli enti che son fuori di noi, e necessitá dire: — Tutto va bene, finché vi sono sensazioni da scomporre. — Se vorrete esser ragionevoli, confesserete di aver tanti elementi quante sono le sensazioni che voi non potete suddividere. Oggi Talete vi dice che la terra non è altro che acqua condensata, ed eccovi scancellato il nome della terra dalla lista degli elementi; dimani un altro scoprirá che l’acqua non è che aria resa piú densa dal freddo, e voi sarete costretti a scancellare anche l’acqua. Vi sará però un termine, oltre del quale è negato il progredire. Tutto ciò, die tu non potrai sentire, non sará possibile neanche dividere, e quello appunto sará il vero elemento, l’ente che veramente esiste. Ma allora una nebbia densa, impenetrabile ti coprirá; tu non potrai dir piú né due, né quattro, né dieci: un solo ente, se sarai savio, tu potrai affermare, perché un solo è necessitá che esista, ed un solo può bastare a produrre l’infinita varietá di tutte le tue sensazioni.

— Per Ercole! — esclamai io. — Tu, o saggio Clinia, avresti dato ragione a quel pazzo di Diodoro, il quale andava predicando per le strade di Atene che non vi era moto. Il nostro Diogene gli rispondeva argomentando col suo bastone.

— E faceva gran senno Diogene — mi rispose egli. — Seguendo i principi di Parmenide, Diodoro non avrebbe potuto negare il moto, per la stessa ragione per cui non avrebbe potuto affermarlo. Una sensazione di moto vi è: chi può negarlo? Ma questo moto è altro che una mia sensazione? è qualche cosa di piú, di meno, di diverso? Chi può saperlo, se noi non abbiamo altro che la sensazione?

La dialettica de’ filosofi italiani, invece di moltiplicar le dispute, tende ad estinguerle, risecando tutte le oziose. Il primo [p. 65 modifica]suo fine è quello di segnare i confini di ciò che si può sapere; e questi saranno esattamente segnati, tosto die sapremo conoscer ciò che è, e distinguerlo da ciò che appare; perché appunto dal confonderli ne viene che tante volte o tentiamo o crediamo di saper ciò che di saper ci è negato.

La nostra dialettica incomincia dal separare le cose che sono distinte. Non confondete ciò che è dentro di voi con ciò che è fuori: ecco il primo suo precetto. Della vera natura degli esseri non potrete mai saper nulla: ecco il secondo. Melisso di Elea trasportò la dottrina di Parmenide dalla ragione alla natura, e sostenne tutte le cose esser materialmente una. Alcmeone di Crotone disse che eran due11. — Voi errate — diceva il maggior numero de’ nostri, — perché trasportate fuori di voi la veritá che è nel vostro intelletto. Se mai volete ricercar la natura sensibile delle cose, vi sará permesso di paragonar le vostre sensazioni medesime, e trovar tra esse talune relazioni, onde sappiate quali esistono insieme, quali si soglion succedere, e cosí abbiate in voi stessi una scienza, la quale, se non sará simile alle cose, rassomiglierá però alle vostre sensazioni e vi servirá per gli usi della vita.

Ma, per procedere con sicurezza in tali ricerche, era necessario formar i generi e le specie, onde, passando dalle cose generali alle particolari, si potesse comprendere la natura di ciascuna. Noi chiamiam questa parte della dialettica «scienza delle categorie». Il nostro amico Archita l’ha esposta in un libro sulla natura degli universali. Abbiam anche di lui un libro sulla filosofia istrumentale, due altri sull’ente, sul principio, sui contrari. Egli ha trattate quasi tutte le parti della dialettica; e questi suoi libri sono riputati i migliori di tutti gli altri12

Altri si sono occupati, dietro queste categorie, a fissar le leggi de’ nostri giudizi e dei ragionamenti nostri; ed hanno insegnati i precetti per evitare gli errori, i quali tutti riduconsi [p. 66 modifica]a due: o a conchiuder meno di ciò che si è stabilito per principio, o a conchiuder piú.

Siccome la veritá non si può comunicare ad altri se non per mezzo della parola, e della parola abbiam bisogno anche per ragionar con noi stessi; siccome il retto uso della medesima diventa per ciò grande istrumento a conoscer la veritá, e l’abuso sorgente funesta di infiniti errori: cosí molti se ne sono utilmente occupati; e tu vedi qui riuniti ai dialettici anche coloro che si chiamano «grammatici».

Tra questi, taluni si son rimasti a stabilire il vero senso delle parole, e quella serie e quella giuntura delle medesime che fosse la piú naturale e la piú chiara. Altri sono passati piú oltre, ed hanno ricercato l’origine delle parole medesime: dalla quale, ben intesa, talora si comprende meglio la idea che si vuole esprimere; talora si toglie un errore, che nel mal uso di questa parola si contiene. Mi si narra da Platone che il vostro Socrate avea in gran pregio tali ricerche e le credeva utilissime alla scoperta del vero.

Ma le parole non sono che la materia dei nostri discorsi: è necessario metterla, come suol dirsi, in opera e parlare. I retori si sono incaricati di tali precetti. Tu li vedi: occupano tutto intero quel lato della sala. Empedocle è uno de’ piú antichi, e forse tuttavia il migliore. Coloro che lo han seguito sono infiniti.

— O Clinia — dissi io, — tutti voi altri italiani dovete esser molto eloquenti. Almeno tra voi l’apprender l’eloquenza deve costar meno che in Atene, dove Isocrate non l’insegnava per meno di un talento e Gorgia pretendeva anche di piú. —

CLINIA. Di tutti questi scrittori, pochissimi son quelli che noi leggiamo e che consigliamo agli altri di leggere. Essi son molti di numero, perché facile è la scienza che insegnano e di facile smercio tra ’l volgo, di cui è eterna natura quella che lo spinge a voler imitare i grandi uomini colla minor fatica e col minore incomodo che sia possibile. Questi scrittori, dunque, ti numerano diligentemente tutte le parole, ti misurano tutte le sillabe, ti scompongono tutti i periodi di un poeta o di un ora[p. 67 modifica]tore, e poi ti dicono: — Ecco ciò che il tale ha fatto, ed ecco ciò che devi fare ancor tu, se vuoi divenire eguale a lui. — Cosí ini si narra in Atene esservi molti, i quali, volendo imita Platone, riquadrano le spalle e storcono un pocolino il collo, ed affettano aver le vesti, il passo, gli atti, tutto, insomma, di Platone, fuorché la mente.

La mente è tutto, o mio amico. Il vero, il solo fonte dell’eloquenza è la sapienza. Il fine dell’oratore è quello di persuadere e di commovere. Chi non pensa e non sente, potrá esser loquace: se aggiugnerá nuovo studio, potrá anche diventar elegante. Chi glielo vieta? Ma, se la sua mente non avrá idee, se il suo cuore non avrá sentimenti, gli mancherá sempre la materia per esser eloquente.

— Non vi è dunque arte alcuna che insegni ad esser eloquente?13

— No. Un’arte vi è; ma i suoi precetti sono pochi, perché pochi sono in ogni arte i precetti, de’ quali dir si possa certo, infallibile l’effetto.

Dimmi: hai tu mai visto le veritá della matematica aver bisogno di arte retorica? La piú semplice esposizione delle medesime è la sola che sia eloquente: ogni ornamento sará sempre inutile, e spesse volte anche noioso. Ed hai tu mai visto il piú artificioso discorso di un retore produrre nell’animo del lettore o dell’ascoltante tanto profonda, sicura, interna persuasione, quanta ne produce colle sue semplici e nude esposizioni il matematico?

Se l’arte dell’eloquenza è l’arte di persuadere, non vi è altra eloquenza che quella di dire sempre il vero, il solo vero, il nudo vero. Le parole, onde è necessitá di nostra inferma natura di rivestire il jiensiero, saranno tanto piú potenti, quanto piú atte al fine, cioè quanto piú nudo lasoeranno il vero, che è nel pensiero. Elena deve esser bella, e non giá la veste ricca. [p. 68 modifica]Se tutte le cose, delle quali gli uomini si occupano, avessero quella evidenza di veritá che accompagna le cognizioni matematiche, tutta l’arte de’ retori sarebbe interamente inutile. Sola materia dell’eloquenza è ciò che è probabile14, e l’unico suo fine è quello di farlo apparir vero. Vuoi saper quali ne sieno i mezzi? Quegli stessi che adoprano i matematici: cioè preparar le menti altrui coll’esposizione di quelle idee che sono necessarie a poter comprendere quella che tu vuoi persuadere.

Il germe di tutte le veritá è in noi stessi; e quegli è l’uomo veracemente eloquente, il quale, conoscendoli, li sa fomentare, li fa schiudere e fa quasi costruir da me stesso l’idea della quale egli vuol persuadermi. Un loquace mi assorderá con inutili ciarle. Come le bálie stancano i fanciulli finché li sorprenda il sonno, e poi veggano la notte tutte quelle fantasme, onde loro avean ripiena la mente nel giorno; il sofista mi ridurrá a tacere, a dormire: la mia mente ondeggerá tra mille sogni. Ma non perciò tu potrai dire di avermi convinto: la mia mente non presterá mai pieno assenso se non a quella veritá che crede sua.

Quindi è che il nostro Parmenide, e dopo di lui il vostro Socrate, credevano il piú efficace metodo di persuadere esser quello d’interrogare. In tal modo si scandaglia la mente altrui, finché si ritrovino i germi di quella veritá che si ricerca, e nel tempo istesso si vanno sgombrando a poco a poco e tutt’i pregiudizi e tutti gli errori e tutte quelle parole inesatte, che ricoprivano i semi del vero ed impedivano che germogliassero.

Ma questo metodo può sol valere tra coloro i quali sentano giá l’amore della veritá, ed altro ostacolo non incontrano a pervenirvi che la mancanza dell’istruzione. Che farai tu con un popolo, a cui, prima di esporgli il vero, è necessitá ispirargliene l’amore? Tu devi superare quella naturai noia, che lo tien lontano da tutto ciò che è vero; tu devi vincere quelle passioni, che lo allontanano da ciò che è buono. Vincerai la noia destando la sua attenzione, e desterai questa commovendo [p. 69 modifica]il suo cuore. Ordinerai allora le idee, che vuoi comunicargli, in modo che destino il suo interesse e che lo accrescano ad ogni momento, senza lasciarlo mai raffreddare. Dirigerai o vincerai le sue passioni: ed otterrai un tanto fine, se saprai calmarle, destarle, oontraporle l’una all’altra., insomma se le conoscerai.

A che dunque si riduce quest’arte retorica di cui tu mi parli? A conoscer gli uomini e le cose.

— Tu — diss’io, — tu dunque, o Clinia, pensi che il bisogno dell’eloquenza nasca dalla nostra corruzione? Sappi che questo istesso suol dire un discepolo di Platone e mio amicissimo, quell’Aristotele di Stagira, di cui ti ho piú volte parlato.

— Ed Aristotele — egli rispose — ha ragione. Se tutti gli uomini fossero savi e buoni, non vi sarebbe bisogno di eloquenza. Or, perché essi si annoiano del vero e non amano il giusto, i savi hanno bisogno dell’arte della parola, come di una parte principale della scienza di ordinare e reggere le cittá15.

Ma verrá un tempo, e quest’arte passerá dai savi agli oziosi, i quali concepiranno una eloquenza, che non avrá per suo fine né il persuadere né il commuovere, ma quello solamente, come essi diranno, di piacere: e, per ottenere tal fine, si fabbricheranno una rettorica artificiosa, che sopracaricheranno di precetti difficili ed inutili, onde poi possano gli oziosi conseguire il piacere che vi è nel superarli. Cosí l’uomo, divorato dalla noia dell’ozio, si crea un’occupazione arbitraria: ed or ti conta le correnti delle travi della stanza in cui giace; ora, mettendo una gamba sull’altra, la dimena non senza qualche misura; ora fischia in cadenza; or fa una cosa, or ne imita un’altra; e trae dal ritorno periodico de’ suoni e de’ movimenti e dalle superflue difficoltá superate un tenue sentimento di vita ed un piacere chimerico, che supplisca alla mancanza de’ piaceri reali. Ma. quando tu vedrai le cose e gli animi ridotti a tale stato, fuggi una cittá ed un secolo frivolo, in cui il popolo, perduta la sola medicina che poteva sperar da’ savi, trova altri piaceri oltre di quelli di pensare e di sentire. —

  1. VICO, Scienza nuova.
  2. «Scienza di me e scienza della natura» dice il testo. Ho creduto piú adattato alla nostra lingua «scienze morali e fisiche».
  3. PLATONE, Alcibiade primo.
  4. É noto che i siciliani furono i primi a far professione di eloquenza sofistica.
  5. Eumenidi.
  6. L’«ospite eleate» nel Sofista di Platone. Egli dice in veritá «simulacri non divini». Ma queste parole nel sistema platonico vaglion lo stesso che «simulacri non veri». Il mondo non era che il simulacro dell’idea che esiste nella mente eterna. Iddio, che avea creato il mondo, era un facitor di simulacri, ma veri.
  7. VICO, De antiquissima Italorum sapientia
  8. ARISTOTELE
  9. Era il sistema di platone
  10. ARISTOTELE, Metafisica, I
  11. ARISTOTELE, Metafisica, I
  12. ARISTOTELE, Metafisica, VIII, 2; STOBEO, Ecloghe, 92; CLAUDIO MAMERTINO, II; SIMPLICIO, In Aristotelem, ecc. ecc.
  13. Questa disputa agitavasi anche ai tempi di Cicerone, il quale la discute. Ma egli prende, come era naturale, le parti dell’oratoria.
  14. ARISTOTELE, Retorica
  15. ARISTOTELE, Retorica