Poich'ebbe il greco infido

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Giovan Battista Marino

XVII secolo Indice:Marino Poesie varie (1913).djvu Letteratura V. Arianna abbandonata Intestazione 27 giugno 2023 100% Da definire

Per le folte d'Arcadia amiche selve In quella parte a punto
Questo testo fa parte della raccolta Poesie varie (Marino)/Gl'idilli mitologici


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v

arianna abbandonata

     Poich’ebbe il greco infido,
ritornato di Creta
giá vincitor del Minotauro orrendo,
da la riva di Nasso
salpato il ferro e ’l canape disciolto,
la misera Arianna,
rotta dal mare e dal viaggio stanca,
dormí, finché in levante
a risvegliarsi incominciò l’aurora.
Era a punto ne l’ora
ch’ella, per intrecciarsi
di rosate ghirlande il biondo crine
e per abbeverar di manna fresca
i sitibondi prati,
de l’indico orizzonte
lo stellato balcon aprir volea.
La rugiadosa dea,
minor luce di Delo,
giá cacciatrice in terra,
or fatta cerva in cielo,
con argentate corna
per le tenebre rotte
de la candida notte
le saette d’Apollo iva fuggendo.
L’aria tra bianca e bruna,
tinta d’ombra e di luce,
con colore indistinto
un bel misto facea d’alba e di luna:
     quand’ecco arrivar quivi
il piú giolivo, il piú giocondo dio,

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dico Bacco gentile,
che con sue liete e strepitose squadre
in ricca poppa altier facea ritorno,
trionfator de l’espugnato Gange;
e, come vide quella,
non piú veduta in sí remota parte,
solitaria bellezza,
accostato alla riva il cavo pino,
dolce fermossi a contemplarla intento.
     Sovra l’orlo del lido
piantata era la tenda,
dove giacea l’innamorata donna:
nuda no, d’una gonna
velata sol semplicemente bianca,
del cui morbido argento avea le trame
figurate a fogliaggio un bel lavoro
di porpora con oro.
Pendean d’ambe l’orecchie
due ricche navicelle
del piú fino smeraldo,
ch’avean d’oro le sarte e d’òr gli arredi.
Cerchiava l’alabastro
de la colonna pura,
che reggea l’edificio del bel volto,
collar fatto di smalto
a foggia d’angue attorto, a cui di bocca
di lucenti rubini uscían tre lingue.
Nel mezzo de la fronte
un’aquiletta d’òr tenea tra l’unghie
grossa fuor di misura
di diamante angolar forbita punta.
Le chiome, senza legge
scompigliate serpendo
fuor d’un bel nastro di purpurea seta,
traboccavan sul tergo e su la guancia;
ed era quel disordine sí bello

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che superava ogni ornamento, ogn’arte.
Giacea supina, e ’l collo
curvo alquanto e cadente
ver’ l’omero sinistro, in sul guanciale
riversava la testa,
e l’eburneo canal mostrava tutto
de la leggiadra e delicata gola.
De l’abito sottile il drappo lieve
e de la prima spoglia il bianco lino
fin al bellíco era scorciato e scinto;
sí che presso ai confin del varco estremo
ed ai recessi interni
de l’ultime bellezze, ove natura
vergognosa s’asconde,
scopria del vago seno
le palpitanti e tepidette nevi.
Ma, benché sonnacchiosa,
tanto avea di riguardo,
che, mentre inutil peso
pendeale a terra da la spalla ignuda
ozioso e dimesso il braccio manco,
acciò che ’l vento ardito
non le facesse alcun lascivo oltraggio,
su la vesta dormendo
tenea la destra e le ’mpediva il volo.
Le vezzosette piante,
scalze e senza coturno,
toccando la vicina umida sponda,
si lavavan ne l’onda;
e nel margine erboso,
a cui, da l’onda istessa
intessuto di limo,
verde, rosso, ceruleo, azurro e giallo
orlava il lembo un natural ricamo,
sovente il mar con mormoranti baci
a lambirle il bel piè stendea la lingua,

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e, fatto nel baciarlo
del suo spumoso argento
con quel latte animato
paragon di candore,
vinto cedeagli e ritirava il passo.
     Stupido e tutto pien d’alta vaghezza
pende da quell’oggetto
l’immortal giovinetto. Ancor sul mento
il bel fior giovenil pullula acerbo.
L’asta del verde tirso,
la cima armata di pungente ferro,
ha ne la destra, e vi s’appoggia alquanto;
tien di branche di viti e di corimbi,
che gli scusano insieme
e cappello e ghirlanda,
impedita la chioma, onde pendenti
di bacche nere e grappoli vermigli
tremolanti leggiadri
fanno dolce ombra a l’infocato volto.
Sfavillan gli occhi d’un purpureo raggio,
e tra viticci e tralci
spuntan fuor de le tempie
di curvo e lucid’osso
duo ben formati e pargoletti germi,
che di Cinzia crescente
fanno vergogna a le superbe corna.
Picchiata spoglia d’indica pantera
è la sua vesta, ed un bel zaino fatto
di pelle pur di cavriuol selvaggio
va per traverso a circondargli il fianco.
     Mirala e non respira
tra gioia e meraviglia,
piú d’amor che di vino ebro, Lieo;
e se non fusse il pampinoso impaccio
de’ racemi intrecciati e de le foglie
che gl’implican la fronte,

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giá baciata l’avrebbe.
Pur, talora appressando
a quei soavi aneliti la bocca,
la bacia e non la tocca;
e ’n voce piana e con parlar sommesso
mormora questi accenti infra se stesso:
               Silenzio, o fauni,
               tacete, o ninfe;
               non percotete
               il suol col piede,
               il ciel col grido;
               né piú col suono
               de’ cavi bronzi
               interrompete
               l’alta quiete
               di questa dea.
               Férmati, o mare,
               cessate, o venti;
               non sia chi svegli
               Venere bella,
               che qui riposa.
               Venere è certo
               costei ch’io veggio
               dormir sul lido.
               Ma dov’è il cesto
               di cui si cinge?
               No, no, piú tosto
               fia Pasitea,
               ch’oggi si sposa,
               credo, col Sonno.
               Ma chi mai vide
               Grazia vestita,
               se sempre tutte
               van senza spoglie?
               La Luna è forse,
               che, come amica

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               de’ salsi umori,
               lungo il mar giace?
               Ma come in pace
               senza l’amato
               pastore a lato
               dorme soletta?
               È forse Teti
               dai piè d’argento,
               ch’uscita è fuori
               de’ suoi cristalli?
               Ma quando mai,
               lasciate l’onde,
               viene a le sponde,
               se non ignuda?
               Forse è Diana,
               che da la caccia
               tornata stanca,
               poiché i sudori
               terse ne l’acque,
               quivi si giacque?
               però che in vero
               suol la fatica
               partorir sempre
               sonno soave.
               Ma non ha l’arco,
               né la faretra,
               e non ha punto
               d’asprezza in volto.
               Chi sa se fusse
               Minerva casta?
               Ma chi l’ha tolto
               lo scudo e l’asta?
               Fauni, aspettate;
               ninfe, tacete!
               deh! non rompete
               quel sonnarello,

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               che mollicello
               lega colei,
               che m’ha legato!
               Ben io vorrei
               veder aperte
               quelle finestre
               di paradiso;
               ma non ardisco
               di far offesa
               ai duo bei Soli,
               ch’ascosi dentro
               le proprie sfere,
               posano alquanto
               dai faticosi
               giri amorosi.
               Sonno, deh! come
               tu, che sei figlio
               de l’ombra oscura,
               abiti albergo
               di tanta luce?
               Ahi, che quel sonno,
               che la nutrisce,
               è forse quello,
               ch’ella rapisce
               agli occhi altrui!
               Dormi pur, dormi,
               qualunque sei,
               ch’anzi vogl’io
               far che ti prenda
               piú dolce oblio
               al mormorio
               de’ pianti miei.
               Tacete, o ninfe;
               silenzio, o fauni!
Cosí Bromio dicea, rapito e fiso
ne la beltá de la donzella estrana;

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ma, quando in atto poscia egli la vide
giá di destarsi e d’aprir gli occhi al giorno,
per aspettar di tal ventura il fine
si ritrasse in disparte. Ed ella, sciolta
da’ legami di Lete, ecco si volge,
e per Teseo abbracciar la man distende
una e due volte, ed una e due la tragge
senza nulla toccar che ’l letto vòto.
Tosto allor la paura il sonno scaccia;
lascia le piume vedove né trova
il fallace consorte, e ’l porto scorge
solitario di navi e, muti intorno,
de l’erma spiaggia i desolati orrori;
se non quanto sol ode appo la riva
gemer le folichette e gli alcioni.
Battesi il petto e Teseo indarno chiama,
né v’ha chi le risponda altro che gli antri.
Contro il sonno s’adira e di se stessa
duolsi piangendo e sua pigrizia accusa;
s’aggira e, come stolta, ove la porta
l’amoroso furor, corre per tutto;
e quinci e quindi pur cerca e ricerca
il predator de’ suoi scherniti amori.
Non piú composto o ritenuto a freno
da l’aurea rete è l’aureo crin, ma sciolto
piove in piú sferze, né dal crespo velo
ombrato e chiuso il bianco sen s’asconde,
né piú si stanno entro l’avara vesta
imprigionate l’acerbette mamme.
De la ricca faldiglia al sen le cade
negletto e sciolto il ben fregiato lembo;
né perché il salso umor l’offenda o bagni
altra cura ne tien, se non che sola
sulla parte del drappo, onde si copre
del piede il vivo e candido alabastro,
s’alza talor, perché tra via l’impaccia.

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Ne la piú alta e ruinosa cima
de lo scoglio scosceso, onde gran tratto
può su per l’onde spaziose ed ampie
allungar la veduta, in fretta sale:
e quindi vede, o di veder le sembra
(ch’è l’aria ancor tra luminosa e fosca)
con veloce discorso a vele tese
il legno ingannator volar per l’alto.
— Teseo, Teseo! — iterando, alza lo strido,
e, perché lena d’arrivar tant’oltre
la voce stanca e debile non have,
co’ panni accenna e con la man da lunge.
Ma poco val, ché la fugace prua
con sí rapida fuga i flutti taglia,
che fa dagli occhi suoi sparir l’antenne.
Quindi, occupata dal soverchio affanno,
cade in angoscia e, languida ed essangue,
s’abbandona e tramòre. Alfin si leva,
e, di nuovo impaziente, a la marina
scende anelando, al padiglion ritorna,
e de l’ingiusto talamo si lagna,
che, de l’ospizio suo rotta la fede,
quel che dianzi ebbe intero, or rende scemo.
Indi dolente e disdegnosa in guisa
che fa dolce il dolor, bello lo sdegno,
fin dal fondo del cor traendo a forza,
da largo pianto accompagnati, e tronchi
da ferventi sospir, spessi singulti,
consuma i gridi inutilmente, e perde,
parlando al sordo mar, questi lamenti:
               Misera! e chi m’ha tolto
               il mio dolce compagno?
               Lassa! perché quel bene,
               ch’Espero mi concesse,
               Lucifero mi fura?
               Perché, quanto cortese

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               mi fu la sera oscura,
               tanto l’aurora chiara
               mi si dimostra avara?
               Dite, ditemi, o scogli,
               duri scogli, aspri sassi,
               chi è, chi m’ha rapito
               colui, che mi rapio
               da la paterna reggia?
               Se fu Borea superbo,
               supplico Orizia bella
               che ’l faccia un’altra volta
               risospingere al lido.
               Se Zefiro spietato,
               prego Clori pietosa,
               ch’ogni piacer gli neghi,
               tanto che a me nol renda.
               Se fu fors’Euro audace
               o pur Noto rapace,
               con Eolo mi querelo
               e le lor fraudi accuso.
               Ma se sol per fuggirmi,
               fellone e traditore,
               il crudo Teseo mio
               sen va da me lontano,
               abbia al suo corso iniquo
               l’onde contrarie e i venti,
               le stelle e gli elementi.
               Dunque, perfido, dunque,
               a questa guisa lasci
               colei che per te solo
               lasciò la patria e ’l padre?
               Io ti campai la vita,
               tu m’esponi a la morte;
               io ti donai lo stame,
               per cui libero uscisti
               dagl’intricati giri

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               del carcere confuso;
               tu tra questi deserti,
               onde uscir mai non spero,
               inculti, abbandonati,
               disleal, m’abbandoni.
               Io ti sottrassi al rischio
               del gran mostro biforme,
               ed a la tua posposi
               la fraterna salute;
               tu, sí malvagiamente
               ingrato e sconoscente,
               preda mi lasci ed ésca
               de le selvagge fère.
               Ecco le ricompense
               de l’amor che t’ho mostro;
               ecco i premi ch’acquisto
               di quanto ho per te fatto,
               o del mar, che ti porta,
               piú instabile e crudele!
               Vele fugaci, o vele,
               che, da liev’aura gonfie,
               su per l’acque volate,
               se la vostra bianchezza
               rappresenta il candore
               de la mia fede pura,
               la vostra leggerezza
               si rassomiglia al core,
               dolevole, incostante,
               del mio fallace amante!
               Oh inganno malvagio,
               oh tradigion perversa!
               Son questi gl’imenei,
               queste son le promesse?
               i giuramenti questi,
               quando la fé mi desti
               con maritaggio altèro

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               voler farmi beata?
               Oh sciocca e forsennata
               femina, che si piega
               ad amator che prega!
               Ah! non sia sí leggera
               vergine mai, che creda
               a lusinghe ed a vezzi
               di giovane importuno:
               che, mentre il desir ferve,
               tutto promette e giura;
               ma, tosto ch’adempito
               ha l’ingordo appetito,
               passa l’amor, né cura
               sacramento né patto;
               si sazia immantinente,
               ama cangiar sovente,
               ed, a pena veduta,
               nova beltá desia
               e ’l primo foco oblia.
               Oimè! come non temi
               al tuo grave peccato
               dal ciel giusta vendetta,
               spergiuro scelerato?
               Ma che? sempre l’ingrato
               suol essere infedele!
               Felice, oh me felice,
               se mai l’attiche navi
               l’ancore nel mar nostro
               non avesser gittate,
               né questo maledetto
               peregrino straniero
               ad approdare in Creta
               fusse giá mai venuto;
               o fusse al Ciel piaciuto
               ch’ucciso pur l’avesse
               nel cieco labirinto

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               il Semitauro fiero.
               Lingua mia folle, ah, taci,
               ché di colui ch’adoro
               lo scherno ancor m’è dolce,
               l’inganno ancor m’è caro!
               Teseo mio, ti perdono;
               torna, deh! torna indietro;
               menami teco, e poi
               ti servirò d’ancella,
               se non vorrai di sposa.
               Ti tesserò le tele
               per la novella moglie;
               t’acconcerò le piume,
               dove con lei ti corchi;
               darò l’acqua a le mani,
               se non con altro vaso,
               con l’urne di quest’occhi:
               pur ch’io goda de’ tuoi
               il desiato raggio,
               in ufficio sí vile
               mi terrò fortunata.
               Tu, che del mar sei nata,
               madre d’Amor benigna,
               bellissima Ciprigna,
               perché nel mar permetti
               un tanto tradimento,
               né fai ch’arresti il vento
               la fuggitiva armata?
               Che farò, sventurata?
               Ho perduto in un punto
               Creta insieme ed Atene,
               e genitore e sposo.
               Lassa! dove rimango?
               Misera! dove andronne?
               Drizzerò forse i passi
               al patrio monte Ideo,

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               da cui golfo sí largo
               m’allontana e divide?
               rivolgerò le piante,
               facendo pur ritorno
               al mio tradito padre,
               dal cui grembo mi tolsi
               per seguir follemente
               l’empio mio fratricida?
               o consolar mi deggio
               sovra il fido e leale
               amor del buon consorte,
               lo qual da me per l’onde
               sí rapido sen fugge,
               che l’arrancata voga
               de’ ben spediti remi
               è lenta a tanta fretta?
               Ma, quando ancor volessi,
               oimè! quinci partire,
               qual legno attendo in questa
               solitudine orrenda,
               da cui sbandito veggio
               ogni commercio umano?
               in cui Fortuna scarsa
               ne la miseria estrema
               non mi concede pure
               o d’orecchia pietosa
               udito che m’ascolti,
               o di bocca cortese
               voce che mi risponda?
               Conviemmi dunque a forza,
               esposta a la mercede
               o di balene e d’orche,
               over d’orsi e di lupi,
               tra l’inospite rupi
               di questa infame riva
               (s’alcun ventre ferino

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               non mi dá pur sepolcro)
               insepolta morire;
               o, per maggior martíre,
               di barbari corsari
               divenir preda indegna,
               che in trionfo servile
               traggano incatenata
               la figlia sfortunata
               del nobil re Ditteo,
               la nepote del Sole,
               la progenie di Giove,
               colei ch’esser devea
               d’Atene alta reina.
               Deh! pria, prego m’uccida
               questo dolor mortale,
               mortale ed omicida;
               solo però ch’è tale,
               ch’uccidermi non vale!
               Crudel, quando uccidesti
               del flessuoso albergo
               il feroce custode,
               perché non mi togliesti
               la vita a un tempo istesso?
               Ch’oltre ch’io non sarei
               in sí penoso stato,
               fôra ancor la tua fede
               sciolta sí, ma non rotta.
               Perché, perché, partendo,
               almen non mi lasciasti
               quella spada inumana,
               ch’ancor tinta è del sangue
               del mio fratel possente,
               acciò che commun fosse
               con la sorella insieme
               una medesma sorte?
               Ma che? mancheran forse

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               a chi di morir brama
               altre guise di morte?
               Non credo il Ciel sí crudo,
               che, s’al mio Teseo in seno
               poter viver mi toglie,
               senza il mio Teseo almeno
               poter morir mi neghi.
               Chi sará che mi vieti
               che, con mortal ruina
               da questa balza alpina
               traboccando, io non pèra?
               Ma qual altra caduta
               cerco maggior di quella,
               onde, levato a volo
               da l’alta sua speranza,
               precipita il desio?
               Potrò nel mar gittarmi,
               e dentro il salso umore
               estinguere in un punto
               e la vita e l’ardore.
               Ma, s’io verso da’ lumi
               e mari e fonti e fiumi,
               né mi sommergo in essi,
               come morir tra l’acque
               esser può mai ch’io speri?
               Se col focile accendo
               fiamma ingorda e vorace
               per distruggermi in foco,
               questo mi giova poco;
               ché da maggior fornace
               sento ognor consumarmi,
               né può cenere farmi.
               Dunque, con forte laccio
               stringerommi la gola,
               e qui da qualche ramo
               mi rimarrò pendente.

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               No, no, che d’altro nodo
               piú saldo e piú tenace,
               mi tien legato il core,
               né mi dá morte Amore.
               Sorbir tòsco nocente
               per uscir di ogni affanno
               fôra miglior partito;
               se non che ’l petto ho pieno
               d’amoroso veleno,
               e pur di duol non esco!
               Debbo affiggermi forse
               su la sinistra poppa
               due vipere mordaci?
               Ma questo che rileva,
               se tra gli aspi e le serpi
               de l’empia gelosia
               io vivo tuttavia?
               S’io credessi col ferro
               quest’anima infelice
               discacciar dal suo nido,
               con acuto coltello
               vorrei passarmi il fianco.
               Ma questo è van pensiero,
               perché dal cieco arciero
               son con mille saette
               in mezzo al cor ferita,
               né pur lascio la vita.
               Ahi! per me non si trova,
               dunque, a trarmi di pena
               pena bastante? e, mentre
               senza morir mi moro,
               sará per maggior male
               la mia morte immortale?
               Lassa, lassa! che parlo?
               Quando per questa mano
               l’ufficio alfin s’usurpi

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               de la parca proterva,
               se tua son, Teseo mio,
               con qual ragion poss’io,
               togliendo a me la vita,
               a te toglier la serva?
Cosí piangea la giovane dolente,
e ’l gran figlio di Semele e di Giove,
prendea del suo ramarico diletto.
Ed ecco allor de’ satiri la turba
con le stolte bassaridi in un coro,
e ’l buon Silen decrepito e canuto,
tinto di mosto e stupido di sonno,
con basse ciglia e tumide palpèbre,
curvo e gravoso e tremulo e cascante,
alla disdossa l’asino cavalca,
e soffia e russa e vomita sovente,
e ’n ciascun passo tituba e tracolla.
Ma le baccanti il reggono e i silvani,
che ’n strane danze rotano le membra,
ed ululando assordano la selva;
e questi vibra il pampino frondoso,
e quei brandisce l’edera ritorta,
e chi tempra la fistula selvaggia,
e chi gonfia la buccina marina,
ed altri batte il cembalo sonoro,
ed altri suona il crotalo festino;
e tra sí fatti strepiti e tumulti,
con mesto canto Libero onorando,
de l’orge sacre celebran la pompa.
     Evoè,
facciam brinzi al nostro re!
     Beviam tutti: io béo, tu béi,
due e tre volte, e quattro e sei.
Al ristoro de la vita
questo calice n’invita.
Questo è quel che al cor mi va;
dállo qua.

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     Havvi il biondo e ’l purpurino:
vuoi de l’oro o del rubino?
Mio sia ’l primo e tuo ’l secondo,
resti ad ambo asciutto il fondo.
A me l’uno e l’altro a te:
evoè!
     Vedi, vedi come fuma,
come brilla e come spuma!
È soave ed è mordace,
picca e molce e punge e piace.
Gran sollazzo è ber cosí:
prendi qui.
     L’acqua pura, l’onda schietta,
sia bandita ed interdetta.
Chi pon l’acqua nel falerno,
sia sepolto ne l’inferno.
Tocca il timpano, su, su:
tuppitú.
     Dolce è ben, mentr’io lo stillo,
il gustarlo col serpillo;
ma di gioia io vengo meno,
se ’l tracanno a sorso pieno.
Ne la fiasca col cro-cro
fa buon pro.
     Se talor mi lavo il mento,
d’allegria bear mi sento.
Se si versa e cade al petto,
rido e piango di diletto.
Lagrimare e rider fa
sua bontá.
     Un di Creta ed un di Chio
bevi tu, c’ho bevut’io.
Non libar, ma bevil tutto,
finché resti il fondo asciutto.
Io non posso bever piú:
bevi tu!

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     La tua sete è troppo sconcia,
hai giá vòta la bigoncia.
Che furor, che furia pazza!
Ecco rotta ancor la tazza.
Io mi tengo a pena in piè:
evoè!
     Chi mi spigne, chi mi tira?
qual vertigine m’aggira?
O che sogno o che vaneggio,
danzar gli arbori qui veggio.
È pur notte o mezzodí?
no o sí?
     Che traveggole ho davante?
E’ son pecore e non piante...
Par che l’isola si scota:
è la terra che si rota.
È pur giorno, sí o no?
Io non so.
     Ma qual torbida tempesta
crolla intorno la foresta?
Ecco nembi senza fine,
lampi, folgori e pruine.
Non lasciam di bever giá:
che sará?
     Cose nòve, cose belle,
cento soli e cento stelle...
Ah no, no; son parpaglioni,
son zanzare e farfalloni.
Una, due, sett’otto e tre:
evoè!
     Volgesi al tempestar di quelle tresche
l’addolorata e timida fanciulla,
e di spavento e di stupore impetra.
Ma Dioneo, di sua beltate acceso,
poi c’ha di quell’affar compreso il tutto,
fatto pietoso de l’indegno oltraggio,

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ridente in vista e con sembiante allegro
le s’avicina e le s’asside a lato;
poi, pian pian ragionando a l’infelice,
benignamente la conforta e dice:
     A che ti lagni, o bella,
di quel crudel, di quel villan d’Atene?
     Dunque, ancor ti soviene
di Teseo, quando Bacco hai giá marito?
     fia piú da te gradito,
dunque, un mortal, ch’un immortale amante,
     in cui bellezze tante,
in cui regnan virtú tante e sí nòve?
     Tosto dirai ch’a Giove
l’umil tuo genitor non si pareggia,
     e che del ciel la reggia
troppo è miglior de la tua patria, Creta.
     Destin d’alto pianeta
qui non a caso il mio navilio scorse:
     Amore, Amor fu forse
che mosse i remi miei, le vele sciolse,
     perché pietoso vòlse
serbarti ad altre nozze, ad altro letto.
     Qual onor, qual diletto
bramar giá mai tu stessa unqua sapresti?
     Negli alberghi celesti
socero avrai Saturno e me consorte:
     a la tua lieta sorte
invidia porterá piú d’una dea;
     né di Cassiopea,
né d’Andromeda il lume al tuo fia eguale.
     Di tanta luce e tale
circondar ti prometto il tuo crin biondo,
     che stupefatto il mondo
t’ammirerá vie piú d’ogni altra stella.

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     A questo dir la sconsolata tace,
né ricusa né vòle; e, come quella
che de la fé de l’uomo ha fatta prova,
ritrosa ancor, non volentier consente.
Ma, di Bacco fratello, Amor volando
con sua madre v’accorre; e Citerea,
ch’è del vermiglio dio fidata amica
e da lui scompagnata agghiaccia e torpe,
spenta nel cor di lei l’antica fiamma,
in un punto v’imprime il novo foco;
onde, alfin persuasa, ella s’accende
d’altre faville, e, de’ passati ardori
la memoria in oblio tutta sommersa,
del suo proco divin gli alti imenei
senza repulsa ad accettar si piega.
De l’inno marital cantâro i versi
satiri e fauni, e ne le feste illustri
menâr le ninfe saltatrici i balli.
Ma di purpurei fior, d’arabe fronde
agli sposi felici Amor compose
di propria mano le rosate piume.
Vener dal crin, per contentarla a pieno,
preziosa corona allor si tolse:
opra giá di Vulcan, fregiata e ricca
di sette ardenti e fulgidi piropi,
ed, ornandone a lei le bionde trecce,
le ne fe’ largo e generoso dono.
Poi, per compir la gloriosa dote,
vòls’anco il vago immortalarla in cielo;
e, del ciel collocata in que’ confini
lá dove gela il guardian de l’Orse,
cangiò le gemme sue lucenti e belle
in altrettante stelle.