Rivista di Cavalleria - Volume I/II/Nella nebbia

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Nella nebbia

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II II - Sulle evoluzioni della Cavalleria (Concetti e proposte) II
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NELLA NEBBIA




Ho qui dinanzi una vecchia carta che rappresenta abbastanza bene il confluente di due grandi fiumi navigabili, nel quale sta rannicchiata una città fortificata in un modo strano. Il paese d’attorno è in parte un sottomonte a larghe falde con alcuni risalti, il resto pianura; vi sono paludi, boschi, tratti assai grandi di terreno nudo, due gran ponti di barche, uno su ciascuno dei due fiumi, ma lontani alquanto dalla città. Grandi e fitte schiere di fanti e cavalli microscopici nella campagna vanno ad azzuffarsi, cannoni fanno fumo, uomini spicciolati a cavallo o a piedi fuggono, altri giacciono seminati qua e là; navi grosse e piccole si combattono sui due fiumi, e la fortezza vi prende parte. Il titolo dice: «Belgrad.... 1717»1.

Io credo che nessuno dei miei giovani camerati ignori che in quell’anno 1717 e precisamente dinanzi a Belgrado, tra il Danubio e la Sava, il Principe Eugenio di Savoia con un esercito di Carlo VI Imperatore sconfisse un esercito turco tre o quattro volte più numeroso; credo che parecchi sappiano ch’egli stava assediando Belgrado, allora fortezza turca — stimata di tanto valore dagli uni e dagli altri, che a Vienna la si chiamava «Porta dell’Oriente» e a Costantinopoli «Porta dell’Occidente» — e che si trovava quasi assediato alla sua volta dal Granvisir Calil-Pascià nel suo campo molto bene trincerato; ma credo pure che a non pochi possa riuscir nuovo e strano che il valoroso Principe, in quel gloriosissimo giorno, 16 agosto 1717, avesse da fare con un nemico molto più tremendo di tutte quelle migliaia di teste [p. 106 modifica]fasciate: la nebbia! E poco ci mancò che fosse vinto dalla nebbia, ma, d’accordo col sole, la vinse e la sperperò in un momento, alle 8 antimeridiane.

Sì, la battaglia cominciò e continuò per tre o quatt’ore entro un nebbione così fitto che quei che v’erano hanno lasciato scritto: «Non ci si vedeva a dieci passi.» Ma la cosa più singolare fu, che sotto quel velo così denso, dalla parte degli Imperiali, s’arrabattarono non solamente un venticinquemila pedoni, ma anche un diciassette a diciottomila cavalieri, andando e combattendo a passo di testuggine, alla cieca; niente meno che un centosessanta squadroni! Fu veramente uno strano fatto, che guastò un momento i disegni del Principe di Savoia e mise a gran cimento quella bella e valente cavalleria, che vale però la pena di essere ricordato tra le singolarità storiche della nobile milizia a cavallo e tra le prove del valore marziale delle soldatesche regolari, se fortemente disciplinate e bene comandate.


Il Principe Eugenio assediava dunque Belgrado per terra e per acqua e s’era cacciato col grosso della sua Armata tra i due fiumi, a mezzodì della fortezza, vale a dire dalla parte donde doveva venire il grande esercito turco radunato attorno ad Adrianopoli, che aveva le sue prime truppe tra Sofia e Nissa.

Quivi si era accampato sopra un bel terreno alto, quasi piano, con doppia fronte, verso la fortezza e verso la campagna (o la montagna) con la destra alla Sava e la sinistra al Danubio, si era cinto di un forte vallo, alto e grosso, con un buon fosso dinanzi, con piccoli saglienti pel fiancheggiamento, batterie nei siti più adatti e sbocchi ben coperti. Erano in sostanza le due linee di trinceramento dell’antica arte ossidionale, di circonvallazione (esterna, verso la campagna) e di controvallazione (interna, verso la fortezza assediata) unite tra loro alle estremità, ov’erano i due ponti che già dissi, uno sulla Sava ed uno sul Danubio, protetti da opere di testa, pei quali due ponti passavano le due sole retrovie che conducevano da quel campo d’audacia in paese amico, l’una verso Petervaradino (a nord-ovest), l’altra nel Banato della Temes (a nord-est). La linea di circonvallazione aveva due fronti; una verso sud, l’altra verso est, tutte e due con una valletta sul dinanzi, che si univano in un angolo molto spiccato ma largamente arrotondito, sul punto più alto di quel terreno, detto [p. 107 modifica]dagl’Imperiali Regal perchè vi stava accampato il reggimento di fanti che portava quel nome.

In quel campo così bene fortificato il Principe aveva raccolto circa 90.000 uomini, che, per gli effetti dell’assedio, delle fatiche del gran lavoro di fascinaggio e di trinceramento, del cattivo vitto, del cattivo tempo, insomma più delle malattie che del fuoco e del ferro, a metà d’agosto non davano più che 60.000 adoperabili pel combattimento.

Erano divisi in due corpi, quello d’assedio propriamente detto, che ascendeva a un dipresso a un terzo del totale, accampato dietro la linea di controvallazione, e quello di osservazione e di cuoprimento, (gli altri due terzi) attendato dietro la linea di circonvallazione, fronte in fuori. La cavalleria, compresi quei reggimenti che potevano esser fatti venire dai vicini accampamenti d’oltre Sava (Semlino) e d’oltre Danubio (Pancsova) poteva ascendere a 31 reggimenti tra corazzieri e dragoni (18 dei primi e 13 dei secondi) quasi tutti di 7 squadroni, che avrebbero dovuto avere 165 cavalieri ciascuno, ma erano ridotti a non metterne in sella che 100 a 120 per le gravissime perdite sofferte, più assai di cavalli che d’uomini. Avrebbero dunque dovuto essere in tutti 35 a 36.000 cavalieri, ed erano 23 a 24.000. V’erano di più di là dal Danubio 5 reggimenti d’ussari (ungheresi) di 5 squadroni ciascuno, che da circa 4000 cavalieri erano discesi a meno di 3000; ma anche questi potevano giungere a tempo sul campo di battaglia.

Così gran quantità di truppe a cavallo era necessaria a quei tempi per guerreggiare coi Turchi, che avevano cavalleria numerosa e famosa per rapidità ed impeto, e specialmente volendo far guerra offensiva, come allora era il caso.

Dirò, per chi non lo sapesse, che uno dei sette squadroni era scelto (novità recente allora) e portava nome di granatieri a cavallo nei reggimenti di corazzieri, e di carabinieri in quelli dei dragoni; che il corazziere portava elmo e petto di ferro e grandi stivali, il dragone il tricorno di feltro e stivali corti, ed ambidue erano armati di forte spada dritta a doppio taglio, due pistole all’arcione, carabina il corazziere, fucile con baionetta il dragone, mentre l’ussaro aveva la sciabola curva e le pistole, ma non arme lunga da fuoco, se non che in qualche reggimento. I dragoni sapevano anche combattere a piedi, ma già preferivano [p. 108 modifica]di essere adoperati come cavalleria. Aggiungerò che in quel momento, dinanzi a Belgrado, a mezzo agosto del 1717, tutti i reggimenti avevano i cavalli in cattivissimo stato.


Al principio d’agosto cominciò ad arrivare l'esercito turco. Grandi sciami, sempre più numerosi, di destri cavalieri su agili cavalli vennero a stormeggiare attorno al campo imperiale e ne fecero la più esatta ricognizione. Il Granvisir mise il suo maggiore accampamento sulle alture a sud di quello, e dopo un certo tempo d’incertezza tra il tentarne l’assalto o no, considerato il formidabile assetto difensivo del nemico, e udito il parere degli altri capi, decise d’intraprenderne la espugnazione coi modi dell'assedio regolare, come se fosse una fortezza, secondo la usanza turca di quel tempo, come aveva fatto l’anno innanzi il suo predecessore Damad-Alì a Petervaradino. Fece aprire trincee di contro alla parte orientale della fronte meridionale della circonvallazione, piantar batterie in faccia al Regal e di seguito verso ovest ed armarle a poco a poco di più di 130 tra cannoni e mortai di vario calibro, anche grossissimo. Il fuoco cominciò il 3 agosto e durò continuo e crescente nei giorni seguenti, con poco effetto sul trinceramento imperiale, ma grandissimo nell'interno del campo. I 60 pezzi con cui gl’Imperiali rispondevano a quella tempesta fecero bravamente la parte loro, ma non poterono impedire ai giannizzeri un rapido lavorìo d’approccio, col quale, tagliuzzando il terreno, come talpe, vi fecero un vero labirinto di fosse, alte un uomo, ch’erano le loro trincee, e si avvicinarono là dove mirava l’attacco, cosicchè presto vennero allo scambio delle fucilate coi difensori del vallo. Collegavano quei loro approcci con altre fosse trasversali, a guisa di parallele, e piantavano altre batterie più avanzate. Il 15 agosto erano in taluni punti a brevissima distanza dall’orlo del fosso del trinceramento. Tra due giorni l’assalto, e forse nella notte dal 16 al 17.

Ma il Principe Eugenio non voleva aspettarlo. Come l’anno prima a Petervaradino, e come sempre, quando gli era stato possibile, egli, fidente nella potenza della offensiva, nello sperimentato valore delle sue truppe (specialmente della cavalleria), in se stesso e nella fortuna, arditissimo nello eseguire quanto prudentissimo nel preparare, voleva anche questa volta assalire egli stesso. Insisto qui: egli si arrischiava ad assalire forse 150.000 [p. 109 modifica]turchi (cosi fu detto), non tutti eroi, no, ma pure in gran parte prodi, fanaticamente battaglieri, se pure non tenacissimi, coi suoi 40.000, e forse anche meno, perchè sapeva di avere ottime truppe, benissimo comandate, pienissime di fiducia in se stesse, nei loro condottieri, e sopra tutto in lui, e se le sentiva bene in pugno, e quei nemici egli con quelle sue truppe li aveva sempre vinti. Erano in sostanza per grandissima parte gli stessi che egli aveva sconfitti e fugati a Petervaradino il 5 agosto 1716.

La cosa fu condotta colla massima segretezza perchè il nemico vicino non ne avesse il minimo sentore. Le truppe erano tenute sempre pronte a muovere; gli ordini furono dati soltanto nell'ultimo momento, nella notte del 15 al 16. Il Principe fece venire dal corpo d’assedio a rafforzare quello che doveva dar battaglia tutte le truppe che non erano assolutamente indispensabili per opporsi ad una quasi certa sortita del grosso presidio di Belgrado (che non avvenne). I traini erano stati già mandati oltre il Danubio. Fu provveduto per la sicurezza dei due ponti.


Nel concetto del Principe l’attacco doveva da principio essere frontale, parallelamente al lato meridionale della circonvallazione. Perciò le truppe dell’ala sinistra, collocate dietro il lato orientale della circonvallazione, dopo che fossero uscite dal trinceramento, dovevano volgersi a destra e venire a mettersi in linea con quelle dell’ala destra, che si sarebbero spiegate dinanzi al fosso di quella parte del trinceramento dietro cui stavano accampate. Perciò quelle prime dovevano uscire all’aperto assai prima delle altre. Il movimento doveva cominciare dalla cavalleria delle due ali, che aveva più terreno libero davanti mentre la fanteria al centro, e specialmente quella dell’ala destra, avrebbe trovato quasi subito dinanzi a se gli approcci del nemico.2 [p. 110 modifica]

Lo schieramento doveva farsi alla sordina tra mezzanotte e l’alba (a un dipresso le 4): la fanteria al centro (corpo di battaglia), la cavalleria alle due ali, divisa per metà; tutti in due schiere (o linee). Una terza schiera, tutta composta di fanteria, doveva fare officio di riserva, tanto per l’azione contro l’esercito nemico, quanto per quella contro un eventuale sortita dalla fortezza, se bisogno, e per la protezione del ponti, segnatamente di quello sulla Sava, ch’era più minacciato. La prima schiera si sarebbe formata, come ho detto, dinanzi al trinceramento; la seconda dietro, la fanteria sul vallo, per poter sostenere col suo fuoco, in caso di bisogno, quella della prima schiera. Si intende che la seconda schiera della cavalleria dell’ala sinistra doveva senza indugio uscire dietro alla prima e seguirla.

Il Principe si riserbava di dare il cenno dello attacco col lancio di tre bombe. Allora la fanteria avrebbe assaltato da fronte gli approcci nemici, procedendo diritta verso le batterie; la cavalleria invece, girando in fuori, avrebbe procurato di piombare sui fianchi al nemico, negli approcci, nelle batterie, dovunque fosse, fronteggiando in pari tempo i contrattacchi della cavalleria nemica. L'ala sinistra singolarmente avrebbe dovuto avvantaggiarsi nello avvolgimento, prendendo di mira la grande batteria di destra dei Turchi e minacciando la loro unica buona via di ritirata verso Semendria, che va lungo il Danubio.

Avrebbe dovuto insomma risultarne un attacco a tenaglia, avviluppante, specialmente da manca, sul terreno, relativamente ristretto, dell’attacco turco (approcci, parallele, batterie). Il maggior da fare doveva essere per l'ala sinistra, e insieme con esso anche il maggior pericolo — convien dirlo — a motivo della grande superiorità numerica del nemico, che avrebbe potuto venirle con molte forze sul fianco e alle spalle.

Ella infatti avrebbe sino dal momento della sua uscita dal campo, e sempre più a misura che si fosse avanzata, offerto il suo fianco sinistro affatto scoperto agli attacchi che potessero venire da est. Veramente il Principe Eugenio aveva una grande fede nella sua cavalleria! Il fatto provò che non aveva torto, ma ciò non toglie che il critico militare possa trovarvi argomento ad una riverente accusa di soverchia audacia. La fortuna qualche volta la perdona, e persino sempre ai suoi favoriti; noi [p. 111 modifica]diremo che il vero genio sa indovinare in quali casi quel perdono sia sicuro.

L’ala destra invece aveva, almeno da principio, il suo fianco esterno (destro) assicurato dalla Sava vicina.


Erano 12 reggimenti (80 squadroni) per ciascuna ala, 6 in prima e 6 in seconda schiera.

Ala destra.

1a schiera: Generale di cavalleria barone von Ebergényi, 3 reggimenti corazzieri e 3 dragoni (42 squadroni).

2a schiera: Generale di cavalleria conte De Mercy, 4 reggimenti corazzieri e 2 dragoni (38 squadroni).

Ala sinistra.

1a schiera: Generale di cavalleria conte Montecuccoli (figlio del celebre Feld-maresciallo Raimondo Montecuccoli), 3 reggimenti corazzieri e 3 dragoni (38 squadroni).

2a schiera: Generale di cavalleria conte Nàdasdy, 5 reggimenti corazzieri ed 1 dragoni (42 squadroni).

Il comandante generale della cavalleria, Feld-maresciallo conte Giovanni Pàlffy, era il primo nell'armata d'Ungheria, dopo il Principe di Savoia, che aveva per lui grandissima stima ed amicizia. Parrebbe che il posto di questo abile, ardito e prode generale dovesse essere in quella occasione all’ala sinistra.... e invece lo vediamo andare alla destra; non sappiamo perchè. Così all’ala sinistra venne a mancare quella forte unità di direzione e d’impulso di cui avrebbe avuto tanto bisogno.

Verso la mezzanotte le truppe presero le armi e si formarono nei loro luoghi di adunata nello interno del campo, senza il minimo rumore, rischiarate da un bel lume di luna. Il Principe Eugenio cavalcava dinanzi alla loro fronte, con un gran seguito di personaggi principeschi (quarantadue!) e gentiluomini d’ogni parte d’Europa, e incoraggiava i soldati con acconcie parole.

Circa le 1, cominciò ad uscire dal trinceramento, in gran silenzio, la cavalleria delle due ali. Non poco tempo ci dovette volere, perchè pare che vi fosse un solo sbocco per ciascuna ala.


Andiamo all’ala destra. [p. 112 modifica]

La prima schiera usci, si schierò — non sappiamo come — e pare che i Turchi non se ne accorgessero3.

Ma neppure quella cavalleria si accorse che nella notte stessa i giannizzeri avevano prolungato le loro trincee a sinistra verso la Sava, sulla pendice della valletta davanti al trinceramento, a poca distanza dal luogo ov’ella si era schierata. Come ciò potesse avvenire non è facile comprendere dalla sola carta. Forse l'ala destra del trinceramento era alquanto distante dal ciglio della pendice, o il lavoro nuovo dei Turchi era nascosto da qualche lieve risalto del suolo.

Prima dello albeggiare, mentre la fanteria della prima schiera del Corpo di battaglia cominciava a schierarsi fuori del vallo, di contro agli approcci nemici, si levò su dalle bassure una nebbia, insolita in quella stagione, che in brevissimo tempo cuoprì tutto e divenne così fitta come ho detto in principio. Può darsi che il Prìncipe s’aspettasse qualche po' di vela di vapore mattutino che lo aiutasse a celare al nemico i suoi apparecchi di battaglia; ma così la grazia era davvero troppa.

Quando circa le 4 il Pàlffy ordinò che la prima schiera dei suoi cavalli si avanzasse di un breve tratto per dar posto alla seconda che potesse schierarlesi dietro, fu un andare alla cieca, a piccoli e lenti passi, sviando sin d’allora un poco verso destra senza avvedersene. I dragoni dovevano essere al loro solito posto di battaglia all’estrema ala esterna (in questo caso a destra). V’erano esploratori o avvisatori dinanzi alla fronte?... A un tratto si ode vicinissimo, dinanzi ai corazzieri, il terribile grido di guerra dei Maomettani.... «Allah!... Allah!...», scoppiano fucilate contro i cavalieri imperiali a pochi passi di distanza, cadono uomini e cavalli; succede un po’ di scompiglio. Ma sono uomini di ferro quei generali, quegli ufficiali, quei soldati; non voltano le groppe, non indietreggiano, vanno avanti, facendo fuoco, colle pistole, colle carabine, su quelle ombre che veggono sorgere, fuggire, sparire tra la nebbia. Intoppano in fosse, in mucchi di terra. [p. 113 modifica]Sono i nuovi approcci dei Turchi, non visti prima. «Avanti! avanti!» Chi s’incontra cada sotto i colpi di punta e di taglio dei pesanti palosci 4. Corazzieri e dragoni, a frotte, a stormi, a passo a passo, saltano i piccoli fossi, scansano i maggiori, li aggirano. I comandi, l’istinto, la china della pendice li portano sempre più a destra, dalla parte della Sava, perchè si va a tastoni e da quella banda si può più facilmente scansare o superare tutti quegli ostacoli. Ma i minuti passano, passano i quarti d’ora: è dato l’allarme tra i Turchi; non si vede, ma si ode un gran formicolio di gente nella penombra scura, poi se ne vede qualcosa, e intanto le fucilate spesseggiano dinanzi e da manca.... da manca il fuoco cresce, si fa vivissimo; si capisce che anche l’ala destra della fanteria della prima schiera del Corpo di battaglia dev’essersi avanzata a prender parte al combattimento.... ma dov’è?... che cosa fa?.... si avanza?.... sta ferma?.... cede?.... Ogni reggimento, ogni squadrone, ogni stormo, e quasi ogni uomo combatte per conto suo. E cadono cavalli e uomini a diecine5.

Ecco dinnanzi e da ritta altre grida, una moltitudine invisibile di diavoli scatenati; sono cavalieri, spai, Tartari: Eccoli. Dragoni e corazzieri fanno argine a quella piena, la trattengono, la respingono, la calpestano. E giù e giù sempre a destra, verso la Sava. Vi sono tra i caduti il tenente-maresciallo (tenente generale) conte von Hauben e un figlio del Feld-Maresciallo Pàlffy, tenente-colonnello di un reggimento di corazzieri. Il padre è là nella mischia, e anch’egli sarà presto ferito.

Ma giunge da ritta un poderoso soccorso agl’Imperiali; altri corazzieri e dragoni. È il conte di Mercy colla seconda schiera dell’ala destra, che uscito dal trinceramento, ha piegato a destra per iscansare il terreno su cui combatte, e potrebbe essere costretta a indietreggiare, la prima schiera, che egli ode ma non vede; per non correre pericolo di essere travolto da quella in una sua ceduta, per venire sul fianco, se possibile, al nemico. Lo ha tanto raccomandato a tutti il Principe Eugenio, ammaestrato dall’esperienza! Per venire in aiuto ad altri, non mettersi [p. 114 modifica]mai dietro a lui, ma venirgli da fianco. Infatti quello arrivo di 38 squadroni sulla destra di quei che combattono, a dispetto della nebbia, è lo arrivo della vittoria in quella parte del campo di battaglia. Tartari, spai, giannizzeri vanno a rifascio, nel nebbione, cacciati da quella nuova onda di cavalli. E la cavalleria imperiale, spazzatosi il campo dinanzi, fa, come può, guidata dal Pàlffy, dal Mercy ecc., un cambiamento di fronte a sinistra e viene a trovarsi sul fianco sinistro del nemico, come voleva il Principe Eugenio. Ella ha dunque fatto la parte sua, nonostante la nebbia. Ora non le rimane più da fare altro che seguitare ad avanzarsi nella nuova direzione, pur badando sempre alla sua destra, che può essere minacciata da nuovi attacchi di cavalleria: approfitterà del disordine immenso in cui sono i nemici, si metterà d’accordo colla fanteria del corpo di battaglia, che anch’essa si avanza combattendo, farà strage e sbaraglio, prenderà ad una ad una le batterie dell’ala sinistra nemica. Sono circa le 8 e la nebbia si dirada rapida, già si veggono le alture che segnano la via da seguire, la meta della vittoria decisiva.

Qui però bisogna dire che la nebbia fu molto più giovevole che dannosa a quella brava cavalleria, che col suo aiuto potè sorprendere i nemici, spaventarli, disorientarli e metterli in una confusione, di cui ella dal canto suo per virtù della sua buona e forte disciplina e dei suoi eccellenti condottieri non aveva da temere. Si può dire che quel velo accrebbe la sua potenza col prestigio dell’ignoto e le diede un aspetto più minaccioso. Le gravissime perdite ch’ella soffriva non bastarono ad arrestarla, non le vedeva il nemico e neppure essa le vedeva. I Turchi che le vennero a fronte poterono credere di aver sulle braccia tutto l’esercito di Eugenio.


Vediamo ora che cosa facesse in quel mentre l’altra ala della cavalleria imperiale.

Dalle descrizioni che si hanno della battaglia parrebbe che gli squadroni del Montecuccoli perdessero qualche tempo nello uscire dal campo a cagione del non essere stati riconosciuti prima gli sbocchi.

Comunque sia, la battaglia era già cominciata da almeno un’ora all’ala destra allorchè, tra le 5 e le 6, la prima schiera dell’ala sinistra, andando a passi contati, brancolando tra la [p. 115 modifica]nebbia, senza poter trovare la sinistra del corpo di battaglia — sviato verso destra — e senza vedere altro che la fastidiosa nube d’attorno a sè, fu assalita da fronte, da manca e poi anche da tergo da masse di nemici a cavallo e a piedi, e si trovò avvolta da una procella di urli, di fuoco, di spai, di giannizzeri.

Sembra che lo stesso avvenisse poco dopo anche alla seconda schiera, che forse non aveva ancora compiuto il suo schieramento.

Troppo poco sappiamo di ciò che avvenne da quella parte. Sappiamo bensì che almeno una buona parte dei reggimenti del Montecuccoll e del Nàdasdy cedettero e si disordinarono; che travolsero dieci compagnie di granatieri mandato a sostenerli dalla seconda schiera della fanteria; che altro aiuto efficace non poterono avere, sempre a motivo della nebbia; che reggimenti o squadroni, ridotti ad agire per proprio conto, retrocedettero per la via già percorsa, verso il trinceramento, verso il Danubio, ed altri invece a destra indietro, verso e dietro l’ala sinistra della prima schiera della fanteria; che insomma i Turchi ebbero vantaggio da quel lato e capitarono sul fianco alla fanteria, dalla quale però furono trattenuti e respinti.

Dovette essere una gran confusione d’ambo le parti sin verso le 8. Ci si dice che uno stuolo di spai comparisse vicino al Danubio, molto dietro all’estrema sinistra dell’ordine di battaglia degli Imperiali e minacciasse il ponte, e che fosse ricacciato da un reggimento di corazzieri della seconda schiera. Non si potrebbe capire come mai i Turchi non approfittassero di quel momento tanto favorevole a loro se non si tenesse gran conto dell’effetto della nebbia — anche qui — e della mancanza di direzione.


Erano le 8. Il Principe Eugenio usciva con tutto il suo seguito dal vallo e si fermava dinanzi al Regal, sul dorso displuviale che ascendeva a poco a poco alla altura ov’era la grande batteria di destra del Turchi, obbiettivo primo della battaglia nel disegno di lui. Nulla, o quasi nulla sapeva egli ancora dello andamento della pugna, nata e cresciuta senza ch’egli ne avesse dato il cenno, assai prima ch’egli lo volesse. Doveva bensì aver sentore del non felice procedere dello attacco principale all’ala sinistra, di cui voleva ora appunto prendere cognizione. Quella maledetta nebbia!... Ma egli era l’uomo che non si lascia sgomentare dalle [p. 116 modifica]contrarietà della sorte. Tranquillo non poteva essere in quel momento, ma era impavido.

Ed ecco la nebbia svanisce, la grande scena della battaglia appare, le due vallette, a destra verso la Sava, a sinistra verso il Danubio, le lunghe schiere delle due parti, scompigliate e spezzate, le alture in faccia e le batterie turche, che cominciano a tuonare, più indietro il grande accampamento nemico, e più indietro i monti; sù in alto il sole.

Eugenio vede un vuoto assai grande tra le due ali della sua fanteria, nel mezzo del suo corpo di battaglia, nel quale sta per far punta a massa il nemico; vede quasi tutta la sua armata sviata a valle verso destra; nulla di sue truppe dinanzi a sè e verso sinistra, nella direzione del punto, secondo lui, decisivo, dov’egli intendeva avere avviato 80 squadroni e la metà della sua prima schiera di fanteria, niente altro che Turchi da quella parte.

Ma vede che la sua ala destra va innanzi innanzi, che la cavalleria del Pàlffy è già sul fianco del nemico. Il suo disegno era stato «di cominciare e vincere la battaglia per la sinistra, conquistando l’altura (di Bajdina), ma invece la destra s’è avvantaggiata, et c’est par elle qu’on a pris l’ennemi en flanc». Lo effetto della nebbia!

Manda alquanti battaglioni della seconda schiera di fanteria a chiudere il vuoto nel centro; con altri, accompagnati da artiglieria, forma un nuovo corpo d’ala sinistra indirizzato alla gran batteria turca, ove la battaglia dev’essere decisa. A questi si uniscono parecchi squadroni della cavalleria del Montecuccoli, che si sono riordinati e orientati; altri caricano gli spai e i giannizzeri minaccianti da fianco. E tutto riesce secondo i desideri di Eugenio.

All’assalto della gran batteria, ossia dell’altura di Bajdina, ove i Turchi si sono raccolti a folla, concorrono fanti, cavalli e cannoni. Pochi battaglioni bavaresi, al soldo dell’Imperatore, condotti dal tenente-maresciallo conte Maffei — un italiano al servizio dell’Elettore Massimiliano Emanuele di Baviera — s’inerpicano primi su per l’altura, si lanciano dentro al trinceramento turco, a petto a petto coi nemici; altri battaglioni sopraggiungono; la batteria è presa, e così pure tutte le altre dal corpo di battaglia e dalla cavalleria dell’ala destra. [p. 117 modifica]

I Turchi sbaragliati fuggono, abbandonando al vincitore il loro campo.... Ma il Principe Eugenio, cui per ottimi motivi non sorrideva l’idea della occupazione a furia a furia d’un accampamento nemico sul finire di una battaglia, disse: «Alto! riordinare subito le truppe; al campo turco penseremo poi.» E forse in cuor suo aggiunse: Ne ho abbastanza della nebbia! — Dovevano pensare lo stesso i valorosi superstiti della cavalleria.

C. Corsi.

Note

  1. Una carta qualunque che contenga la regione danubiana-ungaro-slava può bastare per farsi un’idea abbastanza chiara e precisa di ciò che è detto in questo scritto.
  2. Bisogna poi sapere che il Principe non aveva più nella sua fanteria quella gran fiducia che conservava per la cavalleria, perchè l'anno innanzi, a Petervaradino aveva avuto motivo di essere altrettanto scontento del contegno della prima quanto contento di quello della seconda, contro quegli stessi Turchi. Ora, qui, a Belgrado, la fanteria seppe riacquistare la piena stima d’Eugenio e dette il tracollo alla bilancia della vittoria.
  3. L’ordine di battaglia normale era in tre righe con intervalli di 10 passi tra gli squadroni. Così ordinati, 42 squadroni avrebbero dato una fronte di un buon chilometro e mezzo almeno. La fronte meridionale del trinceramento aveva, per quanto sappiamo, una lunghezza di circa cinque chilometri e un quarto o poco più.
  4. Pallasch, le spade della cavalleria.
  5. Di quella prima schiera di cavalleria dell’ala destra sarebbero stati morti o feriti in quella prima fase della battaglia circa 800 uomini e 1200 cavalli.