Scritti sulla storia della astronomia antica - Volume II/III. - Appendice - Rassegne bibliografiche, traduzioni/XX. - Studi Greco-Indiani

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XX. - Studi Greco-Indiani

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XX.

STUDI GRECO-INDIANI

del

PROF. M. CANTOR DI HEIDELBERG

Tradotti in italiano sul manoscritto originale da G. Schiaparelli




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Dai Rendiconti del Reale Istituto Lombardo. Serie II, Vol. IX. Milano, 1876. Nella adunanza del 9 novembre 1876 l’Istituto Lombardo decise di pregare il socio corrispondente M. Cantor perchè procurasse una traduzione dei Grako-indische Studien che aveva mandato per l’inserzione nei Rendiconti. Lo Schiaparelli la fece egli stesso e la presentò all’Istituto nella adunanza del 28 dicembre 1876. Tale traduzione è compresa nella presente raccolta, sia perchè la si deve allo Schiaparelli, sia perchè è da ritenere che esprima anche il pensiero di lui sull’argomento.

Nell’originale tedesco lo studio del Cantor fu stampato nella Historisch-literarische Abtheilung der Zeitschrift fur Mathematik und Physik. XXII Jahrgag. Leipzig. 1877.

L. G.

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Diverso è il grado di cognizione che abbiamo della lingua della letteratura greca ed indiana. Da più di quattro secoli lo studio del greco ha preso radice nelle scuole d’Europa, cosi che pochi fra i cultori delle scienze ne sono intieramente digiuni; invece da poco più d’un secolo il sanscrito ha chiamato a se l’attenzione di un limitato numero di dotti specialisti. La letteratura dei Greci ci fu tramandata in opere di provata antichità, delle quali per lo più è possibile fissare la data entro pochi decenni; quella degli Indiani, come oggi la conosciamo, ci presenta una massa di scritti, o di epoca comparativamente moderna, o di tempo incerto nei limiti di più secoli. In mezzo a queste difficoltà, che solo accenniamo leggermente, il paragone della letteratura greca coll’indiana è qualche cosa di mal sicuro, e tuttavia è troppo importante perchè sia permesso di trascurarlo affatto.

La possibilità di un influsso reciproco delle antiche culture greca ed indiana si deve oggi ritener come dimostrata. Già nel secolo XVII prima di Cristo troviamo in un testo egiziano chiamata Kafu la scimmia in corrispondenza coll’indiano Kapi1. Il nome tuki, impiegato dagli Ebrei del tempo di Salomone per designare il pappagallo, appartiene alla lingua tamulica2. Questi sono indizi di antichissime relazioni fra l’India e l’Egitto, fra l’India e le Fenicia. Le spedizioni d’Alessandro, [p. 350 modifica]nel IV secolo prima di Cristo, condussero i Greci a contatto diretto cogli Indiani. Da quel tempo non solo l’India si trovò connessa coi domini greci dell’Asia, ma cominciarono e durarono per secoli le sue relazioni coi Greci d’Alessandria e più tardi con Roma3. Apollonio di Tiana, intorno al 50 dell’èra volgare, è pieno di elogi intorno al sapere indiano, e d’altra parte s’incontrano non di raro nomi greci in iscrizioni indiane, sebbene talmente corrotti, da farci meravigliare, per esempio, dell’acutezza di chi seppe in Turamaya riconoscere il nome del re Tolomeo.

Ma se in qualche parte può dirsi generalmente vera la proposizione filosofica, che tuttociò che è possibile è anche reale, gli è appunto nella storia degl’influssi esercitati dai popoli sulle loro reciproche culture, sia per mezzo di amicizia o d’inimicizia. Si potrebbe affermare a priori, che i Greci e gl’Indiani dovevano influire gli uni sugli altri. Or questa azione si può essa rintracciare anche nella letteratura matematica? Ha camminato la civiltà anche in questo, come in tanti altri casi, da levante a ponente, secondo il corso quotidiano del Sole, o piuttosto non ha forse qui luogo un’eccezione a tale regola?

Non è la prima volta che si pongono tali questioni, e se tutto non cospira ad ingannarci, sembra che per dar loro adequata risposta convenga dividerle. Si deve, cioè, esattamente ricercare in quali parti delle matematiche pure ed applicate si riscontra similitudine fra gli scritti dei Greci e quelli degl’Indiani; si deve inoltre investigare, se le analogie sian di tal natura da doversi dichiarare piuttosto per mezzo di comunicazione reciproca, anzichè per mezzo d’invenzione separata ed indipendente.

Lo scopo di questa memoria è di eccitare le persone competenti ad una discussione comprensiva di tale argomento. A tal fine vogliamo qui passare in rivista alcune delle sopradette similitudini, che si riscontrano nell’astronomia, nell’astrologia e nel calcolo matematico delle due nazioni, arrestandoci alquanto più nella parte geometrica del loro sapere, sulla quale avremo occasione di fare alcune annotazioni su cose, per quanto sappiamo, non ancora avvertite. [p. 351 modifica]

Che qui si mettano in un fascio l’astronomia e l’astrologia, non offenderà gli astronomi dei nostri giorni. Non son molti anni, da che l’astrologia ha cessato di esser considerata come una scienza; e durante il lungo suo regno non ha mai rinnegato il suo vincolo coll’astronomia, che anzi sino a un certo punto usavasi considerare come la propedeutica di quella4. La cognizione di certe stelle, e le loro osservazioni dovettero certamente precedere la discussione sulle influenze dei vari astri e sul significato di questa o di quella costellazione. Così nacque l’astrologia, come sorella più giovane dell’astronomia: più seducente e meno severa di questa, trovò più numerosi e più appassionati cultori. Onde nulla ci meravigliamo che, per esempio, si siano conservate le opere astrologiche di Varāhamihira5, scrittore indiano del VI secolo di Cristo, mentre andò perduta la sua opera astronomica6.

Appunto presso Varāhamihira già fin dalla metà del passato secolo aveva il P. Pons notato le parole horâ e kendra, e raffrontatele con ὥρα e κέντρον7. Veramente non dappertutto, dove occorre, è impiegata la parola kendra per designare il centro di un circolo. Nel Surya Siddhânta, opera di cui si è servito Varāhamihira, e che quindi è a questo anteriore8, è impiegato kendra per significare la distanza di un pianeta da un centro di perturbazione9. Gioverà forse qui ricordare che presso Euclide la distanza da un centro, cioè il raggio, vien denominata ἡ ἐκ κέντρου, e che nei manoscritti greci la stessa sigla abbreviativa (un piccolo circolo con un punto centrale) [p. 352 modifica]ora si deve leggere κύκλος, ora κέντρον10, cosi che questo doppio significato del kendra nulla prova contro la sua derivazione dal greco11. Veramente ha la greca lingua colla sanscrita tal parentela d’origine, da render possibile anche questa similitudine di vocaboli senza ammettere una posteriore comunicazione; ma qui sembra necessario supporre questa comunicazione. Il greco κέντρον significa originariamente una punta, onde si può senza violenza estenderne il significato al punta o foro fatto con quella. Al contrario, non si conosce alcuna derivazione dell’indico kendra. Simile è il caso di liptà o liptikā12, nome del minuto, del quale nel sancrito non si conosce l’origine, mentre senza difficoltà vi si riconosce il greco λεπτὸν, frazione, originariamente il rotto o il ritagliato. Meno dubbia ancora è l’origine greca dei nomi delle costellazioni zodiacali notati fin dal 1827 da Whish presso Varâhamihira; e di altre parole, come trikona — τρίγωνος, jàmitra — διάμετρον, hibuka — ὑπογεῖον, ecc.13.

Con questo sembra dimostrato, che interpolazioni greche occorrono nel Surya-Siddhânta, e lo stesso è certamente provato rispetto a Varâhamihira. Il che non vuol poi significare, che prima non abbia già esistito un’astronomia indiana. Al contrario, nessuno ne nega l’esistenza; tutta la questione si risolve in questo, che alcuni credono indigena quell’astronomia primitiva, altri la vogliono derivare dalla China, ed altri finalmente, ai quali noi volentieri ci associamo, dalla Babilonide. Da quest’ultimo luogo certamente derivano le frazioni sessagesimali tanto degli Indiani che dei Greci; cosicchè, a dirla subito, dall’uso comune di quelle frazioni nulla si potrebbe arguire rispetto ad una comunicazione diretta fra Greci ed Indiani.

Qual’è l’epoca di quel libro più antico, del Surya-Siddhânta? A questo dobbiamo dar la risposta, che tante volte occorre nelle questioni di cronologia indiana: non lo sappiamo [p. 353 modifica]con precisione. L’opinione ch’esso appartenga al IV o al V secolo14, sembra appoggiarsi alla necessità di metterlo almeno uno o due secoli prima di Varâhamihira, e alla convenienza di non farlo tuttavia ascendere a tempi anteriori al 200 di Cristo. Quest’ultimo limite fu fissato per mezzo di una ingegnosa congettura. Nel principio dell’opera si dice, che Surya, il Sole, ne rivelò il contenuto ad Asura Maya, il demone Maya, il quale scrisse quanto gli fu rivelato. In questo demone, padre dell’astronomia, ha riconosciuto Weber15 il nome Turamaya, cioè Ptolemaios, naturalmente nessuno dei re di tal nome, ma l’astronomo alessandrino del II secolo di Cristo.

L’apparente temerità di questa congettura è molto diminuita dalla circostanza, che varie tradizioni indiane accennano alla Grecia, o più precisamente ad Alessandria, tutte le volte che vi si tratta delle origini dell’astronomia. Varâhamihira prese i nomi delle costellazioni dagli scritti astrologici di Yavaneçvarâcârya, cioè, del maestro jonico; or che i Yavanas siano Ionii o più precisamente Greci è altrettanto certo, quanto che Romaka Pura, sia null’altro che Roma. La città degli Ionii, Yavana Pura, posta circa nel mezzo fra Lauka a Romaka Pura, è nient’altro che Alessandria16. E l’astronomo Pauliça, che presso Albîrûnî (scrittore arabo dell’anno 1031) è denominato Paulus al-Yunâni, è stato identificato con Paolo d’Alessandria17. Anche della stessa persona del maestro ionico, o come talora è chiamato, dell’antico maestro ionico, pare siansi scoperte felicemente le tracce; un manoscritto infatti lo collega con Minarâja, che evidentemente è uno degli eroi della mitologia occidentale, forse il Mene degli Egiziani, o il Minos dei Greci18. [p. 354 modifica]

Riassumendo questi fatti, ai quali sarebbe possibile aggiungerne ancor altri19, risulta che in un’epoca, la quale comincia verso il 200 di Cristo, l’astronomia e l’astrologia alessandrina penetrarono nell’India e vi furono accolte con favore; che nello stesso tempo vi si fecero strada leggende mitiche, riferibili alle suddette scienze, quando pure queste ultime non siano giunte colà anche prima. Non crediamo del resto che sia in contraddizione con questi risultamenti l’ammettere, che l’astronomia alessandrina sia arrivata nell’India anche prima del II secolo; soltanto questa possibilità non è appoggiata ancora da testimonianze positive.

Questo per l’astronomia. Come sta il fatto per la matematica pura? Matematici, nel senso che noi intendiamo, finora non se ne trovarono nella letteratura dell’India. Gli scrittori che furono e sono tuttora studiati, come appartenenti alla matematica degl’indiani, Aryabhata (nato nel 476), Brahmagupta (nato nel 598), Bhâskarâcârya (nato nel 1114), erano astronomi, ed hanno soltanto consacrato alcuni capitoli dei loro trattati astronomici alle nozioni matematiche, considerate come sussidio della lor scienza. Appena è credibile, che questi scrittori, dei quali il più antico fu quasi contemporaneo di Varâhamihira, ignorassero le fonti greche, a cui questi attingeva; meno credibile ancora è, che conoscendole, non ne abbiano voluto prender notizia, siano pure quei greci scrittori stati più astrologi che astronomi, sia pure che i nominati indiani, dotati com’erano di proprio originale ingegno, non abbiamo voluto abbandonarsi passivamente ed interamente all’influsso dei maestri stranieri. È dunque congettura ben fondata, e della quale può aspettarsi conferma, questa, che la matematica dei Greci abbia lasciato qualche traccia negli scritti di quegli autori indiani.

A dir vero, per ciò che concerne l’aritmetica e l’algebra, non è stato possibile ottenere di ciò la dimostrazione; anzi non senza buona ragione si è dubitato, se un indiano abbia mai potuto in queste materie imparare qualche cosa dai Greci. Esistono veramente alcuni punti di similitudine; equazioni quadratiche si trovano risolute dagli uni e dagli altri; somme [p. 355 modifica]di quadrati e di cubi si trovano presso Brahmagupta20, e colle stesse formole presso Archimede ed Epafrodito21; i così detti problemi di fontane s’incontrano in Bhaskarâcârya non meno che negli scritti eroniani22. Tali analogie però non sono nè abbastanza numerose, nè abbastanza caratteristiche perchè possan servire come dimostrazione nel caso presente.

Più dimostrativo sembra un fatto notato dal Woepcke, di memoria non men cara ai matematici, che agli orientalisti23. Nel Lalitavistara, libro che non è matematico, nè astronomico, nè astrologico, si narra di un esame a cui dovette sottoporsi Budda ancor giovane. In questa occasione egli si mostra calcolatore tanto esperto, da poter assegnare il numero delle particelle elementari, che messe l’una in fila dell’altra occupano la lunghezza di un Yodjana, cioè, d’uno stadio indiano. Woepcke ha con ragione fatto notare, che il problema rassomiglia tanto a quello dell’Arenario d’Archimede, che non si può far a meno di pensare ad una comunicazione. Conferma il Woepcke questa congettura, facendo notare, che nelle misure impiegate così da Archimede, come dal Lalitavistara occorrono il grano di papavero, il dito e lo stadio. Onde egli, ammettendo che il Lalitavistara sia la fonte più antica, ravvisa un influsso della scienza indiana su Archimede. Su di che osserva l’autore delle Lezioni sulla letteratura indiana24: «L’epoca del Lalitavistara non è fissata con tanta precisione, che non si possa riguardare come possibile anche la supposizione contraria».

La conclusione di Woepcke non è dunque fuori d’ogni contestazione. Peccato, perchè volentieri noi vi daremmo la nostra adesione. Il modo con cui Archimede comincia il suo discorso, non vi contradirebbe. «Alcuni credono, o re Gelone, [p. 356 modifica]che il numero dei grani di arena sia illimitato. Parlo non già solo della arena che si trova intorno a Siracusa e in tutta la Sicilia, ma anche dell’altra che esiste in tutta la terra abitata ed inabitata. Altri poi non riguardano tal numero, come illimitato, ma dicono non esser mai stato nominato un altro numero maggiore di quello». In queste parole sembra implicata la confessione, che simili questioni già prima siano state da altri discusse. Archimede non pretende che due cose; l’una è di decider la questione coll’aiuto dei teoremi geometrici relativi al volume della sfera, l’altra è d’impiegare un sistema di progressione numerica già per l’avanti da lui immaginato. Di queste due cose non si trova nel Lalitavistara alcuna ombra. Non vi è dunque contraddizione alcuna.

La congettura di Woepcke sembra anzi favorita da più considerazioni generali. Ci sembra infatti che quel popolo, il quale mostrò sempre un’attitudine speculativa così grande per le meditazioni sui numeri, che secondo l’universale opinione inventò l’aritmetica di posizione25, che elevò l’algebra ad un punto raggiunto dagli occidentali soltanto nel secolo XVIII, abbia potuto anche fin da principio esser maestro anzichè discepolo. Tale congettura spiega altresì le incontrastabili, eppure enigmatiche tracce di notevoli cognizioni algebraiche presso i Greci di epoche comparativamente rimote26.

Non vogliam tuttavia tacere una difficoltà che qui si è presentata alla nostra mente. Nelle comparazioni di misure del Lalitavistara occorre frequentemente il rapporto 7; è questo un numero indiano27? Esso non è certamente neppur greco. Al più sappiamo da Erodoto, che i Babilonesi, oltre al cubito di 6 palmi avevano anche il cubito reale di 7 palmi. Tutto ben pensato, dobbiamo qui limitarci ad esprimere la speranza che [p. 357 modifica]riesca a futuri investigatori di dimostrare perentoriamente quell’influsso greco-indiano nel campo aritmetico-algebrico, che oggi si può piuttosto indovinare, anzichè provare.

Nel campo della geometria si hanno invece ragioni generali per ammettere un influsso dei Greci sugli Indiani. Anche quegli scrittori, come Hankel28, che più decisamente si sono pronunziati in favore d’uno sviluppo originale nella geometria indiana, sono costretti a concedere, che presso gli Indiani non si trova alcuna traccia di dimostrazioni rigorose e costruttive. Per tutto dov’è possibile, essi si fondano sul calcolo, perdendo affatto d’occhio la base geometrica della questione, la quale non ricomparisce che quando si tratta di concludere. E quando di verità geometriche non si può dare altra dimostrazione, che geometrica, essi si contentano di far appello all’occhio del discente. Guarda! essi gli dicono, e questa ispezione deve bastare a mostrar come evidenti congruenze e similitudini di figure. Non sappiamo affatto capire, come per questa strada si potesse arrivare a scoperte geometriche, e meno ancora, come di queste derivazioni algebriche si potessero perdere le tracce presso un popolo così avvezzo alle considerazioni d’algebra. Noi siamo avvezzi a constatare regressi nella scienza tutte le volte ch’essa è venuta a conflitto sia col sentimento popolare, sia colla religione, oppure con prodotti superstiziosi del sentimento religioso; la storia dell’astronomia offre di ciò numerosi esempi. Ma in una scienza così neutrale rispetto alla religione e a tutto il resto, com’è la geometria, un regresso simile a quello che si può constatare quando da Brahmagupta si scende a Bhâskarâcarya, ci sembra comprensibile soltanto quando si tratti principalmente di nozioni straniere trapiantate in modo non naturale sul terreno indiano.

E del resto noi non siamo i primi a pretendere che la geometria indiana derivi in tutto o almeno in massima parte da Alessandria. Già soli più di 20 anni, che Th. H. Martin ha espresso la stessa opinione, nelle sue ricerche sopra Erone alessandrino, alle quali altrove già rendemmo completa giustizia29. A ciò egli si vale dell’espressione linea del vertice, la [p. 358 modifica]quale si trova noti solamente presso gli Egiziani, e dipendentemente da questi presso Erone e presso i Romani, ma anche presso gli Indiani30: della ricorrenza di alcuni speciali triangoli, specialmente dei triangoli rettangoli 3, 4, 5 e 5 12, 13, come pure dell’obbliquangolo 13, 14, 15: della formola per l’area di un quadrilatero inscrittibile, la quale posto uno dei lati , si cambia nelle formola data da Erone per l’area di un triangolo qualunque e per la quale egli crede di dover supporre la cognizione presso Erone anche nella forma relativa al quadrilatero.

Hankel ha opposto31, che l’espressione relativa alla linea pel vertice è talmente naturale, da poter esser stata usata indipendentemente. Questo è certamente possibile, tuttavia è singolare che tanto presso gli Egiziani quanto presso gli Indiani quella denominazione sia stata usata soltanto da geometri calcolatori.

Alquanto più fondate, ma tuttavia non cogenti sono le obbiezioni ch’egli fa rispetto ai tre triangoli razionali. Chi possedeva il teorema di Pitagora, e le formule inservienti alla creazione di triangoli rettangoli razionali

poteva facilmente giungere ai triangoli rettangoli 3, 4, 5 e 5, 12, 13 col porre prima: , poi , . Poteva inoltre il triangolo 3, 4, 5, col prendere una scala tre volte più piccola, o col triplicarne la misura, dare origine all’altro 9, 12, 15. Quest’ultimo applicato al triangolo 5, 12, 13 per il comune cateto 12 dava il triangolo scaleno razionale 13, 14, 15. Bene; ma ciò suppone sempre: 1.° che si conoscesse il teorema di Pitagora; 2.° che si avessero le formule pei triangoli razionali rettangoli; 3.° che si conoscesse il metodo di produrre un nuovo triangolo razionale coll’applicare due triangoli l’uno presso l’altro. Tutte queste supposizioni si verificano, com’è noto, per gli Alessandrini; riguardo alle due prime cose lo si sa da molto tempo, riguardo alla terza abbiam dimostrato noi primi presso Erone d’Alessandria32, che i suoi triangoli [p. 359 modifica]rettangoli adiacenti, τρίγωνα ὀρθογώνια ἡνωμένα, non posson esser intesi in altro senso che in quello della composizione qui sopra indicata di due triangoli razionali per formarne un terzo. Egli è vero, tutte queste tre cose si trovano di nuovo sul terreno dell’India. Dovremo anche qui ammettere due potenze di riflessione distinte, capaci di giungere indipendentemente a due ordini d’idee coincidenti esattamente fin nelle ultime particolarità? Hankel medesimo ha così ben dimostrato33 che la formula di Brahmagupta per i quadrilateri probabilissimamente è stata proposta soltanto per trapezi e per tetragoni, che sembra dovuta ad un accidente la validità di quella forma per tutti i quadrilateri inscrittibili. Egli ha riconosciuto nei trapezi dei quadrilateri formati appunto da quattro triangoli rettangoli applicati gli uni contro gli altri; nei tetragoni, figure da noi oggi denominate trapezi paralleli simmetrici. Dovremo ancora qui far notare che appunto questi tetragoni corrispondono al τραπέζιον ἰσοσκελὲς di Erone34, la figura prediletta degli agrimensori egiziani già prima di Erone?

Nè di maggior peso sembra l’affermazione, con cui Hankel chiude la sua polemica35: «Come dimostrazione della totale indipendenza, della geometria indiana da Erone si può addurre la formula di quest’ultimo per il calcolo dell’area di un triangolo equilatero , la quale si trova presso gl’Indiani, e tuttavia sembra indubitato, che se questi avessero conosciuto in qualunque modo la geometria eroniana, tal formula avrebbe dovuto da essi esser notata a preferenza di qualunque altra». Noteremo qui anche, per ciò che deve seguire, che la sostanza della formula suddetta dipende dal fare ossia . Per adempire al desiderio di Henkel basterebbe dunque dimostrare che gli Indiani conoscevano questa approssimazione pel valore di . Ma quanto sapeva Hankel, quanto sapevamo noi tutti qualche tempo fa della geometria indiana, per poter dire apoditticamente, questo o quel teorema non vi si trova! Ci basterà ricordare alcune indubitate derivazioni della geometria di [p. 360 modifica]Erone, per esempio la geometria di Epafrodito, di Nipso, dell’Anonimo di Chartres, di Gerberto, presso i quali tutti manca l’accennato teorema del triangolo equilatero. E si vorrebbe per questo credere, che la geometria dei Romani e quella del medio evo sia indipendente da Erone? Ci pare che sia più conveniente studiare quanto si ha, anzichè fantasticare su quello che manca.

Rispetto alla geometria greca ed indiana piuttosto erano da considerare le false formole d’approssimazione degli Egiziani e degli scritti eroniani e degli altri che da questi dipendono, per il calcolo dell’area dei triangoli e dei quadrilateri qualunque: le quali si trovano presso Brahmagupta36 ed alle quali Martin prestò poca attenzione37, Hankel nessuna affatto. Con queste formule è collegata un’altra per la cubatura dei solidi38, nota a tutti lettori di Erone. Piuttosto era da considerare che le aree di cui si assegna la misura presso Brahmagupta e i suoi commentatori per mezzo di linee ausiliarie vengono divise in figure più semplici, precisamente come si usa presso Erone d’Alessandria. Piuttosto era da chiamar l’attenzione sul capitolo: Misura col mezzo delle ombre, che si trova presso Brahmagupta39 e che forma parte essenziale dell’agrimensura derivata dai Greci, fino a Gerberto ed anche dopo di lui.

Gli esempi di coincidenza della geometria greca e dell’indiana si trovano dunque già abbastanza numerosi nei fatti conosciuti a quelli che prima trattarono quest’argomento. Ma dopo il 1875 le nostre notizie sulla geometria indiana si sono notabilmente accresciute. Un giovane dotto tedesco, il dottor G. Thibaut di Heidelberga, ora professore al Collegio di Benares, ebbe la felice idea di cercare tracce della geometria [p. 361 modifica]indiana in una classe di scritti finora non esaminati sotto quest’aspetto, sebbene Burnell già vi avesse fatto accenno40.

I riti indiani contengono certe prescrizioni, per adempire le quali colla più scrupolosa esattezza occorrono regole di geometria. Se l’altare non è costruito esattamente secondo la forma prescritta, se un lato non è esattamente perpendicolare ad un altro, se vi è qualche errore nell’orientazione, la divinità non aggradisce il sacrifizio. Idea questa terribile per un Indiano, il quale non vede nel sacrifizio che una specie di contratto formale, una specie di scambio colla divinità, e non può quindi sperare di veder adempiti i suoi desideri, se quella non gradisce l’offerta. Le prescrizioni rituali relative ai sacrifizi si trovano nei così detti Kalpasutra, e ad ogni Kalpasutra corrispondeva come suddivisione, a quanto pare, un Çulvasûtra, che contiene appunto le regole geometriche in questione.

Thibaut ha esaminato tre di questi Çulvasûtra41, cui si danno per autori Baudhàyana, Apastamba e Kātyàyana, e si è mostrato in questa ricerca così esperto matematico e calcolatore, che la storia delle matematiche ha diritto di sperare da lui accrescimenti non meno nuovi che esatti, quand’egli seguendo l’incominciata via continui a cercare traccie di notizie matematiche negli scritti non astronomici della letteratura sanscrita.

Abbiamo già detto, che la forma dell’altare è riguardata come essenziale. Essa ha cambiato, prendendo col tempo diverse figure, che per ogni mente non indiana toccano il ridicolo. Qual europeo può immaginarsi di costruire un altare in forma di un falco o d’un altro uccello, d’una ruota di carro, ecc.? Ma tutte queste forme sono regolate da due leggi matematiche, a ciascuna delle quali corrisponde un gruppo speciale di problemi42. [p. 362 modifica]

Se si aggrandisce un altare di data figura, deve la sua forma rimaner identica nelle sue proporzioni. Si deve dunque: 1.° saper costruire una figura simile ad una data, e avente con quella un rapporto dato di grandezza.

La superficie dell’altare di dimensioni normali è sempre la stessa; qualunque ne sia la forma. Dunque si deve: 2.° saper convertire una figura in un’altra di eguale area.

Rispetto alla prima legge, ricorderemo l’analogo caso che occorre nelle leggende dei Greci anche a proposito di una costruzione religiosa. Già il lettore indovina, che noi vogliamo parlare della duplicazione del cubo. Eratostene racconta, aver Minos fatto erigere a Glauco un sepolcro dì forma cubica; che avendo egli saputo ogni lato del cubo esser di soli 100 piedi, diede all’architetto l’ordine seguente, espresso in versi da Euripide, tragico:

Μικρὸν γ´ἔλεξας βασιλικοῦ σηκὸν τάφου.
Διπλάσιος ἔστω, τπῦ κύβου δὲ μὴ σφαλὴς.
Piccola di troppo hai fatto la regïa tomba,
Doppia la voglio. Nè manchi la forma di cubo.

Un problema affatto simile, continua Eratostene, fu proposto ai Delii, quando cercavano il modo di liberarsi da una peste sopravvenuta. L’oracolo disse che essi dovevano raddoppiare l’altare di Apolline senza mutarne la forma; ond’essi mandarono a chiedere ai geometri della scuola di Platone nell’Academia le regole necessarie per eseguir quella operazione. Di queste leggende, la più recente è di epoca abbastanza facile a determinare, compresa cioè tra Platone (429-348) ed Eratostene (276-194), più vicina però al primo: cade dunque nella 2a metà del IV secolo prima di G. C. La più antica è in ogni caso anteriore ad Euripide (485-406), e quindi anteriore almeno di un secolo alla spedizione di Alessandro; essa risale fino a quel re Minos, che, come sopra fu detto, sembra nominato nell’astronomia mitica dell’India.

A quanto si può congetturare dalle ricerche di Thibaut, pare che gl’Indiani si siano contentati di conservare la forma della superfice superiore dell’altare, problema assai più facile: e poichè le superfici simili piane stanno fra loro come i quadrati dei lati omologhi, essi abbisognavano a ciò della sola estrazione di radici quadrate, il che potevano fare, sia col [p. 363 modifica]calcolo, sia con disegno. Del resto, anche per la similitudine nelle 3 dimensioni il calcolo degli Indiani del VII secolo avrebbe bastato, poichè Brahmagupta sapeva benissimo estrarre la radice cuba43. Si potrebbe dunque proporre la questione, se gl’Indiani abbiano considerato il caso di tre dimensioni; ma alla sua decisione mancano i documenti. Vediamo dunque come nei Çulvasûtras si pratica l’estrazione della radice quadrata secondo l’uno e l’altro dei metodi qui or ora accennati.

Per la duplicazione aritmetica delle figure danno Baudhayana ed Apastamba44 il valore approssimativo

Thibaut ha cercato d’indovinare il calcolo che ha dato origine a questo risultamento. Egli immagina, che gl’Indiani avessero formata una tavola dei doppi quadrati dei numeri naturali, per esempio da 1 fino a 20, scrivendo accanto a ciascuno quel quadrato perfetto che più gli si avvicina in valore, come appare dalla seguente tavola:

2 × 12 = 2            4 = 22
2 × 22 = 8            9 = 32
2 × 32 = 18            16 = 42
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2 × 82 = 18            121 = 112
2 × 92 = 162            169 = 132
2 × 102 = 200            196 = 142
2 × 112 = 242            256 = 162
2 × 122 = 288            289 = 172
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2 × 202 = 800            786 = 282

Da questa lista si riconosceva subito, che prossimamente era 2 × 122 = 172, onde . Questo valore però era alquanto in eccesso, perchè il quadrato fatto su 17 unità di lunghezza contiene 289 unità di area, invece [p. 364 modifica]di 288 che dovrebbero essere. Ora l’unità eccedente di area potea immaginarsi ripartita in una lista sottile uniforme, occupante due lati contigui del quadrato. La lunghezza dei 2 lati insieme presi essendo 34, la larghezza di tal lista dovea esser quasi esattamente , e togliendola dal quadrato di lato 17 restava un quadrato di lato ; quindi con molta maggior esattezza , che dà

.

Non possiamo che congratularci con un filologo capace di entrare in riflessioni di questa natura. Dobbiam però avvertire due circostanze. La prima è che qui la radice quadrata è espressa in frazioni di numeratore 1, uso famigliare agli Egiziani ed ai Greci. Secondo, che la lista in forma di squadra, che bisogna sottrarre dal quadrato di lato 17, e che equivale anch’essa ad un quadrato, è una figura appartenente alla geometria dei Greci, e, per es., presso Erone porta il nome di gnomone45.

L’estrazione grafica della radice quadrata si appoggiava, come è da aspettarsi, sul teorema di Pitagora. È da notare, che nel testo indiano non si parla di triangolo rettangolo, ma l’ipotenusa è considerata come diagonale di un rettangolo, e che inoltre è fatta distinzione fra il caso in cui quel rettangolo è di lati uguali e il caso dei lati disuguali; ossia fra il caso in cui la radice si deve estrarre dal numero 2, e quello in cui si tratta d’un altro numero.

«La corda tesa (obliquamente) a traverso un rettangolo di lati uguali produce il quadrato di area doppia46».

«La corda tesa (obliquamente) a traverso di un rettangolo allungato produce le due aree che nascono tendendola sul lato maggiore e sul lato minore47».

Questo è a un dipresso l’enunziato di Baudhàyana. [p. 365 modifica]Dimostrazioni non ve ne sono. Pel primo caso crede Thibaut, che sarebbe nell’indole della mente indiana dividere per metà con una diagonale i quadrati dei 2 cateti, e in quattro parti colle due diagonali il quadrato dell’ipotenusa, onde risulta evidente a prima vista l’eguaglianza di tutti i triangoli minori cosi formati, e quindi anche delle somme dei medesimi presi 4 a 4 (fig. 1). Il secondo caso, come espressamente dice Baudhâyana48, si riconosce dai rettangoli, i cui lati sono 3 e 4; 12 e 5; 15 e 8; 7 e 24; 12 e 35; 15 e 36.

Fig. 1.

Qui ci permettiamo tre osservazioni, che non sembrano prive d’importanza. Thibaut ha già notato, come l’ultimo dei triangoli rettangoli razionali qui nominati da Baudhâyana, quello coi cateti 15 e 36, è lo stesso che quello di cateti 12 e 5, mutate le dimensioni. Or qui domandiamo, se una simile tautologia dimostri, in chi se n’è reso colpevole, una intelligenza molto profonda dell’argomento?

La seconda osservazione riguarda la divisione del teorema pitagorico in due proposizioni distinte. Il provare una verità geometrica generale su casi particolari è abitudine propria dei Greci. Partendo direttamente da notizie sulla letteratura matematica dei Greci. S. Günther ha cercato49 di restituire la dimostrazione che del teorema pitagorico davano gli antichi Pitagorici, e il suo tentativo coincide fin nei particolari con quella divisione in due casi che è indicata da Baudhâyana, e col modo proposto da Thibaut per la dimostrazione del primo caso. Nè occorre assicurare, che dietro le circostanze di tempo e di luogo è impossibile che Thibaut abbia avuto notizia del lavoro di Günther, o Günther di quello di Thibaut.

Da ultimo chiameremo l’attenzione su di un’analogia, che non sembra possibile considerare come semplice opera del caso. Anche nella geometria di Erone Alessandrino occorre il teorema pitagorico nel calcolo della diagonale di un rettangolo ancora [p. 366 modifica]prima che di triangoli si faccia parola. Anche colà, in due esempi consecutivi, si distingue fra la diagonale di un rettangolo equilatero e di un rettangolo non equilatero50.

Le applicazioni del teorema di Pitagora presso gli autori dei Çulvasûtras, consistono parte in addizioni, parte in sottrazioni di quadrati tali, che somma e residuo abbiano ancor forma di quadrati. Le due figure (fig. 2 e 3) bastano per far intendere al lettore moderno, che nella prima , nella seconda 51.

Fig. 2.Fig. 3.

Occorrendo il caso di sommare più quadrati uguali, o di trovare un quadrato multiplo intero d’un altro, si procede avanti passo passo, ottenendo prima un quadrato doppio, poi un triplo ecc.; e tutti questi casi sono considerati come problemi distinti, ai quali si danno nomi diversi52.

Un secondo gruppo di problemi insegna, come abbiamo detto, a convertire una figura in un’altra di area equivalente. Cominceremo a dire della conversione di un rettangolo in un quadrato, la quale è interessantissima per questo, che vi si fa uso del solo teorema di Pitagora, senza applicare il noto teorema euclideo della semicorda perpendicolare ad un diametro53. Infatti Baudhâyana opera così54: il rettangolo ABCD (fig. 4) [p. 367 modifica]sia a convertire in un quadrato. Si taglia il piccolo quadrato AEFD, che ora bisogna aumentare del rettangolo EBCF. Quest’ultimo si divide per metà colla GH, e la metà GBCH vien trasportata e applicata in FIKD al quadrato AEFD.

Cosi il rettangolo primitivo ABCD è trasformato nel gnomone AGHFIK, Fig. 4. cioè nella differenza dei due quadrati AGLK, FHLI. Or si sa ridurre in un quadrato la differenza di due quadrati; onde nessuna difficoltà più resta ad operare la trasformazione voluta.

Ma in questa classe di problemi assai più importanti pel nostro scopo sono quelli, che si riferiscono alla trasformazione di un quadrato in un circolo, e inversamente. Di questi due problemi, uno è stato già considerato con molta attenzione dagli storici della scienza. Quadratura del circolo è l’espressione tecnica di cui si fa uso, quando si tratta di trovar un quadrato d’area uguale a quella di un dato circolo, sia che ciò si voglia eseguire col calcolo o graficamente. Il problema inverso: costruire un circolo di area equivalente ad un dato quadrato, finora non è stato molto considerato. Ed anche non avevamo finora trovato di esso che una soluzione di Alberto Dürer, della quale abbiam parlato in un altro Fig. 5.luogo55. Forse per l’avvenire l’istoria delle matematiche dovrà occuparsi un poco anche di quest’altro problema, pel quale noi proponiamo il nome di arrotondamento del quadrato. In quanto segue, r rappresenterà il raggio del circolo, d il suo diametro α il lato, δ la diagonale del quadrato equivalente.

I Çulvasûtras56 contengono per l’arrotondamento del quadrato la seguente regola (fig. 5). Condotte le diagonali ACBD del quadrato e per E loro intersezione la KF parallela a due lati, dal [p. 368 modifica]centro E con raggio AE si descrive l’arco AF; il tratto cosi ottenuto FI si divide in 3 parti uguali in G, H. EH sarà allora il raggio del circolo domandato, equivalente al quadrato proposto.

Per la quadratura del circolo all’incontro Baudhâyana, Âpastamba e Kàtyâyana danno la regola , mentre il solo Baudhâyana aggiunge l’altra regola

Singolare costruzione, singolari regole! Vediamo se è possibile far qualche passo per riconoscere l’origine.

Già a Thibaut è riuscito di identificare la regola di Baudhâyana per la quadratura del circolo colla costruzione per l’arrotondamento del quadrato. Quella costruzione dà

ovvero, poichè , anche , . Ma il valore approssimato di presso gli Indiani era, come sopra si è veduto, : introducendo il quale valore in α si trova , o in frazioni più semplici, prossimamente

come Baudhâyana prescrive57.

La conversione in numeri dell’operazione grafica per l’arrotondamento del quadrato non domanda dunque altro, se non che si conosca un valore approssimato per . Che dappertutto e sempre sia stata impiegata per una stessa [p. 369 modifica]approssimazione, non è nè verosimile, nè vero. Noi sappiamo per esempio, che gli Ebrei del medio-evo facevano .58 Proponiamoci di cercare qual valore di può aver usato l’inventore della precedente costruzione per l’arrotondamento del quadrato.

In questa costruzione il tratto FI è diviso in tre parti: cosa naturale, se supponiamo, che si avesse FI=3. Lo stesso FI è esattamente . Intendendo ora che il simbolo indichi uguaglianza approssimativa, si avrà

, ossia ,

e quadrando, , onde , dove al si surroga il 14 per ottenere numeri intieri, cosa necessaria, se si desidera una comoda approssimazione. Quindi, avendosi , si ricava , e da ultimo .

La supposizione non solo è affatto tollerabile, non solo da per , il domandato FI = 3, ma conduce inoltre ad una sorprendente coincidenza. Infatti ora abbiamo , e poichè , ne ricaviamo , cioè esattamente la parola praticata in Occidente fino ad Alberto Dürer.

Non dissimuliamo, esservi qui una pericolosa obbiezione. Ammettendo che la costruzione di Dürer si appoggi ad , , a cagione di , ne deriva , mentre nelle nostre anteriori ricerche su questa costruzione59 abbiamo creduto riconoscervi il valore che già s’incontra presso Vitruvio, e che poi da M. Curtze fu trovato presso un gran [p. 370 modifica]numero di pratici. È quasi incredibile, che da una identica costruzione risultino due valori differenti di π.

Tuttavia, ciò che sembra poco credibile qui pare verificarsi. Infatti Vitruvio impiega non per la quadratura, ma per la rettificazione del circolo. Si potrebbe dunque benissimo immaginare, che la costruzione del Dürer originariamente fosse nata nel modo qui sopra da noi esposto. I suoi autori riconobbero, che era troppo poco, e era troppo; elessero dunque , a ciò condotti dalla possibilità di esprimere tutte le lunghezze in numeri interi col solo porre . Il luogo di questa invenzione immaginiamo fosse Alessandria, l’epoca piuttosto remota. Il problema della rettificazione del circolo fu in Grecia notabilmente più recente, nè possiamo farlo risalire al di là di Archimede. Forse anche in occasione di questo nuovo problema fu posto a base di nuovi calcoli il . Intanto il calcolo geometrico coll’aiuto degli irrazionali era divenuto di pieno dominio dei geometri alessandrini, e senza introdurre approssimazioni si potè mettere , , quindi , da cui il vitruviano .

Veniamo ora alla regola data in comune dai tre Çulvasûtras per ottenere la quadratura del circolo coll’equazione . Nessuno probabilmente ci contraddirà, quando diremo, il esser nè più nè meno che l’approssimazione alessandrina per , della quale si valse Erone pel calcolo dell’area del triangolo equilatero, e il cui uso ora dunque incontriamo anche nell’India!

Rispetto all’origine della formula esistono diverse possibilità, delle quali vogliamo addurre almeno due. Da segue , il valore che in altra occasione [p. 371 modifica]abbiam dimostrato di provenienza babilonica60 e che (ciò che allora dimenticammo di far notare) si conservò nell’India fino a Brahmagupta61. Si può anche intendere il come di quella formula notando, che è evidentemente l’altezza del triangolo equilatero costruito sul diametro come base. Sebbene finora nessuna traccia si ha presso i Greci dell’uso di un tale triangolo in tentativi di quadratura, tuttavia esiste una relazione, degna di esser nota, ed a cui già altrove abbiam fatto allusione quasi senza avvedercene62. Erone Alessandrino dà per area del triangolo equilatero , invece per l’altezza non già come sembrerebbe naturale, ma definisce quest’altezza sottrattivamente, col togliere da un lato successivamente e . ossia in tutto 63. Ed anche sottrattivamente operano Çulvasûtras: «Dividi il diametro in 15 parti e levane 2. Ciò che resta, è press’a poco il lato del quadrato».

Non abbiamo dissimulato le difficoltà ed i dubbi che restano nelle nostre ipotesi. Anche non abbiam la pretesa, che a queste nostre opinioni si conceda il grado di verità storiche: è possibile che si trovino altre e migliori spiegazioni dei fatti accertati. Ciò che non possiamo ammettere come dubbio, perchè si manifesta da tutti i lati, è la connessione fra la geometria greca e indiana anche nei capitoli concernenti la misura del circolo.

Volgiamoci da ultimo ad un argomento che osiamo dichiarare importante e pieno d’interesse. Si tratta dell’orientamento degli altari, e della loro disposizione ad angoli esattamente retti. La prima e più importante parte consiste nel tracciare il pracî, cioè la linea est-ovest64. Chi non pensa subito al [p. 372 modifica]decumanus degli agrimensori romani?65 La regola dei Çulvasûtras per tracciar questa linea con osservazioni astronomiche non è stata ancora pubblicata da Thibaut. All’incontro si trova un procedimento per tale scopo nel Surya-Siddhânta66, e questo è identico a quello trasmessoci da Vitruvio67, che consiste nell’osservazione di due ombre uguali dello stesso gnomone in un medesimo giorno, prima e dopo del mezzodi.

Partendo dal prâcî, si traccia ora una perpendicolare coll’aiuto di una fune. La lunghezza del prâcî, Fig. 6. ossia la misura est-ovest del santuario sia di 36 padas. Alle due estremità del medesimo si fissano nel terreno due piuoli68. A questi si raccomandano le estremità di una corda lunga 54 padas, e portante un nodo alla distanza di 15 padas da una delle sue estremità. Preso in mano il nodo e tesa la corda, si forma un angolo retto presso quella estremità del prâcî. La verità di questo risultato è evidente; infatti la lunghezza del prâcî, cioè 36 e le due parti della corda 15 e 39 formano un triangolo rettangolo, de’ cui lati le proporzioni ridotte in minimi numeri sono 13, 12 e 5.

Questo metodo di tendere una corda per costruire un angolo retto si incontra anche altrove. Di funi tese infatti si vale Erone (§ 25 della sua Diottrica)69 per ristabilire coll’aiuto del piano topografico i termini di una possessione, perduti ad eccezione di due o di tre. Il tendere funi era pure l’occupazione principale degli Arpedonapti (letteralmente tenditori di funi)70, [p. 373 modifica]rispetto alla quale Democrito si vantava71: «Nel costruir linee secondo le conclusioni discendenti dalle premesse nessuno mi ha superato, neppure gli Arpedonapti degli Egiziani». Essi erano evidentemente gli aiutanti degli architetti dei templi, o forse questi architetti stessi: fra’ cui doveri era questo di assicurare, con una corda tesa fra due piuoli, la perpendicolarità fra i lati dell’edilizio.

Che ciò non sia una vana supposizione è confermato da testi egiziani nominatici dal nostro amico Augusto Eisenlohr, quando gli parlammo dell’opinione poco sopra enunziata. Di uno di tali testi, concernente la fondazione del tempio di Edfu, si occuparono due fra i più chiari egittologi. Dei risultati di Dümichen è importante per noi questo, che la fondazione del tempio ebbe luogo il 23 agosto dell’anno 237 prima di Cristo72. Dalla memoria di Brugsch sulla costruzione e sulle misure del tempio di Edfu ricaviamo la descrizione del collocamento della pietra fondamentale, come è rappresentata sulle pareti dei templi di Dendera, di Tebe, di Esne e di Edfu73:

«La scena principale rappresenta il re nella sua qualità di luogotenente di Thoth, ne’ suoi più splendidi ornamenti, in compagnia di Safeχ, Dea delle biblioteche, che presiede alla fondazione. Ambi questi personaggi tengono nella destra una specie di mazza, con cui piantano in terra un lungo piuolo. Ambi i piuoli si trovano nell’interno di una fune piegata circolarmente e legata alle sue estremità, la quale, come sembra, dev’esser tesa dai piuoli in modo da pendere liberamente verso il mezzo della loro lunghezza». L’operazione stessa vien denominata la tensione della fune (pet keser) ed al re sono poste in bocca le seguenti parole: «Io ho preso in mano il piuolo (nebi) e il manico della mazza (semes), io tengo la corda (χa) in compagnia della dea Safeχ. Il mio sguardo segue il corso [p. 374 modifica]degli astri. Quando il mio occhio sarà giunto alle stelle della Grande Orsa, e l’orologio avrà compiuto l’intervallo che mi è stabilito, io fisserò l’angolo di questa casa divina».

È certamente inutile aggiungere qui una sillaba di spiegazione. Il testo egiziano e il testo indiano si completano troppo bene, e insieme colle parole di Democrito concorrono a dimostrare, che il processo di tender la fune era abituale in Egitto già al tempo del Saggio d’Abdera, cioè verso la metà del secolo V prima di Cristo.

Quale antichità possono opporre a questa i Çulvasûtras? Non a caso abbiam riservato l’ultimo luogo a questa interrogazione. Ma coloro cui spetta rispondere, non danno su ciò luce molto soddisfacente. Su Kâtyâyana Weber si esprime cosi74: «La formazione della parola coll’affisso âyana ci porterebbe al tempo in cui le scuole (âyana) erano definitivamente costituite. Che che sia di ciò, nomi così formati si trovano solo di raro nei Brahmana, ed anche solo nelle loro parti meno antiche, quindi in generale indicano sempre un’epoca piuttosto moderna». Ciò che si dice di Kâtyâyana, vale naturalmente anche per Baudhâyana: il portatore di un nome di egual formazione, Açvalâyana vien riferito al tempo del grammatico Panini che forse non viveva prima del 140 di Cristo75. Ed anche Thibaut76 circa l’epoca, in cui i Çulvasûtras han preso la loro forma presente non sa affermar altro, se non che egli crede, i precetti ivi contenuti esser molto più antichi degli scritti stessi. Egli pensa che molte di quelle regole si sian tramandate per tradizione, e dice ciò risultare dalla forma in cui son espresse. Da ultimo sembra ritenere per evidente, che tutta la scienza geometrica ivi contenuta sia d’origine indiana, sebbene ciò non sia da lui espressamente affermato.

Naturalmente noi abbiamo nulla da opporre alle ragioni filologiche, sulle quali si fonda codesto giudizio. Crediamo però di avere con fatti dimostrato ch’esso non sussiste. Le coincidenze fra la geometria greca e l’indiana sono troppo numerose, perchè si possa pensare a due sviluppi affatto indipendenti. Noi dovremmo ammettere una certa connessione storica quand’anche fosse dimostrata la totale indipendenza nelle scienze [p. 375 modifica]affini. Ciò posto, non resta che una questione: se la geometria indiana abbia accolto in sè qualche parte essenziale della greca, o la greca dell’indiana: e su questo non possiamo aver il minimo dubbio.

Già, al principio delle nostre ricerche geometriche abbiam riconosciuto, che ragioni d’indole generale parlano in favore d’un influsso dell’occidente sull’oriente. Abbiamo poi dimostrato, che quelle particolarità, nelle quali una comunicazione si rende manifesta, sono in ogni caso molto antiche nella Grecia e nell’Egitto, mentre la loro data nell’India è affatto incerta. Noi speriamo che il concorso di queste ragioni basterà a render manifesta la verità della nostra opinione che riassumiamo nelle proposizioni seguenti:

La matematica indiana e la greca (specialmente alessandrina) non si sono sviluppate in modo intieramente indipendente. Quanto ora ne sappiamo ci dà ragione di pensare, che gl’Indiani siano stati maestri dei Greci nelle cose di aritmetica e di algebra: che in ogni caso essi sono stati discepoli dei Greci nelle cose d’astrologia, d’astronomia e di geometria.



  1. Alb. Weber, Akademische Vortesungen über indische Literaturgeschichte. 2° Auflage (Berlin, 1876), p. 3 nota 2. Citeremo sempre quest’opera coll’abbreviazione: Weber, Literaturgesch. Le nostre trascrizioni di parole sanscritte saranno sempre fatte secondo le regole osservate dal Weber.
  2. Burnell, Elements of South Indian Paleography (Mangalore, 1874), p. 5, nota 1.
  3. Weber, Literaturgesch, p. 269 e seg. Cfr. ancora H. Hankel, Zur Geschichte der Mathematik in Alterthum und Mittelalter (Leipzig, 1874), pp. 176-178. Quest’ultima opera sarà da noi citata col titolo: Hankel.
  4. Questo pensiero, certamente giusto, è stato espresso da A. H. Sayce, a proposito dell’antichissima astrologia dei babilonesi.
  5. Varahamihira morì nel 587 di Cristo, secondo relazioni di Amarâja. Bhatta Utpala inette il suo fiorire dopo il 595. Cfr. Bhau Daji, On the age and authenticity af the works of Aryabhata, Varâhamihira, Brahmagupta, Bhattotpata and Bhaskarâcârya, nel Journal of the Asiatic Society. New Series I (Londra, 1865), pp. 392-418.
  6. Journal of the American Oriental Society, vol. VI (New Haven, 1860), p. 317 della traduzione del Sûrya Siddhânta fatta da Burgess con annotazioni di Whitney.
  7. Weber, Literaturgesch., p. 273.
  8. Sûrya Siddhânta, p. 421.
  9. Sûrya Siddhânta, p. 202. Ivi, p. 215, la notizia, che kendra significhi anche, specialmente presso i commentatori, centro d’un circolo. Ivi pure, p. 178, horâ=ὥρα.
  10. Heronis Alexandrini, Geometricorum et Stereometricorum reliquiae (ed. Hultsch, Berlin, 1864).
  11. Una assai notevole analogia oltre anche il noto trattato di Giovanni Widmann da Eger, nel quale occorre questo passo: «Das centrum das ist die Zall dia do ist von centrusz bisz in winckel». (Il centro è il numero esprimente la distanza che vi è dal centro fino all’angolo).
  12. Surya Siddhânta, p. 158.
  13. weber, Literaturgesch., p. 272.
  14. Weber, Literaturgesch., p. 266.
  15. Indische Studien, II, 243, nella memoria intitolata: Zur Geschichte der indische Astrologie.
  16. Journal of the Asiatic Society (London, 1863), XX, p. 386, in una memoria di Kern.
  17. Weber, Indische Studien, II, p. 247. Secondo Schoell, Geschichte der Griechischen Literatur, ed. Pinder (Berlino, 1830), III, p. 334, Paolo Alessandrino scrisse (secondo quanto dice egli stesso, nell’anno 378 di Cristo), una introduzione all’astrologia, Εἰσαγωγὴ εἰς τὴν ἀποτελεσματικήν.
  18. V. Brockhaus, Ueber die Algebra des Bhâskara, nei Berichte ueber die Verhandlungen der K. Sachs. Gesell. der Wissenschaften in Leipzig. Phil. hist. Klasse, 1852, IV, pp. 18-19.
  19. Forse appartiene a questa categoria, per esempio, la cognizione che aveva Aryabhata del movimento rotatorio della terra, su di che però ora qui non occorre pronunziare.
  20. Cantor, Die Boemischen Agrimensoren und ihre Stellung in der Geschichte der Feldmesskunst (Leipzig, 1875), pp. 123 e 127. Citiamo questa monografia sotto il nome: Agrimensoren.
  21. Il luogo d’Archimede, che nello scrivere gli Agrimensoren c’era sfuggito dalla memoria, si trova nel libro delle Spirali, proposizione 10 (ed. Nizze, p. 125 e seg.).
  22. Agrimensoren, pp. 58-59.
  23. Journal Asiatique, 6e sèrie, tome I (Paris, 1863), p. 352 nello scritto di Woepcke intitolato: Mémoire sur la propagation des chiffres Indiens.
  24. Weber, Literaturgesch, p. 274, nota 280, dove si citano gl’Indische Studien, VIII. 325-326, e Reinaud, Mémoire sur l’Inde, p. 303.
  25. Nulla importa qui che si ammetta l’idea di Woepcke, secondo cui le cifre Gobar sarebbero lettere iniziali dei nomi numerali indiani nel secondo secolo, oppure che si voglia, come fa il Burchell (luogo citato, pp. 47-48, nota 2), supporre derivate quelle cifre da segni numerali non alfabetici che s’incontrano in iscrizioni d’ipogei appartenenti a quell’epoca.
  26. Più dimostrazioni di ciò si posson vedere nel nostro libro sugli Agrimensori Romani.
  27. La proporzione 7 abbiamo incontrato presso gl’Indiani una sol volta presso Bhâskara nel rapporto 1 dhâtaka = 14 vollas. Cfr. l’opera di Colebrooke, Algebra with Arithmetic and Mensuration from the Sanscrit (Londra, 1817), p. 2. La qual opera citeremo d’or innanzi brevemente col semplice nome: Colebrooke.
  28. Hankel, pp. 205-209. Prima di lui avevano sostenuto l’originalità della geometria indiana Libri ed Arneth.
  29. Mémoires présentés par divers Savants à l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettre. Serie I, tomo IV (Paris, 1854), pp. 164-176.
  30. Colebrooke, p. 72.
  31. Hankel, p. 210.
  32. Agrimensoren, p. 40 e nota 77.
  33. Henkel, pp. 212-215.
  34. Agrimensoren, p. 42.
  35. Henkel, p. 211.
  36. Colebrooke, p. 295: «The product of half the sides and countersides is the grossarea of a triangle and tetragon».
  37. Martin (loc. cit. nota 28), p. 176: «Dans ce qui reste de ces compilations grecques on remarque quelques expressions bizarres et des propositions inexaetes, qui ne viennent pas d’Héron, mais sans doute des arpenteurs égyptiens. Tout cela se retrouve dans les compilations des Brahmagupta et des Indiens postérieurs».
  38. Colebrooke, p. 312: «The area deduced from the moieties of the sums of the sides al top and bottom, being multiplied by the depth, is the practical measure of the content. Half the sum of the areas at top and bottom, multiplied by the depth, gives the gross content».
  39. Colebrooke, p. 317. Section IX, Measure by shadow.
  40. Burnell, Catalogue of a collection of Sanskrit manuscripts p. 29.
  41. The Çulvasûtras by G. Thibaut. Ph. D. Anglo-Sanscrit professor. Banāras College. Reprinted from the Journal of the Asiatic Society of Bengal. Part. I, for 1875. Citiamo questo scritto col nome: Thibaut.
  42. Thibaut, p. 5: «The area of every chiti, whatever its shape may be — falcon with curved wings, wheel, praüga, tortoise, etc., — had to be equal to 7½ square purushas. On the when hand, when at the second costruction of the altar one square purusha to be added to the 7½ constituting the first chiti, and when for the third construction 2 square purushas more were required, the shape of the whole, the relative proportions of the single parts had to reman unchanged».
  43. Colebrooke,pp. 279-280.
  44. Thibaut, pp. 13-15.
  45. Heronis, Geometria (ed. Hultsch, Berlin 1864), pp. 20-21, def. 58 e 59.
  46. Thibaut, p. 7.
  47. Thibaut, p. 8.
  48. Thibaut, p. 9.
  49. Ziele and Resultate der neueren mathematisch-historische Forschung, von Dr. Siegmund Günther. (Erlangen, 1876), p. 41 e seg.
  50. Heronis, Geometria (ed. Hultsch, Berlin 1864), pp. 51-52. Veramente i capitoli 8 e 9, di cui qui si parla, non esistono che in un solo codice parigino. Tuttavia la loro genuinità è forse confermata dal § 12 di Epafrodito (Agrimensoren, p. 209): Si fuerit trigonus paralelogramus hortogonius ecc, dove si cerca la diagonale di un rettangolo.
  51. Thibaut, p. 18.
  52. Thibaut, p. 16. Il lato del quadrato 2, 3, 10, 40 volte maggiore è chiamato deikarani, trikarani, daçakarani, catvarinçatkarani.
  53. Euclide, Elementi. Lib. II, prop. 14.
  54. Thibaut, p. 19.
  55. Agrimensoren, p. 88.
  56. Thibaut, pp. 26-28.
  57. La somma di quelle è alquanto maggiore di . Essa vale 0,878681... mentre ... la differenza importando 2 unità della sesta decimale. Dall’espressione di Baudhâyana si ricava π=3,0883...
  58. Vermischte Untersuchungen zur Geschichte der Mathematischen Wissenschaften von Dr. Siegmund Günther. (Lepzig, 1876), p. 304, nota ∗∗
  59. Agrimensoren, p. 88.
  60. Zeitschrift für Mathematik und Physik XX (Leipzig, 1875). Hist.-Lit. Abthellung, pp. 163-165.
  61. Colebrooke, p. 308.
  62. Agrimensoren, p. 40.
  63. Erone (ed. Hultsch, Berl., 1864), p. 58: Τριγώνου δὲ ἰσοπλεύρου τὴν κάθετον εὑρεῖν ποιεῖ οὕτως· ὑφέλε ἀεὶ τὸ ι´´ λ´´ τῆς μιᾶς τῶν πλευρῶν καὶ τὸ λοιπὸν ἔσται ὁ ἀριθμὸς τῆς καθέτου.
  64. Thibaut, pp. 9-10.
  65. Agrimensoren, p. 66.
  66. Surya-Siddhânta, p. 239.
  67. Agrimensoren, p 67.
  68. Cfr. anche A. Weber, Indische Studien X, 364 e XIII, 233 e segg.
  69. Agrimensoren, p. 25.
  70. Le strane interpretazioni affibbiate a questa disgraziata parola ἀρπεδονάπται possono leggersi nel Thesaurus Graecae linguae, ed. Dindorf (Paris, 1851-56). Tomo I, 2, p. 2032.
  71. Bretschneiden, Die Geometrie und die Geometer vor Euklides (Leipzig, I870), p. 12. Questo passo si trova presso Clemente Alessandrino, Stromateis, I, p. 357 (ed. Pott).
  72. Zeitschrift für Aegyptische Sprache und Alterthumskunde, herausgegeben von Lepsius, VIII, (Leipzig, 1870), p.7.
  73. Zeitschr. für Aeg. Spr. ecc. VIII, pp. 154-156. Disegni furono pubblicati da Brugsch, Recueil de monuments égyptiens (Leipzig, 1802). Tomo I, tav. 81, fig 4: e da Mariette, Dendera, description generale du grand temple de cette ville (Paris, 1870). Tomo I, pl. 20. Cfr. ancora Brugsch, Demotisches Wörterbuch (Leipzig, 1867), p. 327.
  74. Weber, Literaturgesch., p. 236.
  75. Weber, Literaturgeschichte, p. 236.
  76. Thibaut, pp. 44-45.